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27 Giugno
Sulla retribuzione aggiuntiva dei ricercatori una mozione del CUN PDF Stampa E-mail
Approvata dal Consiglio Universitario Nazionale una mozione sulla retribuzione aggiuntiva dell’attività didattica dei ricercatori in  cui si chiede che venga fissato un importo minimo e che il MIUR eserciti il suo potere di vigilanza sui regolamenti di Ateneo. (09-06-2011)
 
Abolire il valore legale della laurea. Se ne discute alla Commissione Istruzione del Senato PDF Stampa E-mail

La Commissione Istruzione del Senato starebbe valutando l’ipotesi di abolire il valore legale della Laurea. La stessa Commissione ha interpellato diverse sigle sindacali, insieme alla Conferenza dei Rettori Italiani (Crui) e a Confindustria. Di parere negativo soprattutto i sindacati – Adu, Andu, Cisal-Docenti universitari, Cisl-Università, Cnru, Cnu, Conpass, Flc-Cgil, Link, Rete29Aprile, Snals-Universita’, Udu, Ugl-Universita’, Uilpa-Ur e Usb-Pubblic sono le sigle che si sono espresse contro – secondo le quali l’abolizione incrementerebbe “disuguaglianze sociali ed economiche” e contrasterebbe con il principio sancito dalla Costituzione delle Pari Opportunità, modificando i criteri di accesso alla Pubblica Amministrazione e creando di conseguenza discriminazioni nell’assunzione. E’ giusto ricordare che il valore legale della Laurea, serve a determinare la certezza dal punto di vista giuridico, per i titolari, di una preparazione professionale in conformità con gli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. Molto spesso, infatti, il titolo di studio è richiesto per la partecipazione ai concorsi pubblici e per l’accesso ai concorsi per l’iscrizione agli albi professionali. L’eventuale cancellazione della validità legale potrebbe, dunque, mettere in difficoltà migliaia di giovani laureati e laureandi italiani che si troverebbero senza un’effettiva certificazione delle loro competenze, non solo a livello italiano, ma anche a livello europeo.

L’ex ministro della salute Girolamo Sirchia, autore della proposta, ribatte alle polemiche affermando che non sarebbe eliminata la validità della Laurea come requisito per l’accesso ai concorsi o agli albi professionali bensì si vorrebbe incentivare la concorrenza tra i vari Atenei: al momento tutti laureati, al momento dell’ingresso nelle professioni, sono sullo stesso piano, senza considerare la loro effettiva preparazione, dunque l’effetto è che le università non sono motivate a investire sulla formazione e sul reclutamento di professori di alto livello. Perplessità a riguardo giungono anche dalla Crui, che sebbene non si sia esposta ufficialmente contro la norma, ritiene che vi sarebbero conseguenze negative sulla classificazione degli Atenei, nel caso fosse approvata questa abolizione. L’unica a favore, almeno tra le parti sentite dalla Commissione, sarebbe Confindustria, che vorrebbe sostituire il valore legale della laurea con rigorosi strumenti di certificazione e accreditamento.
(Fonte: unicittà.it 16-06-2011)
 
