Home 2011 8 Giugno
8 Giugno
Critiche ai nuovi statuti PDF Stampa E-mail

Le università stanno riscrivendo i loro statuti in applicazione della legge 240/2010. Le prime evidenze che emergono mostrano la tendenza degli atenei ad arroccarsi sulla conservazione dello status quo. Questa riforma, presentata dalla maggioranza di governo come "epocale", rischia così di tradursi in un nulla di fatto.

Alcune prime attuazioni sembrano tradire i principi definiti fondanti della riforma, quali la centralità della ricerca, la semplificazione organizzativa, il focus sulla qualità dei risultati e sulla loro valutazione come metro per assegnare risorse, l'efficienza decisionale, il richiamo all'etica dei processi della comunità universitaria. Principi ampiamente condivisibili, che nella legge però sono meri proclami cui è facile aderire, ma per i quali è molto meno facile trovare una metrica adeguata per tradurli in regole decisionali, in organizzazioni funzionanti, in meccanismi operativi virtuosi. Qui sta la causa prima dei vizi che alcuni atenei stanno introducendo. Basta leggersi i verbali e documenti istruttori (in itinere) delle commissioni statuto di alcuni atenei, accessibili sui siti web, quali per esempio Basilicata, Calabria, Genova, Napoli, Pisa, Roma Tre, Siena, Trieste, Verona, per avere esempi di alcune criticità.

In primo luogo, le modalità con cui è stata organizzata la fase costituente e sono stati designati gli organi deputati a svolgerla. Qui si va dal massimo della democrazia e condivisione a estremi di stampo dirigistico e autoritario. I primi sono processi che stimolano la partecipazione di tutte le componenti dell'ateneo, la massima trasparenza dei processi e dei documenti prodotti, riservandosi i vertici attuali solo un ruolo di garanzia sul processo. All'estremo opposto, i vertici di ateneo, spesso scaduti e in prorogatio per effetto della riforma, dettano linee guida molto stringenti alla commissione statuto su quello che il nuovo statuto dovrà essere. A volte i componenti della commissione statuto sono indicati dagli organi che la riforma esautora. In numerosi atenei i verbali e documenti della commissione sono resi accessibili solo dall'interno dell'ateneo oppure mantenuti riservati (oppure prima resi pubblici e poi oscurati).

E veniamo alla governance. I dipartimenti, che la legge vuole ridefiniti secondo criteri di omogeneità scientifica, spesso non sono ridefiniti per niente, ma sono mere aggregazioni degli attuali dipartimenti per facoltà, replicandole tali e quali sotto diverso nome, trasformando così l'omogeneità da scientifica a didattica. Il "partito dei presidi" mira a impacchettare nello stesso dipartimento i corsi di laurea offerti dalle attuali facoltà, limitando al minimo le interazioni tra i "nuovi" dipartimenti per quanto attiene alla didattica. L'omogeneità scientifica dei dipartimenti è, invece, indispensabile per il rilancio della ricerca e per una seria valutazione dei risultati, cui legare l'assegnazione delle risorse e la responsabilità primaria dell'offerta formativa. Come pure è gestibile (oltre che utile) l'interazione tra i dipartimenti che contribuiscono allo stesso progetto formativo, se si vuole migliorare la didattica, legandola allo sviluppo della ricerca nei diversi ambiti scientifici: soluzioni organizzative idonee allo scopo s'insegnano da anni nelle aule universitarie dei corsi di management.

Si teme, forse, che lo scardinamento delle attuali recinzioni in dipartimenti e facoltà e la successiva libera riaggregazione di docenti per progetti di ricerca e affinità scientifica possa intaccare l'attuale mappa del potere o cancellare i confini degli attuali "orticelli"? A volte, neppure si definiscono i criteri per formare i nuovi dipartimenti, ma si stabiliscono direttamente quanti (e quali) saranno, per garantirne piena rappresentanza nel senato accademico, ricavando ex post il numero minimo degli afferenti. Alla faccia dell'evoluzione del sapere e degli ambiti scientifici e di ricerca!

