Una vittoria della ricerca italiana |
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Il New England Journal of Medicine pubblica un lavoro di italiani. Sarebbe già una notizia perché il New England pubblica il 4% dei manoscritti che riceve, ma c'è di più. È una storia che comincia verso la fine degli Anni 70. C'erano Farmitalia e Carlo Erba allora a Milano e Federico Arcamone aveva sintetizzato la doxorubicina. L'hanno provata nel tumore della mammella. Le donne che prendevano il farmaco guarivano le altre no. Questi studi li faceva Gianni Bonadonna all'Istituto dei tumori. A un certo punto deve aver pensato «perché non proviamo anche con altri tumori?». La cura per il linfoma di Hodgkin comincia così. Da quel momento ragazzi che prima morivano hanno cominciato a guarire. Nel giro di qualche anno la terapia di Bonadonna (doxorubicina associata ad altri farmaci) diventa il modo di curare il morbo di Hodgkin negli Stati Uniti, in Europa, dappertutto. Ma alla fine degli Anni 90 certi medici tedeschi vogliono fare di più: «Usiamo più farmaci e a dosi più alte, i risultati saranno certamente migliori». Trattano migliaia di pazienti, col loro schema di cura quasi 9 pazienti su 10 guariscono dalla malattia, con quello di Bonadonna 7 su 10. Gli ematologi della Germania vorrebbero imporre questo regime a tutti, gli altri però ci vanno piano. Le dosi dei tedeschi sono troppo alte, gli effetti negativi di queste cure alla lunga si faranno sentire. E allora? È di nuovo il momento degli italiani. Si mettono insieme gli ematologi di Milano, Bologna, Bergamo, Pavia, Torino, Terni, Bari, Udine, Cuneo. Un po' è vero, gli ammalati che seguono lo schema dei tedeschi all'inizio hanno una risposta migliore. Quando però la malattia ricade, quelli che hanno fatto il vecchio schema possono ancora essere guariti, gli altri no.
Questo studio ci insegna moltissimo, per esempio: 1) che un Paese moderno non può non avere una sua industria farmaceutica; 2) che non è detto che le cure nuove siano meglio di quelle vecchie; 3) che la medicina va avanti con grandi medici e in grandi istituti di ricerca (quasi sempre pubblici); 4) che con le cure bisogna avere pazienza, i giudizi si danno alla fine, servono anni. (Fonte: G. Remuzzi, Corsera 24-07-2011) |
I premi assegnati dalla European Physical Society. La fisica italiana trionfa |
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Quest'anno i dieci premi assegnati dall’European Physical Society (Eps) ai dieci migliori fisici del Vecchio Continente sono stati assegnati per la metà agli italiani. Un vero record: cinque su dieci. La Society riunisce oltre tremila scienziati di associazioni nazionali e alla sua presidenza è stata eletta una scienziata italiana dell'Istituto nazionale di fisica nucleare di Bologna, Luisa Cifarelli.
Ma tornando ai premi 2011 conferiti ieri a Grenoble e che sono cinque per i diversi campi di attività, i quattro più importanti sono stati monopolizzati dal tricolore. A cominciare dal primo dedicato alle alte energie, andato a Luciano Maiani, presidente del Cnr, assieme a Sheldon Lee Glashow e John lliopoulos per il «contributo dato alla teoria dei quark nel quadro dell'unificazione delle interazioni magnetiche e deboli». Insieme, i tre avevano teoricamente previsto il «quark charm» per spiegare i mattoni fondamentali della materia estendendo il prezioso lavoro compiuto da un altro grande fisico italiano Nicola Cabibbo scomparso l'estate scorsa. Per l'astrofisica il riconoscimento è andato a Paolo de Bernardis (con Patti Richards) che ha decifrato i primi passi dell'universo. La fisica teorica, invece, è dominata completamente da Davide Gaiotto che indaga le supersimmetrie della natura. E altrettanto tutto italiano è il premio riservato ai giovani fisici che sono Paolo Creminelli e Andro Rizzi, il primo legato alla cosmologia, il secondo agli esperimenti del superacceleratore Lhc del Cern di Ginevra. La valanga dei riconoscimenti certifica come, nonostante tutte le difficoltà in cui versa la ricerca italiana, la nostra scienza fisica riesca a mantenersi al top internazionale. Garantendo anche prospettive se entrambi i giovani emersi provengono dalla Penisola. A dimostrazione che la ricerca italiana avrà tanti problemi ma l'ultimo è proprio quello dei suoi cervelli. Bisogna solo creare le condizioni perché possano esprimersi, aiutando così il Paese. Ultima curiosità: tra ì 23 premi assegnati dall'Eps nel corso degli anni nove hanno poi conquistato il Nobel. (Fonte: G. Caprara, Corsera 26-07-2011) |
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Borse di ricerca post-doc research grant |
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UniCredit & Universities Foundation lancia la seconda edizione del concorso Post-Doc Research Grant, volto a premiare i 5 migliori progetti di ricerca in economia e finanza, presentati da giovani ricercatori universitari. Il concorso è aperto ai giovani ricercatori di qualunque nazionalità, titolari di assegni o contratti di ricerca, che svolgono la propria attività presso un'università dei 22 Paesi dove è presente UniCredit. Obiettivo dell’iniziativa è principalmente quello di sostenere l’attività di ricerca in Europa, rafforzando la collaborazione tra università. Ciascun premio ammonta a EUR 10,000, è annuale e rinnovabile fino a un massimo di 2 anni, corrispondenti alla durata massima prevista per l’attuazione del progetto. Le somme sono corrisposte direttamente ai vincitori del concorso. Le domande dovranno pervenire entro il 31 ottobre 2011. I vincitori saranno selezionati entro metà dicembre 2011. (Fonte: unicreditanduniversities.eu) |
