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18 Aprile
Dipartimenti, scuole e stato giuridico PDF Stampa E-mail
Le cosiddette Scuole, se istituite, aumentano di un'unità il numero di livelli decisionali relativi alla didattica: Corso di Studio, Dipartimento, Scuola, Senato accademico, contro i tre di adesso: C.S., Facoltà, S.A. Logica vorrebbe che le Scuole non si facessero. D'altra parte, considerato l'enorme aggravio di lavoro che i Dipartimenti dovrebbero affrontare per farsi carico della didattica, la scelta più logica sarebbe invece quella che i Dipartimenti demandassero completamente alle Scuole tutte le questioni di didattica, continuando a occuparsi solo di ricerca. Le Scuole potrebbero a questo punto essere formate col criterio di rappresentare tutti e soli i Corsi di Studio affini, ripristinando in modo allargato il concetto di Facoltà. Questione giuridica. È opportuno che lo Statuto dichiari esplicitamente che viene conservato lo stato giuridico delle diverse categorie di personale docente e non docente, stato giuridico che è stato fissato dall’ultimo concorso in ordine di tempo. Considerato che le leggi non possono agire retroattivamente, ritengo debba di diritto essere mantenuta la titolarità della disciplina e la collocazione di sede (non a caso, l’articolo della L. 18.03.58 n. 311 che prescrive l’inamovibilità non è toccato dalla 240/10). È opportuno che lo Statuto esprima questi aspetti con chiarezza, indicando fra l’altro che l’eventuale opzione a Dipartimenti esistenti o di nuova istituzione non rappresenta un’implicita dichiarazione di rinuncia a diritti pregressi. Sempre in merito alla questione esprimo anche un dubbio al quale sarebbe opportuno fornire una risposta corroborata da riferimenti giurisdizionali: se la Facoltà è la sede formale di uno stato giuridico, in cosa consiste la sua conclamata “abolizione” da parte della L. 240/10 (che, di fatto, è una semplice “non menzione”, il che è diverso da “abolizione”)? Abolita la Facoltà, dove va a finire lo stato giuridico?
(Fonte: M. Rudan, Note per la commissione statuto, UNIBO 23-03-2011)
 
Portatori d’interesse nei CDA PDF Stampa E-mail
Le università italiane si trovano in una situazione per certi versi analoga a quella della società di capitali dopo la revisione del diritto societario nel 2004: affrontare la sfida dei nuovi statuti. La differenza è che per gli atenei non si tratta di una semplice opportunità, ma di un obbligo da rispettare in termini relativamente brevi: luglio 2011. I nuovi consigli di amministrazione. È una grande opportunità valorizzare alcuni aspetti di una riforma. Uno di questi è il ruolo del consiglio di amministrazione con la presenza obbligatoria di un numero minimo di rappresentanti esterni. L’argomento è stato oggetto di polemiche, soprattutto da parte di chi vede nella rappresentanza una sorta di cavallo di troia per l’incombente privatizzazione dell’istruzione universitaria. In realtà è questa un’esperienza largamente diffusa nelle università europee. I portatori d’interessi dovrebbero assicurare un vero impegno attraverso adeguati investimenti; questo garantirebbe una partecipazione al governo universitario con reali forme di responsabilizzazione sugli indirizzi gestionali e strategici. Naturalmente, gli investimenti dovrebbero inserirsi in un necessario quadro regolamentare, prevedendone la specifica finalizzazione. Se si devono escludere apporti alle spese generali di funzionamento, potrebbero essere istituiti specifici fondi alimentati (anche) dalle risorse private; ad esempio in relazione alle iniziative d’internazionalizzazione (articolo 2 lett. l), o di promozione del merito tra gli studenti. Il famoso fondo di cui all’articolo 4 corre il rischio di rimanere lettera morta perché non ci sono soldi, ma il comma 9 dello stesso articolo prevede la possibilità di apporti privati che al momento rappresentano, forse, l’unica ancora di salvezza. Può sembrare paradossale, ma uno statuto teso a valorizzare la funzione pubblica dell’università e a tenere il più lontano possibile forme di privatizzazione strisciante, dovrebbe comportarsi in modo esattamente opposto da quello indicato da chi vorrebbe rappresentanze esterne slegate da qualsiasi interesse economico privato. Sul futuro non bisogna farsi illusioni: comunque la si metta, non si può fare affidamento sulle sole risorse statali e allora è meglio chiamare gli stakeholder realmente, e non a parole, interessati all’istruzione superiore ad assumersi fino in fondo le loro responsabilità. La domanda è: in un consiglio di amministrazione è meglio avere il solito rappresentante di un’associazione di categoria che farà le solite litanie, o un imprenditore che decide di investire nell’università pubblica e mette i suoi soldi per finanziare formazione e ricerca e vuole controllare i risultati di questi investimenti?
(Fonte: F. Vella, notizie.tiscali.it 25-03-2011)
 