Ma emerge anche una strategia alternativa: dipartimenti attuali (adeguati ai minimi di legge) e strutture di raccordo - che la legge Gelmini immagina snelle con compiti puramente tecnici di coordinamento e razionalizzazione didattica - forti, sovraordinate rispetto ai dipartimenti, capaci di avocare a sé l'allocazione delle risorse, in un gioco di proposta, vaglio e riproposta con i dipartimenti degno della peggiore burocrazia degli apparati. Si chiamino scuole o strutture di raccordo, sono le attuali facoltà, governate però non da un organo collegiale (come ora), bensì da un consiglio di presidenti e direttori, strutture quindi non tecniche ma politiche, intermedie tra senato accademico e dipartimenti, con rappresentanza di diritto nei vertici di governo, così forzando il principio dell'elettività della rappresentanza e il divieto di cumulo di cariche nel senato accademico, fissati dalla legge (articolo 2, comma 1, lettere f e s).

L'attuale mappa del potere, insomma, non cambia, ma si rafforza e si verticalizza. Gli organi si moltiplicano e si moltiplicano i livelli decisionali. Altro che semplificazione. Ma perché la "nomenclatura accademica" dovrebbe lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione di una svolta centralista e autoritaria che la legge Gelmini, in nome di un decision-making più efficiente e finalizzato, consente e forse incentiva?

E che dire della tendenza a limitare il ruolo degli esterni, quando la legge li impone, nel consiglio di amministrazione o nel nucleo di valutazione? Che si tratti di fissarne il numero al minimo, oppure di far proporre o approvare i nomi dai vertici a composizione interna, oppure di rinviarne i criteri di designazione dallo statuto al regolamento interno, sono varianti dello stesso vizio di autoreferenzialità. Si farà ingannare il Miur da statuti (che dovranno passare il suo vaglio) snelli e deliberatamente reticenti? Dietro non ci saranno organizzazioni snelle, ma regolamenti interni (che non dovranno passare il suo vaglio) pesanti e dirigisti, necessari a regolare i potenziali conflitti di attribuzione che la moltiplicazione di ruoli e livelli comporta, che regolamenteranno tutto quanto lo statuto lascia indefinito.

Basterà al Miur poter dire di avere atenei riformati e virtuosi, ma solo sulla carta degli articoli e commi della legge? Userà il bastone della "legge dei principi" e la carota dell'autonomia attuativa (maglie larghe della legge e vaglio soft degli statuti) per salvare capra e cavoli? E consentire, oltre qualunque gattopardesca previsione, che tutto resti come è (o peggio)?
(Fonte: D. Venanzi, Il Sole 24 Ore, 02-06-2011)
 
Una riforma migliore delle riforme del passato PDF Stampa E-mail
Non che non ci siano state anche cose buone (dal punto di vista della modernizzazione del Paese) fatte dai governi Berlusconi. Per esempio, se non fosse per la faziosità che acceca tanti professori, essi dovrebbero riconoscere che la riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme fatte in passato dalla sinistra. Stante che il miglioramento del capitale umano è essenziale allo sviluppo, si capisce anche perché è meglio, in genere, che scuola e università siano in mano alla destra (sempre che essa sia capace, come è stato questo il caso, di scegliere un buon ministro) piuttosto che alla sinistra: a differenza della sinistra, la destra non è «ostaggio» delle corporazioni che dominano il settore dell'istruzione (capaci solo di protestare per i «tagli» mettendo la sordina sulle proprie inefficienze), è più libera di agire.
(Fonte: A. Panebianco, Corsera 28-05-2011)
 