Abolizione valore legale delle lauree. La proposta di un deputato del PDL PDF Stampa E-mail
“Il valore legale della laurea sancisce un’uguaglianza che però non è sostanziale. Il problema è che le università preparano in maniera diversa, ma la legge afferma che tutti sono preparati in maniera eguale”. Così Fabio Garagnani, deputato del Pdl. Secondo Garagnani quindi, il valore legale della laurea mette tutti i laureati sullo stesso piano, mortificando le qualità dei più bravi ed anche ostacolando una “concorrenza virtuosa” fra atenei, schiacciando verso il basso l’offerta formativa. Così lancia una proposta di legge con la quale delega il governo a cambiare aspetto e funzioni della laurea, così da ottimizzare la gestione delle risorse, ed eliminare sprechi e distorsioni. In Italia la laurea non è un semplice titolo accademico, ma un vero e proprio certificato pubblico, che consente la partecipazione a concorsi o l’esercizio di determinate professioni e il valore legale della laurea mette ovviamente tutti i “Dottori” sullo stesso piano. L’esponente del centrodestra è convinto che i giovani studenti siano portati a pensare che in qualunque università investano le proprie risorse, le possibilità d’impiego successive alla laurea siano le medesime. In realtà questo potrebbe valere per la pubblica amministrazione, ma non è valido per il settore privato che, attraverso i ranking internazionali, conosce bene il differente valore delle università. Quindi il punto è che le università preparano in maniera diversa gli studenti e questa diversità deve avere un valore che oggi non è riconosciuto in quanto esiste una forzata parificazione del titolo rilasciato da diversi atenei, a prescindere dal contenuto formativo che sta dietro quel titolo. La commissione istruzione del Senato starebbe studiando gli effetti legati all’eventuale abolizione del valore legale della laurea e in proposito sono stati consultati la Crui, Confindustria e il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, sindacati ed associazioni di categoria. Nessuno sa se la proposta avrà seguiti concreti, al momento sarebbero contrarie 10 sigle sindacali e la conferenza dei Rettori avrebbe manifestato alcune perplessità sulle conseguenze che l’eventuale abolizione potrebbe avere sulla classificazione degli atenei. Ma forse queste problematiche potrebbero essere momentaneamente messe da parte, rispetto a quelle più impellenti che l’università è costretta ad affrontare.
(Fonte: G. Migliola, controcampus.it 16-06-2011)
 
Eliminare il valore legale del tittolo di studio? PDF Stampa E-mail

L'eliminazione del valore legale del titolo di studio è il miraggio permanente del sistema universitario italiano, auspicato da tutti, attuato da nessuno. Ma cosa significa? Di che si tratta? Che cosa cambierebbe con la sua attuazione? Anche in questo sito se ne parla come di una panacea dei mali dell’università italiana. Personalmente, non ho mai capito perché.

Il valore legale del titolo di studio determina la certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di una preparazione professionale in conformità agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. La partecipazione a concorsi pubblici e l'accesso ai concorsi per l'iscrizione agli albi professionali richiede molto spesso il possesso di un titolo di studio rilasciato da una scuola o università riconosciuta nazionalmente. Spesso inoltre un valido titolo di studio è richiesto da imprese private, anche nei casi in cui non ne hanno l'obbligo.

Quindi il valore legale ha tre effetti: (1) la necessità per un lavoratore in molti casi di possedere un titolo proveniente da una scuola "riconosciuta" per accedere a certi settori del mercato del lavoro; (2) la necessità (di fatto, non di diritto) per chiunque voglia istituire una scuola o università privata di ottenere la "certificazione" ministeriale, e quindi sottostare a certi direttive ministeriali. Infine, (3) la parificazione nei concorsi della qualità dei titoli di studio (rilasciati dalle scuole riconosciute), che contano tutti allo stesso modo; in generale la certificazione crea un appiattimento nella percezione della qualità dei vari titoli di studio anche nel settore privato. A mio parere nessuno di questi effetti costituisce un grosso problema.

I primi due problemi sono collegati, quindi li affronterò assieme. La necessità di un titolo di studio per praticare certe mansioni non è una prerogativa italiana. Per esempio, negli Stati Uniti, per accedere alla professione di avvocato, occorre superare il “bar exam”, una sorta di esame d’iscrizione all’albo. In quasi tutti gli stati, l’iscrizione all’esame richiede il titolo di studio acquisito da una Law school accreditata dall’albo; esistono dozzine e dozzine di scuole accreditate, alcune ottime, altre mediocri. Quindi, il titolo di diplomato in legge ha valore legale. Sempre negli Stati Uniti, non si può praticare la professione medica senza aver prima acquisito un titolo da una Medical school. Quindi il titolo di dottore acquisito in una Medical School, ha valore legale. Infine, la parrucchiera di Lower Manhattan che mi taglia i capelli tiene accanto allo specchio un certificato ben incorniciato del dipartimento sanitario dello stato di New York che certifica il titolo conseguito; la certificazione è necessaria per praticare la professione di parrucchiera; quindi, il titolo di estetista conseguito in 6 mesi al community college di Brooklyn ha valore legale.

