Home 2011 5 Settembre
5 settembre
Finanziamenti alla ricerca dell’Unione Europea PDF Stampa E-mail
Lo scorso 19 luglio a Bruxelles Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea per la ricerca, l’innovazione e la scienza ha annunciato lo stanziamento da parte dell’Unione Europea di sette miliardi di euro per dare impulso all’innovazione in Europa attraverso la ricerca.  Questo pacchetto di finanziamenti, che rientra nel Settimo Programma Quadro europeo (7°PQ), è il più cospicuo mai messo in atto dalla Commissione Europea e supporterà i ricercatori europei nelle grandi sfide sociali che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi anni. Oltre a creare circa 174 mila nuovi posti di lavoro nel breve periodo, queste sovvenzioni dovrebbero far aumentare il Pil di ben 80 miliardi di Euro. I finanziamenti alla ricerca sono fra le principali priorità dell’agenda politica dell’Unione Europea, e sono al centro dell’Unione dell’innovazione (IP/10/1288, MEMO/10/473), supportata nell’ambito della strategia Europa 2020. “La crisi economica non è un motivo per ridurre i finanziamenti alla ricerca ma semmai una valida ragione per incrementarli. L’Europa sta dando l’ennesima dimostrazione del proprio impegno a porre la ricerca e l’innovazione in cima all’agenda strategica per la crescita e l’occupazione. La competizione a livello europeo per ottenere questi finanziamenti riunirà i migliori ricercatori e innovatori d’Europa per affrontare i problemi maggiori del nostro tempo, come l’energia, la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, i cambiamenti climatici e l’invecchiamento della popolazione” ha dichiarato la commissaria.
(Fonte: S. Guglielmi, archeomolise.it 19-06-2011)
 
Studiare diritti digital a Harvard PDF Stampa E-mail

Giuseppe Mazziotti è uno degli unici due italiani selezionati nel 2011 per una “fellowship” al Berkman Center for Internet and Society dell’università di Harvard. Partito dall’Italia, ha insegnato a Copenhagen, fatto ricerca a New York e ora approda in «una comunità di professori e ricercatori probabilmente senza confronti nel resto del mondo». Studia diritti digital e la sua ricerca riguarderà le cause europee subite da Google per violazione del copyright.

Come si diventa fellow di Harvard? Che cosa significa concretamente?

Nel mio caso, la fellowship di Harvard è arrivata dopo un anno di lavoro e ricerca alla Columbia University di New York, con il generoso sostegno dell’Università di Copenhagen, e dopo varie pubblicazioni internazionali e collaborazioni a progetti europei in materia di diritto d’autore, diritto dell’informazione e delle nuove tecnologie. Sono molto in debito con il Centro NEXA del Politecnico di Torino, e in particolare con Marco Ricolfi e Juan Carlos de Martin, che mi hanno sempre incoraggiato e coinvolto nel loro lavoro sulle licenze Creative Commons e su temi avvincenti riguardanti Internet e il diritto nel suo complesso. A Harvard avrò la possibilità di sviluppare la mia ricerca nell’ambito di una comunità di professori e ricercatori probabilmente senza confronti nel resto del mondo, e di poter esporre i risultati del mio lavoro a una platea globale di lettori e critici. Il lavoro avrà una dimensione tanto individuale quanto di gruppo.

Quando e perché hai scelto di andare via dall’Italia e andare a insegnare a Copenhagen?