Le immatricolazioni universitarie nel rapporto annuale ISTAT PDF Stampa E-mail

A detta dell'Istituto di statistica, in Italia continuano a calare le immatricolazioni, dopo il picco raggiunto nel 2002-2003. Secondo la Strategia Europa 2020, il 40 per cento dei 30-34enni deve avere un'istruzione universitaria o equivalente. La media Ue è pari al 32,2 per cento e dieci paesi (tra i quali Francia e Regno Unito) hanno già superato il livello atteso. Per quanto riguarda l'Italia, il dato è sconfortante: 19,8 per cento. Il Piano nazionale delle riforme, tra l'altro, fissa l'obiettivo tra il 26 e il 27 per cento, con un incremento atteso di circa 7 punti percentuali rispetto al valore attuale. Le università italiane, però, non sono al passo con quelle di Europa, Giappone e Stati Uniti: tra le prime 100 nel mondo 75 sono distribuite in Usa, Regno Unito, Giappone e Germania, mentre per vedere apparire l'Italia occorre allargare la classifica alle prime 200, dove figura con il 2 per cento dietro Francia (3,5 per cento) e Germania (7). Le immatricolazioni, tra l'altro, continuano a calare.

Le differenze di genere appaiono consistenti a favore delle donne (24,2 per cento di laureate a fronte del 15,5 per cento dei coetanei 30-34enni) e anche la tendenza premia la componente femminile, con incrementi medi di poco inferiori al punto percentuale annuo (più del doppio della corrispondente tendenza per gli uomini).

Le differenze territoriali sono accentuate, con le regioni del Centro nelle migliori posizioni (in Umbria, Marche e Lazio più di un giovane su quattro è laureato) e quelle del Mezzogiorno nelle peggiori (particolarmente Puglia, Campania e Sicilia). Ma anche Veneto e Friuli-Venezia Giulia si collocano al di sotto della media nazionale.

Le tendenze più recenti, infine, indicano una diminuzione sia della domanda potenziale di istruzione terziaria, con un calo dei diplomati tra i 19enni, sia della domanda effettiva, misurabile dal calo delle immatricolazioni rispetto alla popolazione dei diplomati che sono sempre diminuite, segnalando l'esaurimento degli effetti positivi della riforma dei cicli universitari.
(Fonte: rassegna.it 23-05-2011)
 
Immatricolati stranieri alle università italiane. Più che raddoppiati negli ultimi dieci anni PDF Stampa E-mail

L’immigrazione straniera in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, è un avvenimento piuttosto recente, che ha assunto caratteri significativi solo nell’ultimo decennio. Tuttavia in questo breve arco di tempo, si è rivelato fortemente dinamico, diventando un fenomeno sociale e culturale con il quale ci siamo trovati a convivere e che sta portando una piccola rivoluzione nella nostra società. In prima linea, in questa trasformazione, si è ritrovato tutto il sistema scolastico, tra cui anche l’Università, che ha registrato e continua a registrare un aumento annuale costante di iscrizioni di studenti con cittadinanza non italiana. Infatti, dalle indagini sull’Istruzione Universitaria effettuata dal Miur, si evince che, negli ultimi dieci anni, gli immatricolati stranieri alle Università italiane sono più che raddoppiati, e le iscrizioni sono passate da 23.088 unità nell’a.a. 1998/99 a 59.515 unità nell’a.a. 2009/10, e, a quanto risulta dall’Anagrafe Nazionale degli Studenti, nel corrente anno accademico 2010/11 gli iscritti stranieri hanno superato le 60.000 unità, con un’incidenza del 3,6% sul totale della popolazione universitaria. Tuttavia è da dire, che, secondo il rapporto OCSE “Education at Glance 2010”, l’Italia resta ancora il fanalino di coda rispetto alla media Europea fissata al 7,6%: Svizzera 20,3%, Regno Unito 19,9%, Austria 18,7%, Belgio 12%, Francia 11,2%, Germania 10,9 %, Portogallo 4,9%, Grecia 4,1%, Spagna 3,9%, Italia 3%.

