Home 2010 12 Ottobre
12 Ottobre
La diffusione delle sedi universitarie PDF Stampa E-mail
A partire dai lontani anni sessanta, si vedeva già la strategia, a mio parere deleteria e perversa, sul piano dei costi e sul piano della qualità, che è quella della diffusione sotto il portone di casa, possibilmente tra il tabaccaio e il salumiere di famiglia, di istituire una sede universitaria. Questo vezzo è dilagato negli ultimi 10-15 anni.  Per non farla lunga, la situazione attuale, che a me risulta dai dati ufficiali, è che abbiamo in Italia circa 330 sedi universitarie, che diviso per 107 province fa circa tre sedi universitarie per ogni provincia. Allora, dai dati che ho a disposizione ma che potranno sempre essere verificati e indagati, sempre per non annoiarvi cito soltanto alcuni casi estremi che gridano scandalo e vendetta e, per non far torto a nessuno, ho inserito anche alcuni casi del mio territorio di origine, quindi non voglio proteggere nessuno, ma in molte di queste sedi universitarie le immatricolazioni sono al di sotto dei 50 studenti: Ala, 46 studenti per quattro corsi di laurea; Sant'Angelo dei Lombardi, Torrevecchia Teatina, Bressanone, tre corsi di laurea zero studenti; Busto Arsizio, Mosciano Sant'Angelo, Bosisio Parini, Figline Valdarno, Iesi, Matelica, Pietra Ligure, Faenza, Città di Castello, Voghera, Sesto San Giovanni, Ariccia, 18 immatricolazioni per due corsi di laurea; Fano, San Giovanni Rotondo, 17 immatricolazioni per due corsi di laurea; Venaria Reale, 3 immatricolazioni per un corso di laurea, iscritti totali 17; Verres, zero immatricolazioni, zero iscritti, due corsi di laurea; Lagonegro, Tortona, Vigevano, Piazza Armerina, Cava dei Tirreni... e mi fermo qua. Perché ho citato questi dati, ovviamente da verificare, ma sono i dati che sono riuscito a rintracciare rapidamente? Perché nel disegno di legge di riforma c'è un fatto fondamentale come titolo e cioè "Fusione e razionalizzazione di atenei". Ora, se non partiamo da questo punto fondamentale tutto il resto è totalmente inutile. Perché il criterio è definire innanzitutto che cosa è l'Universitas Studiorum che nella dispersione di sedi e di risorse che risulta sul territorio non ha niente a vedere con il diritto allo studio, perché questo è in realtà una mistificazione del diritto allo studio, quello cioè di portare sedi ridicole e assurde in posti altrettanto ridicoli e assurdi illudendo studenti e famiglie per un'intera generazione. E allora la responsabilità politica è quella di partire da questo punto, da una decisione responsabile del Governo nazionale, la fusione e la razionalizzazione degli atenei. Potrà e può essere concordata, ma questo è un tema strategico nazionale che non ha niente a che vedere con l'autonomia. L'autonomia viene subito dopo sul come si esercita la gestione delle sedi universitarie, ma è una decisione strategica politica nazionale quella che serve. (Dall’intervento del senatore Baldassarri nella discussione generale del disegno di legge n. 1905, luglio 2010)
 
Il finanziamento dell'università italiana. Un confronto con l'Inghilterra PDF Stampa E-mail
I dati si riferiscono al 2007/08. Il sistema universitario inglese ha nel complesso molte più risorse finanziarie a disposizione di quello italiano, che provengono da diverse fonti. Se si pesano correttamente gli studenti fuori-corso, non esistono tuttavia differenze apprezzabili nel finanziamento pubblico corrente tra i due sistemi (FFO e Recurrent Grants) mentre esistono importanti differenze nei meccanismi di distribuzione dei fondi ordinari tra gli atenei. Il divario nelle risorse complessive a disposizione dei due sistemi dipende principalmente da altre due principali voci di entrata: le tasse di frequenza pagate dagli studenti, il finanziamento alla ricerca, soprattutto di fonte pubblica. Su quest'ultimo terreno, il divario non è solo quantitativo ma anche qualitativo. L'ammontare di risorse pubbliche destinate alla ricerca universitaria è in Inghilterra 12 volte maggiore rispetto a quanto distribuito in Italia. Non è solo una differenza di quantità: ben due terzi dei fondi disponibili in Inghilterra sono distribuiti attraverso bandi aperti e competitivi, contro appena un quarto in Italia. Gli effetti incentivanti di questi due sistemi possono contribuire a spiegare il diverso posizionamento nelle classifiche internazionali dei due sistemi universitari. (I. Morlini, D. Mantovani, Seminario Univ. di Modena e Reggio E. 20-09-2010)
 
