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12 Agosto
Il numero chiuso. Differenze nelle prove d’ingresso PDF Stampa E-mail
Sono ormai più di dieci anni che l'autonomia degli atenei permette di fissare il numero chiuso locale (entro i paletti fissati dalla legge 264/1999). Per chi punta a ingegneria, per esempio, i Politecnici si regolano diversamente: Torino prevede l'accesso programmato solo per ingegneria dell'autoveicolo e ingegneria della produzione industriale, per un totale di 240 posti, dei quali 42 riservati agli studenti extra Ue. Tutti gli altri corsi sono ad accesso libero. Al Politecnico di Milano, invece, quasi tutti i corsi prevedono il numero chiuso e i posti disponibili sono 5.620 (dei quali 243 per studenti extra Ue) spalmati su 19 corsi. Anche altre facoltà prevedono il numero programmato locale, come economia, psicologia, farmacia o scienze matematiche, fisiche e naturali. Le prove non sono tutte uguali, ma sono stabilite dalle singole facoltà, con il risultato che si può avere un livello di difficoltà assai diverso. Per rendere più uniforme la valutazione, però, da qualche anno il Cisia (Consorzio interuniversitario sistemi integrati per l'accesso) - cui aderiscono ben 52 atenei - prepara un test d’ingresso uguale per le università che ne fanno richiesta. La selezione si svolge per tutti i poli lo stesso giorno: 6 settembre per ingegneria, l'8 per economia e il 9 per scienze e biologia. Quesiti di logica, comprensione verbale, matematica, scienze fisiche e chimiche per ingegneria, mentre per economia vengono verificate le capacità di ragionamento logico e comprensione verbale e le competenze di matematica. Il test di scienze, invece, è composto da 75 quesiti sul linguaggio matematico, biologia, chimica, fisica e la comprensione di un testo di biologia. Il risultato è importante ma, come spiegano al Cisia, spesso il numero dei posti è più alto di quello delle domande presentate. Il numero chiuso, infine, viene spesso adottato dalle università non statali: tradizionalmente la Bocconi, che prevede 2.550 posti per 20 corsi di laurea mentre Luiss ha 100 posti a concorso per giurisprudenza e altrettanti per economia e management, 40 per scienze politiche e 20 per il corso in lingua inglese (con test, ovviamente, in inglese) in Economics e business. (Fonte: Il Sole 24 Ore 09-08-2011)
 
I posti disponibili per i corsi di laurea a numero chiuso PDF Stampa E-mail
Il ministero dell'Università ha pubblicato i decreti che fissano i posti disponibili per i corsi di laurea a numero chiuso. Per la facoltà di Architettura saranno ammesse 8.760 matricole, contro le 9.265 dell'anno scorso. A prendere la fetta più grande il Politecnico di Torino (630 posti) e lo Iuav di Venezia con 580. Per la facoltà di Veterinaria il totale dei posti disponibili ammonta a 958, contro i 1006 del settembre scorso. Prima nella lista ancora Torino con 120, seguita da Milano con 104 e Bologna con 103. Aumentano, invece, i posti a disposizione per i futuri dentisti. Le matricole di Odontoiatria saranno 860, contro le 789 dell'anno precedente. In questo caso al primo posto c'è la Sapienza di Roma, con 60 posti, seguita dalla Statale di Milano con 57. Restano da fissare, invece, i posti per il corso di laurea più atteso, quello di Medicina, che ai test di settembre dovrebbe avere una graduatoria unica insieme con Odontoiatria. L'anno scorso erano stati poco meno di 10mila, 9.527. E probabile che quest'anno siano di più.
(Fonte: L. Sal., Corsera 29-07-2011)
 
Accorciare il periodo di pratica integrandolo nel corso universitario PDF Stampa E-mail

L'obiettivo dichiarato per tutti è accelerare l'ingresso dei giovani laureati nel mondo del lavoro, di un anno, due o anche solo sei mesi. Con la complicità, non solo delle riforme di alcuni ordinamenti professionali che prevedono appunto quei cosiddetti “sconti” all'accesso proprio sulla base di accordi quadro specifici, ma anche del mondo universitario, la legge 270 del 2004 prima di tutte che, tra i principali obiettivi, ha proprio quello di far acquisire al giovane laureato conoscenze finalizzate all'inserimento nel mondo del lavoro e delle professioni. Nella maggior parte dei casi, dunque, non potendo ridurre gli anni di formazione accademica, perché regolata da discipline comunitarie, si è andati a incidere sul periodo del praticantato, facendolo divenire parte integrante del corso universitario.

