Home 2010 26 Ottobre
26 Ottobre
Le fondazioni non privatizzano l'università PDF Stampa E-mail
Rispondo alle argomentazioni riportate nell'articolo di Eleonora Martini del 14 u.s. sulle proposte da me presentate agli organi di governo di Roma Tre. Le proposte non sono conigli estratti dal cilindro in quanto erano parte del mio programma per il mandato rettorale 2008-2012. Le norme di riferimento non sono quelle che prevedono la trasformazione delle Università in fondazioni, ma quelle che rendono possibile l'istituzione di fondazioni delle Università. La differenza è sostanziale: nel primo caso si tratta di una reale privatizzazione dell'Ateneo, nel secondo di uno strumento al servizio dell'Ateneo. Sono decisamente contrario alla prima ipotesi. Il progetto riprende esperienze positive realizzate da molti atenei italiani. Si può forse sostenere, solo per citare alcuni casi, che sia stata privatizzata l'Università di Bologna, la Politecnica delle Marche, il Politecnico di Milano, lo Iuav di Venezia, l'Università di Pavia, l'Università di Perugia o quella dell'Aquila? Dovunque le fondazioni delle Università hanno dimostrato di non limitare affatto le funzioni istituzionali e le scelte di politica scientifica e gestionale degli Atenei. Esse non hanno leso la concezione di Università come comunità scientifica di docenti e studenti, istituzione pubblica preposta all'alta formazione e alla ricerca. Il richiamo alla bad and good company lo respingo decisamente. La fondazione contribuisce al potenziamento dei rapporti di tutto l'Ateneo con il mondo del lavoro, delle imprese e delle istituzioni pubbliche e private. La garanzia è nel fatto che agli organi di governo dell'Ateneo sono demandati, tra l'altro: la nomina degli organi; la predisposizione delle linee di indirizzo e degli obiettivi; l'approvazione dei programmi annuali e poliennali con l'attribuzione delle risorse necessarie; la definizione dello statuto. Ci vuole fantasia per definire tutto ciò un Ateneo privato parallelo...! (G. Fabiani, Rettore Università Roma Tre, Il Manifesto 17-10-2010)
 
La commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e l’autonomia universitaria PDF Stampa E-mail
L'iniziativa della Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali è considerata una lesione dell'autonomia degli atenei se non, addirittura, una sorta di schedatura di chi contesta la riforma dell'università varata dal ministro Mariastella Gelmini. La protesta nasce con la diffusione, attraverso la Labourlist (la mailing list privilegiata dai giuslavoristi), di una lettera, inviata lo scorso 5 ottobre ai rettori delle università italiane, in cui la Commissione di garanzia chiede che le vengano comunicate con «urgenza» notizie su ricercatori e professori che siano in agitazione o astensione dal lavoro. Il garante intende sapere «quali attività si rifiutino di svolgere» i ricercatori e se la volontà di astenersi dall'attività didattica sia stata manifestata preventivamente, con «l'indisponibilità all'assunzione degli incarichi di docenza», o «dopo aver espresso disponibilità a tenere i corsi». In riferimento ai docenti di prima e seconda fascia, invece, si chiede di sapere se sono in corso «agitazioni e/o astensioni dalla didattica» e «con quali modalità siano state proclamate e si svolgano», sollecitando l'invio di «ogni documentazione utile». Richieste molto dettagliate che alcuni giuslavoristi interpretano come una sorta di schedatura dei contrari alla riforma governativa e altri, i meno arrabbiati, ritengono quanto meno «irrituali». Già mercoledì scorso, comunque, il presidente della Crui in una missiva al presidente della Commissione di garanzia, Giovanni Pitruzzella, aveva chiarito la posizione dei rettori su uno dei punti in questione: e cioè che la legge «non prevede alcuna obbligatorietà per le attività didattiche affidate ai ricercatori». (A. Vastarelli, Il Mattino 16-10-2010)
 
Il Presidente della Repubblica: attribuire rilievo prioritario a ricerca e alta formazione PDF Stampa E-mail
Università: Il presidente della Repubblica Napolitano: ''Nessuno può fingere di ignorare le difficili condizioni del sistema universitario e anch'io condivido la forte preoccupazione di docenti e studenti e conto sul loro sentimento di responsabilità al di là di ogni momento di comprensibile frustrazione''. Lo ha detto intervenendo a Pisa al convegno per celebrare il bicentenario della fondazione della Scuola Normale Superiore. ''Senza interferire nelle discussioni e nelle decisioni che hanno luogo in governo e in parlamento - ha aggiunto - sento il dovere di riaffermare il rilievo prioritario che va attribuito, non solo a parole ma con i fatti, alla ricerca e all'alta formazione e dunque all'Università'''. (Adnkronos 18-10-2010)
 