La differenza con il modello americano è che la certificazione dei curriculum in Italia è fatta centralmente, mentre negli Stati Uniti viene fatta in certi casi a livello federale, in certi casi a livello statale o locale, in certi altri casi da associazioni professionali di natura privata ma di fatto a carattere pubblico. In sostanza non mi pare una gran differenza. È vero che per aprire un’università privata in Italia occorre un'approvazione del ministero, e quindi, di fatto, adeguare i curriculum a certi requisiti stabiliti centralmente. Ma i requisiti sono minimi. Si ricordi che vale il principio della libertà accademica (che è buona cosa): i contenuti dei corsi sono stabiliti dal docente incaricato, non dal ministro. Per esempio, anche se la Bocconi, per mantenere il riconoscimento ministeriale, è tenuta ad insegnare diritto commerciale ai laureandi in Economia e Commercio, i contenuti del corso possono essere ben diversi da quelli dello stesso corso insegnato a Ca' Foscari.

Purtroppo è possibile che il ministero usi in modo troppo "liberale" la propria discrezionalità di certificazione, e certifichi università istituite da "amici" e neghi invece la certificazione a università "non desiderate" anche se meritevoli. Quindi il problema non è la certificazione in sé, ma la qualità della certificazione. In molti casi meglio sarebbe se la certificazione fosse affidata al mercato, non solo perché il mercato ne migliora la qualità, ma anche perché nel caso delle università pubbliche l'ente certificante e quello certificato sono governati dalla stessa persona (un interessante caso di conflitto di interessi). Si noti infine che certificazione statale e valore legale non implicano l'un l'altro: la certificazione statale è possibile anche abolendo il valore legale, per esempio come "servizio" offerto al settore privato (come per esempio per l'approvazione dei farmaci). Ed è anche possibile mantenere il valore legale, prevedendo però che la certificazione sia effettuata da enti privati.

Riassumendo, cosa si otterrebbe eliminando la necessità di possedere un titolo rilasciato da una scuola certificata? Commercialisti con bisturi e stetoscopio? Laureati in legge al tecnigrafo a progettare ponti e grattacieli? Geometri a difendere cause in tribunale? Questo non succede e non è possibile in nessun paese al mondo, salvo poche eccezioni. Anche se fosse possibile, l'aumento della concorrenza nel mercato delle professioni che ne risulterebbe, sarebbe minimo. Anche ora nessuno vieta a un’impresa edile di assumere un non laureato per effettuare i calcoli strutturali di un edificio (se lo ritiene competente in calcoli ingegneristici). Certamente, la “firma” del progetto deve essere poi effettuata da un ingegnere iscritto all’albo (che può essere invece un incapace). Similmente esistono certamente casi di persone che vanno a “curarsi” da ciarlatani, laureati o meno (ricordate Di Bella?). Inoltre, sembra anche che il titolo di studio conti sempre meno nelle ricerche di lavoro (si veda a riguardo quest’ articolo da Repubblica). Quindi, la rimozione del valore legale avrebbe effetto solo per i posti soggetti a concorso pubblico, che, è vero, non sono pochi, ma quale sarebbe il suo vero impatto? Io mi azzardo a dire che sarebbe minimo. Non credo che molti laureati in ingegneria aspirino a partecipare ai concorsi per giudice.