Docenti di fisica e docenti di economia. Due ricerche sulle loro pubblicazioni di qualità |
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Siamo andati a cercare dei numeri che in qualche modo possono illustrare direttamente la “qualità” d’alcune discipline in Italia. Abbiamo trovato due ricerche: la prima riguarda i docenti di fisica e la seconda i docenti di economia. E’ interessante vedere cosa s’impara da questi dati. La prima ricerca è stata eseguita da Paolo Rossi, fisico dell’Università di Pisa, che ha raccolto gli H-index dei fisici italiani (professori ordinari, associati e ricercatori: circa 3000 unità al 2007). Ricordiamo che un ricercatore ha H-index pari, ad esempio, a 10 se le sue 10 pubblicazioni più citate hanno ognuna 10 o più citazioni e le altre pubblicazioni hanno un minor numero di citazioni. L’H-index si costruisce sulle pubblicazioni presenti su riviste censite da banche dati certificate e fornisce sicuramente un’approssimata e incompleta misura della qualità della produzione scientifica di un ricercatore: rimando qui per una discussione critica di questo indicatore bibliometrico. Dallo studio di Rossi risulta che il 50% dei professori associati e dei ricercatori in fisica, che hanno delle distribuzioni quasi identiche, ha un indice H superiore a 10, mentre il 50% degli ordinari ha un indice H superiore a 15. Quest’ultima differenza è naturale in quanto l’H-index cresce con il tempo, e dunque va diviso per gli anni di carriera. D’altra parte, visto che in media i ricercatori sono più giovani dei professori associati, è anche possibile concludere che siano più produttivi. Inoltre una buona parte (circa il 60%) degli associati e dei ricercatori ha un indice H tra 5 e 15, mentre il 50% degli ordinari ha un indice H compreso tra 10 e 20. Vi è poi una percentuale più piccola di docenti che hanno un alto indice H, con valori che possono superare 30 o 40: è ben noto che la fisica italiana brilli a livello internazionale.
La seconda ricerca è stata eseguita da due economisti dell’università “Sapienza” di Roma, che hanno utilizzato la banca dati Econlit, che censisce pubblicazioni rilevanti nel campo dell’economia. Uno dei dati che più risaltano da quest’analisi è che ben il 16% degli economisti accademici ha zero records su Econlit. E’ ovvio che avere zero pubblicazioni implica che almeno la stessa frazione di docenti abbia ricevuto zero citazioni e zero H-index: probabilmente questo elevato numero di zeri riflette il fatto che molti docenti si occupano d’altro. Le due autrici hanno poi esaminato quanti dei docenti in ruolo passerebbero gli “indicatori minimali di qualificazione scientifica” del Consiglio Universitario Nazionale (Cun) per l’accesso ai tre livelli della carriera universitaria (e sarebbe interessante ripetere questo esercizio per i criteri di valutazione emanati dall’Anvur):
“Il nostro esercizio mostra che le asticelle da superare poste dal Cun sono molto sopra il livello medio della produzione degli economisti…Solo il 27,4 per cento degli ordinari risulta avere dieci pubblicazioni censite in Econlit negli ultimi otto anni…Per gli associati, la prima soglia nel proprio ruolo è superata dal 16,2 per cento dei confermati…Nel caso dei ricercatori, la situazione è migliore: il 65,8 per cento soddisfa il criterio previsto per quella fascia; tuttavia, meno del 10 per cento ha le caratteristiche per diventare associato, e un gruppo piccolo ha anche “i numeri” per diventare ordinario”. Concludono il loro studio sottolineando che “non si può non tener conto che i criteri proposti risultano soddisfatti solo da una piccola percentuale degli economisti accademici italiani, con la sola eccezione forse dei ricercatori”. Questa conclusione è confermata da un altro studio in cui è stato misurato l’indice H per i 696 ordinari delle discipline economiche con la conclusione che: “La distribuzione è fortemente asimmetrica, con oltre il 40 per cento dei docenti con valori di H compresi tra 0 e 2, e solo il 5 per cento con valori superiori a 16.” Insomma, c’è un’evidente differenza rispetto al caso dei fisici. Se è naturale che ci siano differenze nelle modalità di pubblicazione e citazione tra diversi campi, se è vero che ci possono essere nei campi umanistici delle dinamiche sociologiche molto rilevanti che alterano il significato degli indici bibliometrici, è piuttosto anomalo non solo il basso indice H della metà dei professori ordinari di economia (minore o uguale a 2!) ma anche il fatto che una buona percentuale dei docenti delle tre fasce non ha proprio nessuna pubblicazione su banche dati internazionali. (Fonte: F. Sylos Labini, www.ilfattoquotidiano.it 29-07-2011) |
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