Il Ministro parla in Senato dell’autonomia e dei problemi finanziari degli atenei PDF Stampa E-mail

Vorrei sviluppare il tema dell'autonomia e cercare di rispondere ad una critica che viene mossa spesso a questo disegno di legge, cioè l'accusa di essere dirigista. È certamente un'accusa facile, ma a mio modo di vedere ingiusta, perché le nostre università - non possiamo dimenticarlo - sono enti pubblici gestiti sulla base delle leggi in materia. Tutto va normato per legge: strutture di governo, diritti e doveri dei professori, meccanismi concorsuali, diritto allo studio, norme contabili. In questo contesto abbiamo compiuto ogni sforzo per snellire, semplificare e delegificare, anche grazie al contributo della Commissione VII, che voglio ancora ringraziare. Oltre non è possibile andare e, in effetti, mi sembra che anche alcune proposte dell'opposizione si muovano all'interno dello stesso perimetro concettuale. Certo, personalmente sogno un futuro in cui la forza della valutazione e il suo impatto pervasivo sui comportamenti dei singoli e delle istituzioni consentano di abbandonare molte delle regole che oggi riscriviamo. Me lo auguro, ma non credo di peccare di pessimismo se affermo che i tempi per questa rivoluzione oggi non sono ancora maturi.

Nel frattempo, invito gli onorevoli senatori a considerare con particolare attenzione le norme che già si spingono in quella direzione: penso alla possibilità che gli atenei virtuosi sperimentino proprie modalità di organizzazione e di gestione; alla facoltà data agli atenei medi e piccoli di semplificare ulteriormente la struttura interna, una norma che riguarda oltre la metà di tutte le istituzioni universitarie; all’eliminazione di macchinose procedure elettive per la formazione delle commissioni di concorso e alla completa libertà data agli atenei di regolare come meglio credono le procedure interne di chiamata, di selezione e di promozione.

Sono riuscita a far fronte alla promessa fatta dal mio predecessore e a finanziare, per 40 milioni di euro nel 2008 e 80 nel 2009, nuovi posti da ricercatore, anche se, sia chiaro, ho dovuto trovare ex novo quei fondi.