Sul terzo problema, la parificazione di tutte le università buone e mediocri nei concorsi, va detto che in senso stretto non è vero che esiste parificazione: esistono università certificate e università non certificate (che però spariscono dal mercato, quindi non si notano). Ma anche ignorando questo, va notato che il requisito del titolo di studio non è l'unico requisito richiesto, non solo nel settore privato ma anche in tutti i concorsi pubblici. Ci sono sempre altri test, esami, e titoli necessari a comprovare la qualità del candidato; presumibilmente, chi ha ricevuto una buona istruzione, farà meglio degli altri candidati. Esiste anche spesso una componente di valutazione discrezionale della commissine esaminatrice. Il problema dei concorsi pubblici non è che tutte le università sono parificate nei punteggi, ma l'assenza di meritocrazia ed incentivazione nella gestione della pubblica amministrazione. Per un dirigente della p.a. non fa nessuna differenza assumere il migliore degli iscritti a concorso o l'incapace figlio del cugino. E il migliore degli iscritti a concorso non è necessariamente laureato a Harvard.

Credo si faccia molta confusione sul significato di valore legale. Con l'abolizione del valore legale molti intendono una serie di misure ad esso collegate, ma che con esso hanno poco a che fare. In quasi tutti i paesi del mondo esistono leggi che proibiscono l’esercizio di molte professioni senza un adeguato titolo di studio e una licenza. Parlare troppo del valore legale del titolo di studio significa dimenticare il vero problema del mondo accademico italiano, e cioè la mancanza di concorrenza fra atenei, ed il vero problema della pubblica amministrazione e delle professioni in genere: mancanza di incentivi, ordini professionali che limitano la concorrenza. Parliamo di questo, please. (Fonte: A. Moro, noiseFromAmerika 09-06-2011). Commenti all’articolo. Sull’argomento si veda anche il resoconto di una conferenza e l’ampio dibattito che ne è seguito su nfa, in cui si segnala l’intervento di A. Figà Talamanca sotto riportato.

Credo di aver già espresso la mia opinione su queste pagine in merito al valore legale dei titoli di studio universitari, ma tanto vale ripetermi (lo fanno tutti). Credo che, con le dovute eccezioni che riguardano prevalentemente le professioni sanitarie, si debba evitare di conferire a specifiche lauree il monopolio di alcune attività. Ad esempio fino a una ventina (o forse meno) di anni fa non c'era nulla che il dottore commercialista potesse fare che non  potesse fare un ragioniere non laureato, o, in alcuni casi un avvocato. L'ordine dei commercialisti non possedeva il monopolio di nessuna attività. La situazione è cambiata, a mio parere in peggio, quando si è cominciato a richiedere un diploma universitario triennale per accedere alla professione di ragioniere e quando si sono poste ulteriori barriere per la professione di revisore contabile (che non è piu' aperta agli avvocati). Storture di questo genere sono associate all'intreccio perverso tra ordini professionali e ordinamenti didattici per le lauree. Credo che siamo l'unico paese europeo dove è necessaria una laurea specifica per diventare attuario, una professione normalmente accessibile ai laureati in matematica (attraverso esami non facili). Non si sa perché esista l'ordine dei chimici, cui non può accedere un laureato in scienze dei materiali che risulti laureato nella "classe" di fisica, o l'ordine dei biologi cui non può accedere un laureato in biochimica. E' recente l’istituzione dell'ordine degli assistenti sociali cui non si può accedere che con la laurea specifica, triennale e magistrale. Un percorso come laurea triennale in fisica seguita da laurea magistrale in ingegneria nucleare non da' accesso all'ordine degli ingegneri (va bene invece se la laurea triennale è in una qualche ingegneria). Continuano a muoversi corporazioni e associazioni di laureati per creare nuovi ordini professionali. Sulla stessa linea si muovono molti sindacati del pubblico impiego (quando non chiedono sanatorie). Non so a che punto siano arrivati i giornalisti nel richiedere la laurea per scrivere sui giornali, ma sono all'opera da decenni. Insomma mentre tutti parlano di abolire il valore legale del titolo di studio nessuno si cura di combattere i tentativi di limitare la concorrenza ai laureati "doc", da parte dei non laureati o da parte di chi non possiede la laurea che si crede adatta per un dato mestiere.