Nell´autunno del 2008. Si è trattato di una scelta quasi obbligata, quando ho deciso di mettere in qualche modo a frutto il dottorato di ricerca conseguito all’Istituto Universitario Europeo (IUE) di Firenze. Sapevo che, volendo restare in Europa, avrei dovuto cercare un lavoro nelle università del nord dell’Europa: Inghilterra, Olanda o Scandinavia. Prima di iniziare all’Università di Copenhagen, ho lavorato due anni con lo studio legale Nunziante Magrone a Roma, con cui collaboro ancora e con il quale ho oggi rapporti eccellenti. Lo studio mi lasciò grande libertà nello sviluppare le mie idee, le mie ricerche e nel curare le pubblicazioni più importanti, dandomi la possibilità di rafforzare il mio profilo a livello internazionale. Posso senz’altro dire che il mio distacco dall’Italia, almeno professionalmente, è iniziato sin dai tempi del dottorato, che ho conseguito in un’università non italiana nella quale ho beneficiato di un ambiente internazionale, molto libero e meno gerarchico di quello italiano. Probabilmente non avrei intrapreso la carriera accademica se non avessi ottenuto una borsa di studio all’IUE. La situazione che avevo di fronte all’Università di Perugia, dove mi sono laureato, non era incoraggiante e non avevo prospettive di lavoro concrete. A Copenhagen lavoro da due anni e mezzo e ho ancora un anno di contratto davanti a me. Poi si vedrà.

Pensi di ritornare in Italia, una volta conclusa la tua esperienza negli Stati Uniti?

Sarebbe bello tornare in Italia a lavorare, anche perché devo tutto al sistema d’istruzione pubblico e gratuito del mio Paese, e vorrei in qualche modo ripagare l’investimento che l’Italia ha realizzato per me. Non vedo però al momento grandi possibilità, almeno per un lavoro stabile in ambito accademico. Sono però felice di collaborare, ormai da anni, con le università di Sassari e Roma Tre, che mi hanno permesso di sviluppare attività didattiche anche in Italia.

Dal tuo punto di vista, qual è lo stato dell’università italiana?

Secondo me siamo a un punto di svolta, anche perché il sistema è economicamente al collasso, e chi può, fugge all’estero (studenti compresi). La recente riforma dell’università potrebbe portare delle novità nel sistema di reclutamento dei docenti, ma molto dipenderà dai decreti di applicazione della riforma Gelmini e dalla volontà effettiva delle università di eliminare (o ridurre il più possibile) malattie endemiche quali il nepotismo, l’assenza di meritocrazia e di pari opportunità e l’inefficienza amministrativa. Vorrei sottolineare con forza, però, che questi non sono problemi propri del solo sistema italiano, ma di tutti quei sistemi d’istruzione prevalentemente pubblici in cui mancano sistemi di verifica della produttività e di valutazione periodica dell’efficienza e della qualità dell’insegnamento e della ricerca. Tali sistemi dovrebbero premiare o penalizzare - secondo i casi - i singoli docenti e le singole università, innescando meccanismi virtuosi di responsabilizzazione, disincentivando, soprattutto da un punto di vista economico, favoritismi e sprechi di ogni sorta. Raccomando a chiunque sia interessato al tema la lettura di un bel libro di Roberto Perotti, l’Università truccata, che spiega benissimo quali siano i problemi da risolvere e quali potrebbero essere le soluzioni più efficaci per far ritornare l’università italiana allo splendore del passato.

Quale è il suo giudizio sullo stato della discussione sul copyright in Italia?

A mio parere, il dibattito italiano sul diritto d’autore riflette grosso modo le posizioni prese a livello europeo e internazionale dai vari portatori d’interessi. C’è però in Italia la tendenza, che non è solo propria di quest’ambito, a lasciar fare e sviluppare le cose a persone senza alcuna competenza in materia. Quando, nell’ultimo decennio, la politica italiana si è occupata di diritto d’autore e dell’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione sulla creatività e sulle tecniche di remunerazione degli autori e degli altri aventi diritto lo ha fatto con gravissima superficialità, senza fare tesoro delle eccellenze che l’Italia si ritrova a tutti livelli: tecnico-giuridico, imprenditoriale e tecnologico. Ciò è il risultato dell’italica gerontocrazia e di uno strano ma irreversibile principio secondo cui alla fine le persone in Italia finiscono quasi sempre per fare ciò che per cui non sono per niente tagliate. Per esempio: com’è possibile che il Governo nomini un novantenne (dal grande passato, senza dubbio) commissario straordinario della SIAE, nel momento forse di maggior crisi d’identità e di funzioni di questa prestigiosa istituzione? Come vuole che all’estero ci prendano sul serio se continuiamo a trattare questioni tanto delicate in questo modo?