Le professioni economico-giuridiche. I dottori commercialisti sono gli unici ad avere per legge (articolo 43, Dlgs n. 139/05) la possibilità di effettuare il tirocinio professionale sulla base di accordi firmati dai Consigli dell'ordine e le università del territorio. L'accordo, che in molti casi sarà già operativo dal prossimo anno accademico 2011- 2012, consentirà, infatti, di realizzare percorsi formativi finalizzati all'accesso alla professione di dottore commercialista e di esperto contabile, rendendo possibile lo svolgimento del tirocinio professionale già nel corso del biennio di studi finalizzato all'acquisizione della laurea magistrale (o specialistica). Ma a godere di questa possibilità saranno non solo coloro che hanno conseguito la laurea triennale nelle classi elencate nell'apposita convenzione, ma anche i laureati in classi affini purché colmino i debiti formativi richiesti dall'ordinamento didattico per l'accesso alle lauree magistrali. Il praticantato non potrà durare meno di 1.000 ore e dovrà essere effettuato presso un dottore commercialista iscritto alla sezione A da almeno cinque anni e in regola con l'assolvimento dell'obbligo di formazione continua.

Il Consiglio nazionale forense, invece, guarda al futuro e alla proposta contenuta nella riforma dell'ordinamento che prevede la possibilità per le università e i consigli regionali di stipulare convenzioni-quadro ai fini del tirocinio. Ma per i laureati in giurisprudenza si profila all'orizzonte un'ulteriore novità. Ad annunciarla lo stesso ministro Gelmini che punta alla possibilità di anticipare il tirocinio all'ultimo anno prima della laurea in modo che dopo il diploma occorra soltanto un anno, invece degli attuali due, di pratica. Una strada questa già intrapresa, invece, dai notai. La cui riforma dell'ordinamento del 2006 prevede che si possa anticipare di sei mesi il tirocinio nell'ultimo anno di laurea. Novità in materia di tirocinio anche per i consulenti del lavoro. Il nuovo regolamento sulla disciplina del praticantato (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n 179 del 3 agosto 2011) e che entrerà in vigore il prossimo novembre ha, infatti, introdotto la possibilità di ridurre di un anno i due previsti per il tirocinio. Il praticante in possesso di laurea magistrale, in una delle classi di laurea individuate dal Consiglio nazionale di concerto con il Miur, potrà chiedere una riduzione di dodici mesi del periodo di praticantato, purché però durante il percorso di studi abbia svolto un tirocinio, non inferiore a sei mesi, con riconoscimento di almeno 9 crediti formativi, esclusivamente presso lo studio di un consulente del lavoro. Un'altra possibilità di riduzione è prevista per chi frequenta un corso di formazione (180 ore) in ambito universitario gestito dal Consiglio provinciale assieme all'università. Queste novità per diventare operative necessitano della stipula, tuttora in preparazione, di una convenzione tra CM e Miur.

Le professioni tecniche. Nessun tirocinio obbligatorio per i futuri Ingegneri né per gli architetti. Tra le categorie tecniche sono solo quelle degli ex-diplomati periti industriali, periti agrari e geometri a dovere effettuare il tirocinio semestrale durante la laurea triennale. E lo stesso DPR 328 del 2001 (Modifiche e integrazioni della disciplina dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove por l'esercizio di alcune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti) a stabilire che questo periodo obbligatorio per l'accesso alla professione possa essere svolto in tutto in parte durante il corso di studi universitario, attraverso convenzione tra gli stessi atenei e i collegi. Una prassi che nel caso dei periti industriali è diventata realtà giacché è lo stesso Miur a considerare validi ai fini del tirocinio quei corsi di studio che hanno al loro interno materie professionalizzanti.
(Fonte: B. Pacelli, ItaliaOggi Sette 08-08-2011)
 
Rapporto CNEL 2011 sul mercato del lavoro. L’occupazione dei laureati PDF Stampa E-mail