Le mie proposte di attenuazione (non abolizione che non si sa che vuol dire) del valore legale del titolo di studio, (fermo restando la disciplina delle lauree magistrali a ciclo unico previste dall'Unione Europea) sono:

1) Prevedere che chi è stato iscritto per cinque anni a un ordine professionale riservato ai laureati triennali possa sostenere l'esame per entrare nell'ordine corrispondente riservato ai laureati magistrali.

2) Prevedere che l'accesso a un ordine professionale non sia più legato alla denominazione della laurea ma soltanto ai contenuti specifici misurati in termini di crediti, e che ogni laurea possa essere "integrata" con il conseguimento di ulteriori crediti attraverso quello che il TU chiamava "iscrizione a corsi singoli".

3) Applicare i criteri 1) e 2) ai concorsi pubblici, ad esempio un impiegato con laurea triennale ed esperienza di lavoro di alcuni anni dovrebbe poter partecipare ai concorsi in cui si chiede la laurea magistrale.

Queste proposte tendono a salvare la laurea magistrale dall'affollamento derivante dal suo eccessivo valore legale. Solo affrontando il problema dell'eccessivo valore legale della laurea magistrale si potrà ottenere l'effetto di una proporzione alta (2/3) dei laureati triennali che scelgono di non proseguire. Questo consentirebbe di chiudere molti corsi di laurea magistrali con risparmio di spesa e miglioramento della qualità dei corsi di laurea restanti.
 
L’ex Ministro Sirchia riaccende il dibattito sul valore legale della laurea PDF Stampa E-mail

La proposta di abolizione del valore legale della laurea non è affar nuovo. L’ha lanciata per la prima volta nel 1959 il secondo presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi e l’idea è poi ritornata in auge a fasi alterne da quel momento. L’anno scorso il deputato bolognese del Pdl Fabio Garagnani aveva riproposto l’argomento riaccendendo il dibattito e negli ultimi giorni è stato l’ex ministro della salute Girolamo Sirchia a ritrattare la spinosa questione. Per Sirchia il valore legale del titolo di studio pone, al momento dell’ingresso nelle professioni, tutti i laureati sullo stesso piano, senza considerare la loro effettiva preparazione. E l’effetto è che le università non sono quindi motivate a investire sulla formazione e sul reclutamento di professori di alto livello.

L’idea di Sirchia ha ovviamente riacceso il dibattito. Tra le realtà che si schierano dalla parte dell’ex ministro Confindustria, che vorrebbe sostituire il valore legale con rigorosi strumenti di accreditamento dei corsi di studio per certificarne il valore. Possibilista anche il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che ritiene giusto “rottamare” il valore legale della laurea nell’obiettivo di creare una concorrenza virtuosa tra le università, anche per attrarre più studenti dall’estero.

La Crui, conferenza dei rettori, non si schiera, ammettendo di non avere una posizione ufficiale in materia, nonostante che a tratti si sia mostrata possibilista sull’idea di prendere provvedimenti in direzione dell’abolizione. Sono fortemente schierati per il no, invece, i sindacati, l’Udu, la Rete29Aprile, Adu e Andu che sostengono che il provvedimento confligga con il principio costituzionale di pari opportunità.

Secondo questi attori si tratta di una proposta che penalizzerebbe i meno abbienti, discriminandoli poi nel processo di reclutamento professionale. E molti di loro vedono nell’idea un sottile tentativo dei proponenti di guidare il sistema universitario italiano sulla via della privatizzazione e del profitto privato. In questo modo, secondo i sindacati, si andrebbe inoltre a limitare la libera circolazione dei lavoratori in ambito internazionale, impedendo ai laureati italiani la certificazione delle loro competenze e dunque la partecipazione a concorsi europei.
(Fonte: G. Cimpanelli, università.it 22-06-2011)
 
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