La “pirateria”, se opportunamente "gestita" da parte dell’industria culturale, può diventare un paradigma di distribuzione diversa dei contenuti, che magari sviluppi i cosiddetti mercati collaterali?

Secondo me è necessario e urgente un approccio diverso al problema del file-sharing illegale. Quella che definisce “pirateria” non è gestibile se non con l’adesione degli utenti a forme di licenza (o autorizzazione) collettiva e di remunerazione degli autori, degli artisti interpreti e delle case discografiche alternative alle attuali. Al momento le grandi multinazionali della discografia preferiscono un approccio di tipo sanzionatorio e inevitabilmente persecutorio nei confronti degli utenti non autorizzati, presi individualmente: ciò al fine di scatenare un effetto deterrente quanto più forte possibile e indirizzare così gli utenti verso forme di accesso legittimo ai contenuti digitali. Il punto è che, almeno in Europa, le forme di utilizzazione legittima di contenuti musicali e audiovisivi - soprattutto per un problema di frammentazione nella gestione dei diritti d'autore - non sono abbastanza innovative e flessibili: per esempio Spotify è disponibile in pochi paesi, e servizi quali gli americani Pandora (musica) e Netflix (cinema e televisione) sono al momento improponibili in Europa. Qualcosa si muove però in quest’ambito. L'avvento del c.d. cloud computing e dei social networks sta convincendo sempre più gli utenti a migrare (con i propri contenuti digitali) su piattaforme gestite da soggetti (per es. Google-YouTube, ma anche Apple ormai) con i quali l’industria musicale, cinematografica e televisiva può più facilmente trovare accordi di compensazione economica.

L’oggetto della sua ricerca sono i casi di infringment del copyright contro Google in Europa. Quali sono i casi più significativi?

I casi ormai sono molti, e riguardano quasi tutti i servizi offerti da Google e non solo il diritto d’autore ma anche il diritto dei marchi: Google News (Belgio), Google Books (Francia), YouTube (Spagna, Italia, Germania), Adwords (Francia, per i marchi), etc. Premetto che il mio approccio sarà quanto più possibile neutrale, nel senso che cercherò di non prendere le difese di nessuno. Google è, senza dubbio, l’impresa più intelligente, innovativa e profittevole dell’ultimo decennio, ma gli attacchi che sta subendo in tutta Europa dimostrano un alto grado di conflittualità con i proprietari dei contenuti di cui Google permette la ricerca, la memorizzazione e la comunicazione al pubblico. I sistemi europei di diritto d’autore, ancora non del tutto omogenei nel contesto dell’Unione Europea, paiono porre ostacoli di natura giuridica ben più consistenti rispetto a quelli che, per gli stessi servizi, Google deve affrontare negli Stati Uniti. M’interessa capire fino a che punto, almeno in Europa, a un intermediario ormai dominante e praticamente ubiquo su Internet sia consentito sviluppare i propri servizi di comunicazione senza doverne condividere in qualche modo i proventi con i titolari di copyright. Per Youtube Google ha ormai sviluppato un vasto sistema di autorizzazioni e licenze con gli aventi diritto, che copre i caricamenti degli utenti, nella logica del Web 2.0. Per le altre piattaforme invece il processo di legalizzazione è ancora in corso e i casi che ho citato sono una prova della difficoltà di tali negoziazioni.
(Fonte: M. Braghieri, intervista a G. Mazziotti, linkiesta 21-08-2011)
 