Università: parla il ministro Gelmini PDF Stampa E-mail
''Dispiace constatare che molti giovani ancora non abbiano capito che non è difendendo la quantità dei professori che difendono il loro futuro. Bisogna guardare all'Università non come ad un ammortizzatore sociale, un luogo solo per fare occupazione''. Così, il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, nel corso della ''Telefonata'' con Belpietro su Canale5. Pur ammettendo ''qualche difficoltà legata ad una sincronizzazione fra il progetto di riforma e le risorse che sono indispensabili per il normale funzionamento dell'università''' e giudicando ''legittime'' le preoccupazioni legate allo slittamento della riforma , ''che io mi auguro sia solo di un paio di mesi, nella peggiore delle ipotesi'', Gelmini osserva: ''C'e' chi da sempre dentro l'università protesta ma avendo gli occhi rivolti al passato. Perché la verità è che l'università ha bisogno di un profondo cambiamento, di una impostazione nuova, non legata alla quantità ma alla qualità dell'insegnamento e dei corsi, alla preoccupazione di una ricaduta occupazionale per gli studenti. La riforma intercetta esattamente queste esigenze''. Quanto al tema delle risorse, ''va posto nella giusta ottica. Noi abbiamo iniziato con un piano di razionalizzazione indispensabile, contro gli sprechi, per evitare le spese inutili, per legare l'autonomia alla responsabilità. Oggi è il tempo di approvare una riforma in linea con UE e con altri provvedimenti che altri Stati come ad esempio la Francia stanno portando avanti''. ''E' compito del Governo trovare le risorse per il corretto funzionamento dell'università''', aggiunge Gelmini, ''ma io mi fido di Tremonti che ha assicurato che i fondi saranno reperiti nel Milleproroghe''. ''Nelle prime 100 università a livello internazionale sono pochissime le università italiane - ricorda il ministro - ma sbaglia chi pensa che questo sia solo un problema di risorse: è in primo luogo un problema di regole. La verità è che l'impostazione falsamente egualitaria del '68 ha portato le nostre università agli ultimi posti nelle classifiche internazionali''. Per questo è tempo di cambiare, magari anche accorpando atenei in deficit. “Qualche università purtroppo - ha spiegato - è in una situazione di dissesto finanziario. Non a caso la riforma prevede la fusione piuttosto che la federazione di atenei diversi come strumento per favorire una riprogrammazione dell'offerta formativa”. ''Non dobbiamo puntare a tante università o all'università sotto casa - avverte - ma a centri di eccellenza, collegati con il mercato del lavoro, con le imprese, con i centri di ricerca. L'Università autoreferenziale non serve ai giovani e non serve al Paese''. (ASCA 19-10-2010)
 
