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01 Settembre
Meritocrazia applicata all’università. Sognando la California PDF Stampa E-mail

Nonostante tutti si riempiano la bocca con la parola “meritocrazia”, pochissimi sembrano accettarne una banale caratteristica. Un sistema meritocratico genera pochi eccellenti e parecchi mediocri o pessimi, distribuendo la maggioranza delle persone fra questi due estremi. Pochi gradiscono quest’ultima posizione e nessuno si offre volontario per fare la parte del mediocre o del pessimo, il che spinge il sistema politico (ministri e loro consiglieri, burocrati ministeriali, parlamentari, sindacalisti) a disegnare riforme che, tenendo in debito conto la distribuzione di talenti in essere, eviti alla stragrande maggioranza di correre il rischio d’essere classificato pessimo, mediocre, o anche solo decente.

Un sistema universitario meritocratico è impossibile se non se ne accettano alcune, banali ma fondamentali, implicazioni. Per illustrarle utilizzerò come esempio la California: uno Stato più ricco dell’Italia ma altrimenti comparabile, nel quale l’affluenza universitaria, superiore alla nostra, è quasi completamente soddisfatta dall’università pubblica. Anche mantenendo costanti la disciplina, la qualifica e il gruppo d’età, le differenze salariali fra i professori eccellenti e quelli all’estremo opposto, per ora di insegnamento effettivo, sono dell’ordine di 1 a 10. Non tutte le università sono nate uguali, né crescono uguali, né hanno gli stessi criteri di ammissione degli studenti, né le medesime procedure di reclutamento, né ricevono (per studente) gli stessi trasferimenti statali, né, infine, si impone per via legislativa che i titoli di studio abbiano tutti lo stesso valore. Esiste UC Berkeley ed esiste Cal State San Marcos: sono due cose diverse, ognuna ottima a fare il proprio lavoro, solo che non è lo stesso lavoro. Ogni università gode di sostanziale autonomia sia nel reclutamento, sia nel curriculum, che nell’ammissione degli studenti, che (dentro limiti stabiliti a livello statale) nelle tasse universitarie che richiede ai propri studenti di pagare. E ogni università compete, normalmente nella propria “serie” ma non necessariamente, per ottenere fondi di ricerca statali, federali e privati, su basi puramente e strettamente meritocratiche. Ogni università, sia essa UCLA o Santa Monica College, ha un proprio consiglio d’amministrazione che rappresenta i vari gruppi sociali ed economici che nell’università in questione hanno interessi. Tale consiglio svolge un ruolo attivo nella gestione economica dell’istituzione, essendo il canale fondamentale attraverso cui società e istituzione universitaria comunicano. L’autorità statale svolge funzioni di indirizzo e, fondamentale, di controllo della qualità del “prodotto finale”, ma non interferisce né con i criteri di reclutamento e selezione, né con quelli di promozione dove attua, invece, da garante della trasparenza ed equità nelle procedure. Ecco, se queste banali implicazioni della meritocrazia applicata all’università fossero discusse pubblicamente e accettate per quel che sono (assolutamente necessarie) forse si potrebbero fare dei passi avanti veri e non immaginari nel processo di riforma. Infatti, forse l’Anvur potrebbe finalmente avere un compito ben definito: cominciare a distinguere i dipartimenti e i professori fra quelli di serie A, serie B e serie C. Compito ingrato ma necessario se si vuole introdurre una qualche forma di meritocrazia preservando, al tempo, la natura pubblica delle università italiane. Fare questo richiederebbe, sia da parte della maggioranza sia da parte dell’opposizione, elevare il dibattito a questo livello e farlo pubblicamente, accettando di pagare un ovvio e salato prezzo: l’insurrezione di coloro i quali, e sono tanti, oggi vivono di rendita e mediocrità all’interno dell’università italiana. Sarebbe un prezzo pesante ma temporaneo perché, se le cose si fanno bene, alla fine del tunnel ci sono Berkeley, UCLA ed UCSD in Italia, il che farebbe molto bene alla stragrande maggioranza del paese. Nessuno è così ingenuo da pensare che l’Italia possa diventare la California, universitariamente parlando, in un anno o due, ma può certamente farlo in due o tre lustri. Basterebbe volerlo. (M. Boldrin, Washington University in St Louis, Il Fatto Quotidiano 03-08-2010)
 