L’accesso all’università in Gran Bretagna PDF Stampa E-mail

In questi giorni 640 mila studenti britannici ed europei sono alla caccia dei 450 mila posti disponibili per l'accesso alle università, e le delusioni sono molte. In tv compaiono scene di ragazzi che si abbracciano e saltano giubilanti, oppure lacrime, facce tristi, sconvolte: lo scenario è di un passaggio importante nella vita. Su cento studenti, 27 hanno ottenuto il massimo dei voti al test di ammissione: è un segno che non è considerato positivo dagli esperti, perché indica un "livellamento". L'anno scorso è stato introdotto un asterisco per indicare -  con A* - i ragazzi migliori. Ma oggi le A con asterisco sono già l'8,2 per cento degli ammessi. E quest'anno la speranza di entrare nelle università è diffusa fra più persone che nel passato per tre elementi, scrive il Financial Times: il primo è la debolezza del mercato del lavoro fra i giovani, con la disoccupazione che tocca il 18 per cento fra le persone di 18-24 anni, contro un dato complessivo del 7,9 per cento. E com'è ovvio l'università tradizionalmente garantisce più possibilità in un mercato difficile. Il secondo elemento è il baby-boom che raggiunse il massimo nel 1992, e che oggi porta a contare un numero più alto di giovani nell'età dell'accesso e quindi di richieste. Il terzo elemento, non meno importante degli altri due, è il forte aumento delle tasse universitarie previsto per l'anno venturo: anche chi potrebbe rimandare, preferisce iscriversi quest'anno per risparmiare oltre cinquemila sterline.

Il massimo dell'interesse è senz'altro nella scienza: matematica, fisica, biologia, ingegneria e tecnologia sono considerati l'orizzonte più promettente per gli studenti del Regno Unito. La sola Matematica ha registrato un aumento del 7,8 per cento fra gli studenti che hanno ottenuto l'ammissione. Dal 2005 l'aumento totale per la matematica è pari al 57 per cento, il salto più robusto se si considera che l'incremento generale del settore scientifico è stato attorno al 17 per cento, contro un 11 per cento complessivo. Un po' meno lusinghieri i dati che riguardano la Fisica: secondo Alan Smithers, docente di Didattica all'università di Buckingham, oggi i voti massimi sono 33mila, contro i 56mila registrati nel 1982. Secondo Imran Khan, direttore della Campagna per la scienza e l'ingegneria, c'è un aumento di attenzione verso i soggetti scientifici, "sempre più importanti per l'economia e per la nostra società". In diminuzione invece gli studi umanistici: fra tutti, un declino netto è registrato dall'interesse per la lingua Francese, mentre il Cinese, prevedibilmente, è in fase di boom. A ottenere il massimo dei voti nei test per la facoltà di Lingue sono stati 34mila studenti. Un tema di polemica è anche la proporzione degli studenti provenienti da scuole private: lo stesso ministro per l'Università, David Willetts, ha espresso preoccupazione sul tema. Il punto è che gli studenti delle scuole pubbliche potrebbero essere spinti a scegliere facoltà diverse da quelle preferite, proprio per la diversa valutazione d’ingresso. Alla fine, le università saranno comunque costrette a lasciar fuori anche molti richiedenti che hanno superato i test d'ingresso: l'anno scorso erano stati 52mila studenti a fare richiesta per i 46mila posti rimasti dopo la prima selezione, quest'anno, ha detto al "Times" la responsabile del Servizio di ammissione all'università e al college, Mary Curnock Cook, saranno 136.500. In pratica, gli studenti idonei ma esclusi saranno 90mila.
(Fonte: G. Cadalanu, La Repubblica 19-08-2011)
 