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Un’agenzia nazionale per la ricerca PDF Stampa E-mail
La produzione scientifica italiana è scarsa perché i ricercatori sono pochi (3,6 ogni mille occupati contro i 6 della Ue), ma la bibliometria dice che la produttività è alta (38 citazioni per ricercatore italiano contro le 51 dell'inglese, le 32 del tedesco e le 26 del francese). Nel 2009, l'European Research Council ha selezionato 32 progetti proposti da italiani. Un record. Solo la Germania vanta un numero uguale. E tuttavia solo la metà di tali progetti proviene da enti italiani. I britannici hanno ottenuto l'ok su i8 progetti, ma il Regno Unito, favorito anche dalla lingua, guida la classifica per Paese, con ben 43 progetti, mentre l'Italia è al settimo posto. 11 sistema formativo italiano, oggetto di tante e talvolta pelose reprimende, è tuttora in grado di sfornare cervelli, ma il Paese non sa trattenerli e meno che mai attrarne da fuori. Insomma, l'Italia investe in formazione a beneficio degli altri. Una beffa. Se i soldi son pochi, è ancor più necessario usarli al meglio. Nei giorni scorsi, il Gruppo 2003 che riunisce buona parte degli 8o italiani più citati sulle riviste scientifiche internazionali, ha sottoposto l'idea di un’Agenzia nazionale per la ricerca al vaglio informale di alti esponenti della ricerca, dell'Università, del non profit, delle fondazioni bancarie, dell'industria. Formata da scienziati e gestori tecnici di risorse, sulla base delle linee guida e degli stanziamenti del governo, l'Agenzia dovrebbe accentrare in un'unica mano i fondi oggi dispersi tra ministeri e regioni e assegnarli ai progetti sulla base di criteri oggettivi (la cosiddetta peer review, il parere dei colleghi autorevoli), seguendone lo stato di avanzamento e controllando infine i risultati. Ovvietà? Non in Italia. Dove manca uno sportello serio, trasparente e affidabile verso il quale possano convergere anche le risorse private, garantite dalla certezza dell'approccio professionale. Sarebbe un nuovo carrozzone? No, se i costi dell'Agenzia si limiteranno al 2-3% dei fondi intermediati e saranno in buona parte compensati dalla chiusura dei comitati attuali e dal riutilizzo di personale ministeriale, senza contare il maggior rendimento delle risorse. La vera domanda, in realtà, è un'altra: sapranno mai, ministri e governatori, rinunciare a parte delle loro satrapie? Il dubbio è dettato dall'esperienza e così, nell'incontro promosso dal Gruppo 2003 e ospitato dal Corriere della Sera, si è trovata una prima intesa sull'idea di un'Agenzia nazionale sì ma limitata in prima battuta al ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e a quello della Sanità. Una lunga marcia comincia da un piccolo passo. Ma nessun passo sarà mosso se gli scienziati non prenderanno in mano il loro destino. (M. Mucchetti, Corsera 17-09-2010)
 
Il Ministro Gelmini: un decreto per ridurre i corsi di laurea. Il Ministro Tremonti: ridotazione finanziaria solo con la riforma PDF Stampa E-mail
A Palazzo Chigi, assieme al ministro Giulio Tremonti, il ministro Gelmini ha presentato un DM (n. 17/2010 - http://attiministeriali.miur.it/anno-2010/settembre/dm-22092010.aspx), che riduce quasi del 20% il numero dei corsi di laurea, da 6.000 a 4.800 circa. Tra le novità si segnalano: il fatto che gli Atenei non potranno più attivare corsi di studio se carenti "dei requisiti di docenza", ivi inclusi anche i concorsi "in itinere"; nell'eventualità che determinati corsi non raggiungano un numero minimo previsto di immatricolazioni, il MIUR, sentita l'Agenzia di valutazione degli Atenei, avrà facoltà di disattivarli ovvero di penalizzarli all'atto della ripartizione dei fondi ordinari; saranno introdotti nuovi requisiti organizzativi per l'attivazione dei corsi: "Non potranno esistere insegnamenti e moduli con meno di 5-6 crediti formativi" e sarà introdotto "un tetto massimo al numero di insegnamenti attivabili in relazione alla docenza disponibile". Nel decreto sono previsti anche l'istituzione dell'anagrafe delle pubblicazioni scientifiche per monitorare e incentivare il lavoro di ricerca dei docenti, la riqualificazione delle scuole di dottorato con la riduzione dei corsi a basso numero di iscritti e un aumento di quelli nei settori di maggiore interesse per il sistema produttivo e l'istituzione dell'anagrafe dei laureati. E' previsto, infine, che fino al 2012 le Università non potranno istituire nuove Facoltà, attivare nuovi corsi a distanza e corsi di sedi distaccate. Tali requisiti s’inseriscono in un “piano di programmazione triennale delle università” per il 2010-2012. Proprio sui fondi che consentiranno la realizzazione della riforma dell’università, si è soffermato Giulio Tremonti: “La logica della riforma – ha spiegato – si basa su due coppie di parole: riforma universitaria e dotazione finanziaria. Non era possibile una riforma senza una revisione finanziaria e la revisione non poteva essere fatta senza riforma universitaria. Le due logiche vanno insieme. Pensiamo che in un mese o due si potranno definire i presupposti della ridotazione finanziaria che andranno nel decreto-quadro finanziario di fine anno.” (http://www.freenewsonline.it 22-09-2010)
 
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