Un volume su come valutare la ricerca scientifica. Uso e abuso degli indicatori bibliometrici PDF Stampa E-mail

Negli ultimi anni i temi ricorrenti nella discussione pubblica su università e ricerca sono stati due. Il primo è la scarsità delle risorse messe a disposizione dallo stato, come ribadito dai rappresentanti del mondo universitario. Il secondo è il calcolo del merito, della qualità e l'eccellenza. Si parla di premiare il merito e la qualità, finanziare la ricerca di qualità per favorire lo sviluppo del paese, premiare gli scienziati che fanno ricerca e didattica di qualità, penalizzare il potere dei "baroni" che blocca la ricerca e la didattica di qualità, favorire e premiare l'eccellenza. Ma come si valuta la ricerca scientifica? Il volume si propone di introdurre il pubblico non specialista alla questione della valutazione della ricerca e all'uso degli strumenti bibliometrici. Non è, infatti, inusuale trovare nei dibattiti pubblici riferimenti alla peer review (revisione dei pari), alla necessità di chiedere opinioni a referees anonimi, o alla necessità di usare indicatori quantitativi oggettivi della qualità della ricerca, come l'Impact Factor. Sulla base del presupposto che tale valutazione può essere condotta attraverso indicatori in grado di approssimare qualità e impatto della ricerca, si sono affermati strumenti quantitativi di analisi della performance dei ricercatori e delle istituzioni di ricerca, con l'obiettivo di mettere fine all'arbitrio delle decisioni accademiche e di sostituire meccanismi farraginosi con semplici ranking riconosciuti a livello internazionale. Il volume fornisce un'analisi sintetica dei principali indicatori utilizzati nella valutazione della ricerca, con un'attenzione particolare per quelli bibliometrici, illustrandone modalità di costruzione, significato, interpretazione, applicabilità, ma anche limiti e abusi.

L’autore è Alberto Baccini, professore ordinario di Economia politica nell'Università di Siena. Il volume di pp. 232 è pubblicato nella Collana "Il Mulino/Ricerca" (978-88-15-13760-9)
 
Peer review all'italiana? PDF Stampa E-mail

Armando Massarenti ha opportunamente plaudito all’emendamento "Marino" alla finanziaria, per cui non dovrebbe più essere possibile distribuire finanziamenti pubblici alla ricerca senza una valutazione basata sulla revisione dei pari. La cosiddetta peer review. L'emendamento "Marino" è un passo quasi storico. Ma è solo il primo. Perché la locuzione peer review (revisione o esame dei pari) viene spesso usata nelle discussioni come una sorta di mantra. Non si capisce quasi mai se chi parla si riferisca a una valutazione sulla qualità della ricerca o sul suo impatto sul piano dell'avanzamento delle conoscenze o a livello socio-economico-culturale. Ovvero non è mai chiaro se si parla di valutazione & progetti da finanziare o di articoli da pubblicare (revisione prospettiva) o dei risultati di ricerche già effettuate (revisione retrospettiva).

Anche chi non avesse avuto tempo o modo di documentarsi attraverso la ricchissima e diversificata letteratura in lingua inglese sull'origine, l'evoluzione e l'articolazione delle procedure di valutazione della ricerca scientifica, ora può supplire a questa carenza leggendo l'eccellente libro dell'economista Alberto Baccini. Perciò, d'ora in poi, basta con le sparate retoriche di chi crede che la peer review costituisca la panacea per tutti i mali della politica e del governo della ricerca e della formazione in Italia, o come le svalutazioni di procedure che, se ben usate, danno le migliore garanzie possibili di qualità e affidabilità. La moda di criticare la peer review ha contagiato anche la rivista americana The Scientist, che questo mese sferra un violento attacco alla revisione editoriale, sostenendo che non funziona più e va rivista. Certo laggiù il sistema è diventato talmente capillare e burocratizzato che possono permettersi di enfatizzarne i difetti: purché mantengano la capacità di vedere che nell'acqua sporca c'è un bambino. Baccini ha metabolizzato i temi che si discutono sul piano tecnico, sia in relazione alla funzione e ai problemi delle valutazioni qualitative dei risultati o dei progetti, sia sul piano delle metodiche, della validità e dei limiti degli indicatori scientimetrici, che sono diventati strumenti largamente e un po' superficialmente usati per supportare quantitativamente le valutazioni. Il suo giudizio coincide con quello di chiunque abbia studiato con un minimo di attenzione critica la questione. Parafrasando anch'egli la definizione di Winston Churchill della democrazia, scrive che «La valutazione condotta dai pari è il peggiore dei modi per giudicare la qualità della ricerca; il fatto è che non ce ne sono di migliori».