Il "Rapporto CNEL 2011 sul mercato del lavoro", per l'inserimento professionale dei laureati, polarizza l'attenzione sui tre aspetti: overeducation, ovvero formazione più qualificata di quella richiesta dall'attività lavorativa svolta; mismatch, divario di istruzione o di competenze; skills, capacità possedute e richieste. Dal rapporto emerge come, nonostante le difficoltà, la laurea non metta completamente al riparo dalle difficoltà occupazionali, ma sia titolo che apre maggiori possibilità lavorative. Nel triennio 2007/10 gli occupati laureati sono cresciuti di numero (+ 286.000 unità). Pur se meno remunerativo rispetto al passato e alla situazione registrata in altri Paesi, l'investimento in istruzione ha operato in senso positivo: aver conseguito un titolo di studio elevato è stato un punto di forza sia per una minore permanenza nella condizione di disoccupazione che di più agevole ingresso sul mercato del lavoro. Le probabilità occupazionali differiscono però secondo i gruppi disciplinari: rendimento maggiore per le lauree tecnico/scientifiche (materie scientifiche, gruppo medico, architettura e disegno industriale), contrapposto a risultati più difficili per le lauree umanistiche, connessi a un eccesso di offerta.

I laureati con titoli di studio più difficilmente spendibili sul mercato del lavoro sono quelli maggiormente costretti ad adattarsi, pur con una certa difficoltà, a percorsi professionali per i quali la loro formazione scolastica appare ridondante (overeducation). Più di uno su dieci (12,1%) degli occupati italiani in possesso di laurea svolge un'attività per la quale sarebbe stata sufficiente una formazione meno qualificata. Il disallineamento tra domanda e offerta di competenze (mismatch) comporta troppo spesso la presenza simultanea di elevati tassi di disoccupazione per alcuni corsi di laurea a fronte del fabbisogno insoddisfatto di professionalità da parte delle imprese. Ciò che manca in Italia è una politica economica forte nei settori più avanzati o a maggiore contenuto tecnologico, in grado di "favorire l'accumulazione di capitale umano e di assecondare la crescita della produttività totale dei fattori".
(Fonte: M. L. Marino, www.rivistauniversitas.it 04-08-2011)
 
Tasse universitarie PDF Stampa E-mail

In Italia il sistema delle tasse universitarie ha più di qualche lacuna. In particolare si registra un vero e proprio gap tra le previsioni legislative e la realtà dei fatti. Il tutto a discapito delle famiglie meno abbienti. Vediamo perché. L’attuale normativa nazionale sulla contribuzione studentesca prevede che gli iscritti paghino le tasse secondo importi stabiliti autonomamente dai diversi atenei. Ai quali il Ministero impone la condizione che l’introito annuo complessivo non superi il limite del 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario[1]. Un secondo vincolo che le università devono rispettare è di garantire la progressività di tassazione in base alla condizione economica degli studenti, in base all’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE)[2].

La realtà dei fatti è ben diversa. Il limite del 20% sul FFO è ampiamente superato da molti atenei italiani e tale sforamento è destinato a peggiorare se si considera la riduzione generalizzata prevista sul FFO. Inoltre, ciascun ateneo utilizza un suo metodo per la valutazione della condizione economica degli studenti – in alcuni casi viene considerata la somma dei redditi al lordo dell’Irpef, altre volte al netto – e la progressività del sistema è anch’essa molto arbitraria (talune università utilizzano 5 scaglioni di contribuzione, altre 486 fasce).

E’ indubbio che il sistema stia tacitamente reclamando un cambiamento, ma è indispensabile valutare bene quale direzione si vuole prendere.  Nel maggio 2011 è stata presentata un’interrogazione parlamentare ai Ministeri dell’Economia e dell’Istruzione, condivisa da diverse parti politiche, in cui si propone di modificare il sistema di contribuzione studentesca in Italia sulla scia di quanto è stato fatto nel Regno Unito. La proposta prevede di autorizzare gli atenei ad aumentare le rette universitarie fino a una certa soglia (che in UK è stata fissata a 9.000£ l’anno) e di consentire agli studenti che rispettano determinati requisiti di coprire tale spesa con un prestito garantito dallo Stato, da restituire quando il laureato guadagnerà un reddito superiore a una certa soglia (stabilita pari a  21.000£ in UK).

Secondo i proponenti un sistema siffatto potrebbe «essere di incentivo a iscriversi all’università, creando una sana competizione fra gli atenei che miglioreranno la loro offerta formativa. La misura dà più risorse agli atenei senza complicazioni burocratiche e amministrative, e premia il merito senza penalizzare i più poveri».

Che esista una relazione “più tasse quindi più entrate per gli atenei” = “maggiore qualità dell’offerta formativa” non è stato ancora dimostrato. In base a quanto pubblicato dall’OECD[3] uno studente italiano in media spende in tasse universitarie 827 euro l’anno, contro i 590 della Spagna, i 480 della Francia e gli importi fissati in un range di 500-1.000 euro/anno introdotti di recente solo in alcune zone della Germania. In numerosi altri paesi (Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia) l’accesso all’istruzione universitaria è gratuito, non per questo questi paesi presentano sistemi di istruzione meno prestigiosi dei nostri.