Ministoria di 50 anni dell’università PDF Stampa E-mail
L’Università italiana ha cambiato faccia, diventando università di massa, sul finire degli anni ‘60, per la precisione con la liberalizzazione degli accessi alle facoltà del 1969. Nel decennio successivo vi furono numerose assunzioni, per lo più necessarie alla luce dell’aumento degli iscritti, e condotte sulla base di un sistema (3 vincitori per ogni concorso: il primo assunto e due idonei in cerca si sede) che con la legge 382 del 1980 cambiò radicalmente. Dal 1980, infatti, un meccanismo de facto equivalente a una gigantesca ope legis consentì l’ingresso in ruolo (a vita) di migliaia di “precari”, che negli anni immediatamente seguenti, superando un semplice esame, intasarono i ranghi dell’accademia. Con l”80 fu anche istituita la tripartizione del corpo accademico in ordinari, associati e ricercatori, questi ultimi senza alcun onere didattico, e votati esclusivamente alla ricerca (al massimo ad attività di supporto alla didattica svolta da associati e ordinari). Seguì un fisiologico periodo di reflusso negli ingressi, favorito anche dal fatto che a partire dal 1990 ai ricercatori fu consentito di insegnare, dapprima con modesti onorari, poi gratuitamente, ma dando loro la fondata prospettiva di costruirsi una piattaforma per una futura progressione di carriera. Così andò in effetti per alcuni (e non sempre per i più meritevoli), ma non per tutti. Gli anni ‘90 videro due eventi di grande portata, entrambi legati al nome del ministro Luigi Berlinguer: da un lato la cosiddetta “autonomia” degli Atenei, di fatto un decentramento delle risorse che risultò nell’economia fino all’osso in alcune sedi e nello spreco in altre (un fenomeno che perdura sino ad oggi), dall’altro l’introduzione del sistema “3+2″, che ci ha omologato in larga parte all’Europa sul piano formale, agganciandoci al cosiddetto e famigerato “Processo di Bologna”, ma è stato messo in atto nel modo più dissennato: nessuna riorganizzazione sostanziale della didattica, ovvio allungamento del percorso di laurea, moltiplicazione e conseguentemente assottigliamento degli esami (si veda quanto ne dice Umberto Eco), curricula spesso simili a ircocervi: la proliferazione di insegnamenti che ha preceduto e seguito questa riforma, l’introduzione dei cosiddetti Crediti Formativi, e la conseguente, necessaria riorganizzazione dei piani di studio, hanno gettato l’università tutta in un cantiere dal quale non si è ancora ripresa. E soprattutto hanno trasformato l’idea stessa dell’università (specie per quanto riguarda la formazione umanistica), esortando il discente a collezionare crediti (come i punti del supermercato) anziché a formarsi come persona, e marginalizzando il docente in una sorta di travet dal quale ci si aspetta non già un contributo alla crescita della società, sebbene l’ordinata somministrazione e amministrazione di un nucleo di nozioni di base a studenti sempre meno preparati. Di questo ha discusso recentemente, con somma lucidità, Carlo Galli. Negli anni si sono succedute poi una serie di piccole riforme dei concorsi, i quali nel 1998 compirono il grande salto passando da “nazionali” a “locali”, con un semplice cambio di modalità (nel senso dell’agevolazione) dei fenomeni corruttivi e dei favoritismi. Il particolarismo locale (che ancora non passava per federalismo) condusse poi a una proliferazione di sedi decentrate o tout court nuove anche in città o cittadine dove esse il più delle volte non avevano alcuna ragion d’essere; ma è vero che non di rado in sedi piccole o marginali sono stati sistemati ricercatori e docenti di prim’ordine, con tanti saluti all’intenzione di creare “centri di eccellenza”, e con ulteriori saluti alla possibilità di creare veri centri di ricerca pura quali proliferano in altri Paesi (il CNRS in Francia, il Max-Planck in Germania). L’ultimo decennio ha visto un fenomeno singolare: prima una serie di concorsi condotti alla vecchia maniera, ovvero con “bine” o “terne” di vincitori, in cui gli idonei, senza ulteriori ambagi o dopo qualche tempo di purgatorio, venivano chiamati dalla loro università di origine (o, per i più fortunati, da un’altra disponibile); poi una progressiva contrazione e infine un blocco prolungato (per le due fasce della docenza), cui gli Atenei si sono sottratti solo tramite apposite deroghe; oggi non abbiamo altro che timide infornate di nuovi ricercatori (sempre presentate come “l’ultima spiaggia”) E poi, come si sarà capito, sono cambiati i numeri: a un decennio di vasto reclutamento (gli ‘80), nel quale gli insegnamenti e i settori scientifico-disciplinari si sono moltiplicati senza criterio (favorendo la stabilizzazione di personale inutile e, sul piano culturale, una parcellizzazione del sapere che, almeno negli humaniora, ha pochi riscontri in altri Paesi), ha fatto seguito un periodo di altalene, in cui ondate di ingressi e di pause si sono succedute senza alcuna ratio, sfuggendo a ogni piano di regolarità e ad ogni programmazione. Infine – e questa è la situazione presente – i blocchi degli anni Duemila hanno causato, e vieppiù causeranno nei prossimi pochi anni, un rapido invecchiamento del corpo docente, e il progressivo svuotamento di alcuni settori (nel 2018, si calcola, il 50% degli attuali ordinari sarà in pensione: è logico, se si pensa che molti sono entrati nell”80). (F. Pontani, http://www.ilpost.it/2010/10/19/luniversita-italiana-spiegata-bene/4/)
 
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