Discutendo in modo pertinente le difficoltà di valutare qualitativamente e quantitativamente la ricerca umanistica di carattere locale, Baccini sottolinea l'esigenza di usare gli indicatori scientimetrici con un'adeguata comprensione di come funzionano e di quello che effettivamente misurano, senza presentarli strumentalmente formule magiche. Peraltro, non trascura la discussione teorica in corso tra la scuola sociologica normativa e quella costruttivista in merito al significato e quindi all’effettiva portata valutativa del "comportamento citazionale". E sottolinea opportunamente che la ricerca empirica ha sostanzialmente corroborato la teoria normativa, dimostrando la marginalità di fenomeni come le autocitazioni, allo stesso tempo mettendo in luce che il comportamento citazionale non è standardizzatile, ovvero varia tra le discipline, e tende a scotomizzare linee di ricerca, quindi autori che esplorano approcci innovativi o non alla moda.

Può essere utile affrontare qui un punto a cui Baccini accenna, ma che non sviluppa. Egli scrive che «è fondamentale la questione di chi nomina i revisori» - e secondo quali criteri, aggiungerei - «perché da questa scelta può dipendere l'esito finale del processo». Ora, nel mondo anglosassone, dove la scienza moderna si è affermata e l'etica protestante ha plasmato un senso civico con una sensibilità spiccata per i conflitti di interesse, non si discute più di tanto il rischio che la peer review sia falsata o manipolata per interessi personali o politici. Laggiù è dato per scontato, ma sta scritto espressamente anche negli statuti delle fondazioni private che finanziano a ricerca, che chi fa parte di un comitato di valutazione non può dare i soldi a se stesso o a qualcuno con cui abbia in comune qualche interesse. Mentre, come dimostrano gli scandali citati anche da Massarenti, questo è il vero problema italiano. Se le procedure di nomina dei revisori non garantiscono la trasparenza e l'obiettività della valutazione, la peer review italiana rimarrà una finzione.

Tanto per esser chiari, la qualità e l'efficacia del funzionamento dell'agenzia di valutazione ANVUR, di cui esiste ufficialmente dall'11 giugno 2010 un regolamento ministeriale sulla struttura e l'operatività, dipenderà da chi la governerà. Con il bando del 29 luglio scorso è partita la selezione dei sette nominativi per il Consiglio direttivo dell'ANVUR. È stato creato un comitato che sottoporrà al Ministro dell'Università e della Ricerca una rosa di nomi, da 10 a 15, tra cui avverrà la scelta. Sarà istruttivo e predittivo seguirei lavori del Comitato, ovvero registrare le scelte dei nominativi, tra coloro che avranno presentato la candidatura entro ileo settembre 2010.

L'auspicio è che date le aspettative e gli obiettivi, non prevalga la soluzione al ribasso e che a dirigere l'ANVUR non vadano i soliti maneggioni del potere accademico, tipo qualche ex rettore, o qualche scienziato di fama in pensione o, se non in pensione, troppo esposto e predisposto ai conflitti d’interesse e a ragionare secondo logiche politiche. Nel consiglio direttivo dovrebbero sedere anche esperti che conoscono le dinamiche economico-organizzative di funzionamento della ricerca scientifica e le metodologie diversificate delle procedure di valutazione. Diversamente, avremo solo inventato la «peer review all'italiana». (G. Corbellini, Il Sole 24 Ore 15-08-2010)
 