Ancor più dubbia è la possibilità che l’innalzamento delle tasse e la possibilità di indebitarsi per farvi fronte possano costituire un incentivo a iscriversi all’università. Su questo punto sono gli stessi inglesi a mostrare alcune perplessità.

In seguito alla riforma del 2004, in cui si stabilì un top-up fee di 3.000£[4], i dati hanno mostrato sì una stabilità nella domanda di formazione superiore, ma è emerso che gli studenti delle fasce meno abbienti – in cui l’avversione all’indebitamento è maggiormente radicata – hanno preferito tendenzialmente l’università “sotto casa” optando per istituti meno costosi[5].

Altre indagini condotte nel Regno Unito hanno evidenziato dati quantomeno preoccupanti sulle intenzioni mostrate dagli studenti e dalle loro famiglie in merito alla possibilità futura di iscriversi all’università, in seguito all’ultima riforma che vede triplicate le tasse di iscrizione dall’a.a. 2012/13[6]:

§ 1 studente su 4 dichiara di voler ritardare l’iscrizione per lavorare a tempo pieno e risparmiare i soldi necessari a iscriversi (eventualmente) in seguito; molti genitori appoggiano i figli in questa decisione, poiché nel 51% dei casi si dichiarano non in grado di far fronte a spese di istruzione tanto onerose;

§ tra i genitori che pensano invece di contribuire alla spesa, il 24% rivela che utilizzerà quasi tutti i risparmi, circa il 10% dichiara che ri-finanzierà il mutuo della casa oppure la venderà per acquistarne una più piccola;

§ sempre al fine di limitare il debito, molti studenti affermano che, pur non volendo, saranno costretti a vivere in casa con i genitori per contenere le spese legate all’alloggio, e 1 studente su 3 dichiara che opterà per percorsi di studi con sbocchi occupazionali meglio retribuiti piuttosto che scegliere il corso secondo le proprie attitudini; l’8% dei genitori incentiverà i figli a iscriversi a un corso professionalizzante, in modo da intraprendere al più presto un’attività lavorativa.

Gli studenti privilegiati s’iscriveranno quindi negli atenei migliori in cui pagheranno rette elevate, conseguiranno lauree di elevato valore e troveranno lavori ben pagati, forse. Non va dimenticata l’attuale condizione del mercato del lavoro in Italia, che vede un laureato a un anno dal conseguimento del titolo percepire in media 1.100 euro il mese, importo che a 5 anni dalla laurea non raggiunge i 1.400 euro[7]. Viene da domandarsi chi potrebbe permettersi di restituire il debito.

Al contrario, gli studenti provenienti da famiglie meno abbienti s’iscriveranno nelle università meno costose, conseguiranno un titolo meno spendibile e troveranno lavori mal retribuiti, con cui dovranno restituire un debito probabilmente più elevato di quello contratto dai loro compagni più benestanti. Dai dati sul sistema inglese, gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito sono per il 43% più indebitati rispetto agli altri[8].

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[1] Il Fondo di Finanziamento Ordinario è la quota di finanziamento pubblico a favore delle università destinato alla copertura delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali, comprese le spese per il personale docente ricercatore e non docente.

[2] L’ISEE, definito dal DM 31 marzo 1998, n.109, è il risultato della somma dei redditi lordi della famiglia e del 20% dei patrimoni mobiliari e immobiliari, il tutto diviso per un coefficiente che tiene conto del numero di componenti.

[3] OECD Indicators, Education at a Glance 2010.

[4] La precedente riforma del sistema di contribuzione nel Regno Unito aveva autorizzato le università ad aumentare le tasse universitarie fino a un massimo di 3.000£. Fino allora gli studenti pagavano un importo di circa 1.200£ l’anno.

[5] Brenda Little, Centre for Higher Education Research and Information, The Open University, presentazione presso EUROSTUDENT IV final Conference, Copenhagen, Giugno 2011.

[6] Si veda AIC - Association of Investment Companies, UK, Giugno 2011.

[7] XIII Indagine sulla Condizione occupazionale dei laureati, Almalaurea, 2011.

[8] C. Callender, Access to Higher Education in Britain, in Cost-sharing and Accessibility in Higher Education: A Fairer Deal?, Springer, 2008.

(Fonte: D. Musto, www.west-info.eu 04-08-2011)
 
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