C’è da notare che, la mappa ‘geografica’ della presenza di studenti stranieri in Italia è, molto disomogenea; infatti, la regione che ospita più studenti con cittadinanza non italiana è la Lombardia con 12.103 studenti (il 21% sul totale studenti stranieri in Italia), seguita dall’Emilia Romagna con 7.608 studenti (13%), terzo posto per il Lazio con 7.390 studenti (12,8%), seguita dal Piemonte con 6.761 studenti (11,7%). Invece, in termini di percentuali sugli iscritti totali nella regione, al primo posto è il Trentino Alto - Adige con una percentuale di 8%, seguito da Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Umbria con il 7%, terzo posto per l’Emilia Romagna con il 6% e Lombardia con il 5%. Insomma un vero e proprio divario tra Nord e Sud, dove le regioni più popolose quali Campania e Sicilia, ospitano soltanto l’1,5% degli studenti stranieri in Italia.

I corsi che attraggono di più gli studenti stranieri sono quelli dell’area medica, cui seguono le aree economiche, sociali e umanistiche. Sono ben 125 i paesi d’origine degli studenti stranieri nella nostra Università. Ai primi posti nella classifica delle cittadinanze più rappresentate, si confermano Albania (21,5%), Cina (9,6%) e Romania (9%). Significativa è anche la presenza di studenti originari dell’Africa, che provengono soprattutto dal Camerun (4%) e dal Marocco (3%), mentre gli studenti di nazionalità europea provengono principalmente da Romania (9%), Grecia (4%), Polonia (2%) e Germania (2%).
(Fonte: M. De Francesco, controcampus 31-05-2011)
 
I laureati italiani 2010 migliori di quelli pre-riforma PDF Stampa E-mail

I laureati italiani 2010 si confermano «migliori di quelli pre-riforma» e hanno caratteristiche simili al 2009: i risultati raggiunti con la riforma (più laureati in corso, più giovani, più stage, ma anche molti che proseguono gli studi) si vanno consolidando. Il tutto, però, con notevoli differenze tra aree disciplinari. Inoltre, cambia la rotta dei laureati-migranti per motivi di studio e lavoro che sono in aumento): non più solo da Sud a Nord, ma da Nord a oltre le Alpi. Contemporaneamente crescono, per le difficoltà economiche, i laureati che studiano nei luoghi d'origine. È quanto emerge dal tredicesimo profilo dei laureati italiani presentato oggi da Almalaurea all'università di Alghero. Migliora la riuscita negli studi: i laureati pre-riforma del 2004 conseguivano il titolo a 27,8 anni contro i 26,9 anni relativi al complesso dei laureati 2010. Un valore che migliora al netto del ritardo all'immatricolazione: per il complesso dei laureati, l'età alla laurea passa da 26,9 a 24,9 anni.

I più giovani a concludere risultano i laureati dei percorsi linguistico (24,6 anni), geo-biologico ed ingegneristico (entrambi a 24,7 anni) mentre l'età più elevata si riscontra fra i laureati dei gruppi insegnamento (28,5 anni) e giuridico (29,2).

Concludono nei tre anni previsti il 67% dei laureati delle professioni sanitarie e il 39% del chimico-farmaceutico ed economico-statistico. All'estremo opposto, restare in corso riesce possibile soltanto a 14 laureati su cento del gruppo giuridico e a 28 su cento di quello agrario. Le donne, che dal 1991 hanno superato i loro colleghi uomini a numero di immatricolazioni, sono ulteriormente aumentate e nel 2010 rappresentano oltre il 60% dei laureati.

Il profilo ha coinvolto 191.358 usciti dalle università nel 2010 (110.257 con laurea di primo livello, 53.180 con laurea specialistica/magistrale e 15.291 con laurea a ciclo unico) in uno dei 56 Atenei aderenti da almeno un anno ad AlmaLaurea.
(Fonte:Il Messaggero 27-05-2011)
 
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