In Gran Bretagna aumentano i neodiplomati che vanno a studiare all’estero PDF Stampa E-mail
L’aumento delle tasse e l’ulteriore diminuzione dei posti disponibili nelle università britanniche hanno impennato la percentuale dei neodiplomati che scelgono di andare a studiare all’estero. Con 700mila studenti che hanno fatto domanda per 470mila posti universitari, 230mila saranno costretti a optare per piani alternativi. Innumerevoli università internazionali stanno cavalcando la situazione mostrando agli aspiranti studenti come sia facile studiare in alcune delle più prestigiose istituzioni di tutto il mondo.  Partirà a Londra l’8 ottobre la Fiera mondiale dello studente che ha attirato più di 40 università d’oltreoceano, tra cui l’americano Berkley College, il Collegio Internazionale di Management di Sydney e la neozelandese Massey University. Le tasse d’iscrizione possono essere molto inferiori in queste università rispetto a quelle britanniche. Negli Stati Uniti un anno di studio può costare fino a 3.634 sterline, mentre nelle università olandesi circa 1.477 sterline l’anno. Une delle scuole scelte più frequentemente dagli studenti inglesi è la Norwegian Business School dove negli scorsi dodici mesi il numero di richieste di ammissioni dall’Inghilterra è duplicato.  Se prima i suoi mercati di riferimento primari erano Cina, Germania e Svezia, oggi è il Regno Unito a “gonfiare le casse” della prestigiosa scuola di business norvegese. Migliaia di ragazzi inglesi stanno cercando di garantirsi in anticipo i posti in atenei stranieri per l’anno prossimo quando il costo annuale di un corso salirà da 3.290 sterline a 9mila. Anche se alcune università straniere costano quanto le inglesi, la maggior parte dei ragazzi è ormai orientata verso l’estero. E altri sondaggi sottoposti a ragazzi tra i 16 e i 24 anni hanno rivelato che quasi un quarto dei ragazzi si sentono depressi per il futuro e più della metà di tutti i giovani in Gran Bretagna sono attivamente alla ricerca di un lavoro all’estero.
(Fonte: G. Cimpanelli, sbilanciamoci.info 27-08-2011)
 
Brevetti e ricerche in Cina PDF Stampa E-mail

Secondo la World Intellectual Property Organization, investitori cinesi hanno presentato 203.481 candidature per brevetti nel 2008. Questo fa della Cina il terzo paese più innovatore dopo il Giappone (502.054 brevetti), e gli Stati Uniti (400.769). E' necessario però analizzare il dato più da vicino. Circa il 95% delle candidature cinesi per brevetti sono state presentate a livello nazionale presso lo 'State Intellectual Property Office', l'ufficio nazionale cinese per la proprietà intellettuale. La stragrande maggioranza di tali progetti ricade sotto la dicitura "innovazione" cinese, benché si tratti solo di micro alterazioni di progetti già esistenti. In tanti altri casi, un cinese "brevetta" un'invenzione estera in Cina con l'obiettivo ultimo di fare causa per contraffazione all'investitore estero dentro al sistema legale cinese il quale non riconosce appunto i brevetti rilasciati all'estero. Una buona misura per capire il fenomeno dei brevetti cinesi è invece guardare a quelle innovazioni che sono riconosciute fuori dalla Cina, analizzare per l'appunto il rilascio di brevetti e di concessioni che sono attribuiti a invenzioni di fattura cinese nei più importanti uffici mondiali per il rilascio dei brevetti: quelli statunitensi, quelli dell'UE e quelli del Giappone.

Come hanno messo in luce in un editoriale sulla rivista 'Science' Yigong Shi e Yi Rao, rispettivamente presidi presso le facoltà di bioscienze delle università di Tsinghua e di Pechino, per sovvenzioni che vanno da decine a centinaia di milioni di yuan, "è il secreto di pulcinella che fare buona ricerca non è tanto importante quanto lo è invece intrallazzare con burocrati e i loro esperti preferiti... L'attuale cultura della ricerca in Cina, ... spreca risorse, corrompe lo spirito, e impedisce l'innovazione". La cultura della ricerca in Cina, insomma, soffre pesantemente di una propensione a privilegiare la quantità sulla qualità della ricerca, e patisce l'uso di standard locali piuttosto che di quelli internazionali per la valutazione e la premiazione della produttività nei progetti di ricerca. Il risultato è una pandemia non solo di incrementalismo, ma anche di disonestà accademica. Uno studio effettuato nel 2009 dalla China Association for Science and Technology ha riportato che circa la metà dei 30.078 intervistati era a conoscenza di almeno un collega che avesse commesso frode accademica. Una cultura del genere inibisce la ricerca seria e spreca risorse. Certo, la Cina si fa strada sempre più rapidamente in alcuni campi come le tecnologie e le telecomunicazioni. Ma rimane vero che, in linea di massima, la Cina ha ancora un bel po' di strada da fare prima di diventare potenza globale dell'innovazione.
(Fonte: traduzione di E. Ferrazzani di un articolo di Anil K. Gupta e Haiyan Wang su Wall Street Journal Asia 20-08-2011)
 
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