Il finanziamento delle università PDF Stampa E-mail
Ci sono università che hanno fatto del rigore dei conti un must e altre che hanno sperperato in modo vergognoso il denaro pubblico, senza alcun controllo e sono sull’orlo del fallimento. A Messina, ad esempio, il numero dei professori ordinari è salito negli ultimi 5 anni del 290%, pur in presenza del blocco delle assunzioni perché tutti gli associati sono stati, in blocco, promossi ordinari. Che l’autonomia dell’università sia stata usata male è un dato di fatto e la legge Gelmini tenta di correre ai ripari introducendo regole ispirate ai migliori standard internazionali per aiutare l’università a risalire la china. L’autonomia usata male ha bisogno di nuove regole che colleghino libertà e responsabilità. L’Università italiana è in grave ritardo nel suo processo di rinnovamento culturale e organizzativo. Oggi si trova di fronte ad una scelta: abbandonare un modello di università condizionata dall’autogoverno corporativo, poco produttiva e con scarsi mezzi, e scegliere un modello di università innovativa, organizzativamente efficiente, produttiva sul piano della ricerca e della didattica. La realtà ci mostra segnali positivi. Mentre prima Padoa-Schioppa e poi Tremonti riducevano i fondi per l’università, la quota dei bilanci dei nostri atenei che non proviene dal finanziamento statale è triplicata. Oggi, ad esempio, il S. Anna di Pisa per l’84 % non dipende dai fondi statali. Lo Stato finanzia l’Università con 7 miliardi di euro. La somma delle entrate degli atenei italiani supera i 13 miliardi. Ciò significa che le università sono state costrette, come avviene in tutti i Paesi del mondo, a cercare forme di finanziamento sul mercato. (C. Gentili, Il Messaggero 02-08-2010)
 
"La politica ascolti la voce degli atenei". L'appello del Presidente della Repubblica PDF Stampa E-mail
Sul ddl università serve "un costruttivo confronto in Parlamento". Università e Ricerca sono fondamentali per la crescita economica e lo sviluppo culturale e civile del Paese. Lo ha scritto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al professor Bartolomeo Azzaro, pro-Rettore per lo Sviluppo delle Attività Formative e di Ricerca dell'Università degli Studi "La Sapienza". La risposta arriva dopo che al Capo dello Stato era stata trasmessa la lettera firmata dai coordinatori della Rete29 Aprile - Ricercatori per un’Università Pubblica Libera Aperta - nella quale erano esposti vari problemi relativi al mondo dell'Università e della Ricerca, in particolare in relazione al Disegno di legge n.1905 attualmente all'esame del Parlamento. "Come sapete", scrive Napolitano, "ho sempre guardato con attenzione al settore dell'Università e della Ricerca, che giudico fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo culturale e civile del Paese. "Legge di riforma e dotazione adeguata di risorse per il funzionamento dell'università e della ricerca", si legge nella lettera del Presidente della Repubblica, "sono due facce della stessa medaglia. Nessuno, anche e in modo particolare i giovani, nessuno di quanti operano e studiano nelle nostre università a qualsiasi livello può negare l'esigenza di una riforma". Per questo Napolitano ribadisce la necessità di "salvaguardare la spesa pubblica per investimenti, in modo particolare quelli per la ricerca e per l'alta formazione", apprezzando l'impegno del Ministero dell'Economia ad affrontare seriamente il problema del fondo di finanziamento dell'Università. L'auspicio del Presidente della Repubblica è "un costruttivo confronto che guardi al merito delle questioni e all'interesse di lungo periodo del nostro Paese, specie in questa fase di gravi difficoltà dove a ognuno è richiesto di fare la sua parte. Con questo spirito ho provveduto ad inviare al Ministro Gelmini copia della vostra lettera, che affronta materie di competenza del Governo, confidando che essa riceverà l'attenzione che merita". Lettera inviata al ministro. Il Presidente della Repubblica ha anche risposto ai sottoscrittori dell'Appello per gli Statuti Autonomi degli Enti Pubblici di Ricerca, trasmessogli dal professore Rino Falcone del Coordinamento Osservatorio sulla Ricerca, assicurando di aver inviato, come nel caso della lettera della Rete 29 Aprile, il testo al Ministro Gelmini. (La Repubblica 06-08-2010)
 
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