Come sarebbe stata una riforma realmente liberale PDF Stampa E-mail
Una riforma realmente liberale, come prima cosa, avrebbe abolito il valore legale del titolo di studio. Questo avrebbe costretto le Università a competere tra loro per accaparrarsi i migliori studenti e docenti/ricercatori offrendo migliori servizi e incentivi. E non solo le Università pubbliche ne avrebbero tratto giovamento. La concorrenza fa bene anche alle private che, in Italia, invece di competere sul mercato preferiscono chiedere, immediatamente accontentate, più finanziamenti allo Stato. Vorrei ricordare, infatti, che le performance sul piano della qualità e quantità della ricerca delle Università private italiane sono spesso disastrose. Una riforma realmente liberale avrebbe previsto l’abolizione del meccanismo perverso e inutile del concorso pubblico, abbinando questo provvedimento a un più spiccato meccanismo di valorizzazione finanziaria delle performance dei dipartimenti. Io assumo chi voglio, ma se prendo brocchi e il dipartimento non produce, mi assumo la responsabilità della sua chiusura. E avrebbe previsto una liberalizzazione dei percorsi di carriera e delle premialità interne. Inoltre, una riforma veramente liberale avrebbe dovuto, in modo correlato, abolire le caste degli ordini professionali che rappresentano un inaccettabile tappo per l’inserimento dei giovani neo-laureati. Infine, avrebbe realizzato una maggiore separazione tra le strutture di ricerca e quelle prevalentemente orientate alla formazione. Non è possibile far fare tutto a tutti.
(Fonte: G. Nicolosi, notizie radicali 12-04-2011)
 
Ridimensionamento dei corsi PDF Stampa E-mail
Dal prossimo anno accademico alcuni corsi di laurea, in base alla normativa vigente, potrebbero non essere attivati per la mancanza dei "requisiti minimi di docenza". L'effetto, in questo caso, non è prodotto diretto della Legge di Riforma entrata in vigore a fine gennaio ma parte da più lontano: precisamente dal Decreto Ministeriale n. 17 del 22 settembre 2010 che fissa i "paletti" numerici da rispettare per essere in regola e poter continuare a erogare un corso presente nell'offerta formativa d'ateneo. La razionalizzazione dei corsi di laurea, che dal punto di vista squisitamente economico-finanziario può rappresentare una boccata d'ossigeno per i bilanci accademici, prevede due soluzioni: la soppressione o l'accorpamento. Provvedimenti che, uniti al blocco del turn-over e ai pensionamenti previsti nei prossimi anni, metteranno a dura prova gli atenei riducendo il bacino di docenti per coprire i corsi attivati. Con il risultato che l'offerta formativa delle università pubbliche subirà, nel suo complesso, un forte ridimensionamento.
(Fonte: La Repubblica 30-03-2011)
 
La vera riforma?: via il valore legale delle lauree, i concorsi, il posto fisso PDF Stampa E-mail
La vera riforma dell'Università si può fare solo con tre abolizioni: cancellando il valore legale del titolo di studio, i concorsi e il posto fisso. II Gruppo 2003 per la ricerca scientifica lo sostiene da anni. Ma nessuna di queste proposte normalmente implementate in tutti sistemi universitari del mondo è stata inclusa nella legge Gelmini: eccetto la limitazione a 6 anni dei contratti per i ricercatori. L'abolizione del valore legale del titolo di studio è l'unico strumento realmente efficace per mettere in competizione le Università: attraverso selettivi esami nazionali di abilitazione alle professioni, eguali per tutti, potranno emergere le migliori, che vedranno promossi i loro laureati rispetto a quelle meno buone, che saranno così obbligate a cambiare e migliorare, o a chiudere, o a diventare atenei di seria B. Le Università migliori potranno così aumentare le tasse, e devolvere adeguati fondi per realizzare veramente il diritto allo studio. I concorsi saranno inutili, perché le Università avranno la piena responsabilità di scegliere i migliori pagandone le conseguenze se le scelte sono sbagliate, ma con la possibilità di rimediare attraverso l'abolizione del posto fisso. Queste proposte sono ampiamente condivise dalla comunità scientifica, come si può vedere su www.scienzairirete.it, e riflettono ciò che avviene nei paesi con cui competiamo nell'economia della conoscenza.
(Fonte: P. M. Mannucci, L’Espresso 14-04-2011)
 
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