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01 Settembre
Le opinioni della CRUI sul DDL di riforma dell'università PDF Stampa E-mail

La CRUI esprime una valutazione positiva sul passaggio al Senato del DDL di riforma dell’Università e sul rapido ed efficace lavoro complessivamente svolto dall’Aula che, approvandolo in prima lettura, ha accolto una parte significativa delle proposte migliorative avanzate. Spiace solo costatare come da qualche parte si sia voluto ancora insistere, nell’occasione della discussione parlamentare, su stereotipi negativi e inaccettabili nella loro generalizzazione, in netto contrasto, peraltro, con la revisione di aspetti importanti della vita universitaria già da qualche tempo in corso presso numerosi Atenei.

La CRUI prende altresì atto dell’impegno assunto dal Ministro Tremonti e confermato dal Ministro Gelmini e da autorevoli esponenti della maggioranza, volto ad assicurare una disponibilità di risorse adeguate all’Università per il 2011: un impegno che andrà in ogni caso verificato nelle cifre relative, da commisurare agli effettivi fabbisogni.

La CRUI non può nel contempo non rilevare come, nella manovra finanziaria appena approvata con la conversione del D.L. 78/2010, il personale universitario sia stato fortemente colpito e fatto oggetto di un intervento di contenimento della spesa che non trova riscontro nel trattamento riservato ad altre categorie del pubblico impiego. Detto intervento, vista la specifica dinamica stipendiale, si dimostra particolarmente punitivo per i giovani ricercatori, nonché per i professori associati e ordinari ai livelli iniziali della carriera, senza parlare del personale tecnico-amministrativo, già fatto oggetto del taglio del trattamento accessorio.

Il tentativo, pure avanzato, di introdurre correzioni tramite il DDL, con particolare riguardo al blocco degli scatti stipendiali, è servito a porre il problema in evidenza, ma non a risolverlo.

Più in generale, la CRUI riproporrà con forza - alla ripresa autunnale e in relazione all’avvio dell’esame alla Camera del DDL - le misure correttive ancora necessarie e possibili, a cominciare dall’avvio di un piano pluriennale di reclutamento, cofinanziato dal MIUR, che consenta la chiamata di un numero adeguato di ricercatori a tempo indeterminato che abbiano conseguito  l’abilitazione scientifica a professore associato secondo le nuove procedure. Ciò anche con riferimento all’azione in atto dei ricercatori, volta a segnalare l’urgenza di soluzioni che, fuori da ogni ope legis, ne valorizzino gli apporti alla vita universitaria.

Scelte e comportamenti della CRUI e del mondo universitario alla vigilia dell’avvio del nuovo anno accademico non potranno in ogni caso non dipendere dalla quantificazione, non più dilazionabile, delle effettive risorse destinate al recupero dei tagli decisi nel 2008, assolutamente non sopportabili dal sistema e incompatibili con il processo riformatore che ci si è responsabilmente impegnati ad avviare. (CRUI, Roma 03-08-2010)
 
Una proposta in tre punti per il reclutamento PDF Stampa E-mail

La prima regola sarebbe quella che stabilisce l’impossibilità da parte di un bravo laureato di un’università di cominciare la sua carriera, anche già a partire dal dottorato di ricerca, ma a maggior ragione per i passi successivi, in quella stessa università. Il male effettivo, se non assoluto, è che le stesse persone che hanno “allevato” degli studiosi debbano poi “giudicarli”. E’ questo meccanismo che distrugge qualunque forma, non dico di equità procedurale, ma addirittura di oggettività, perfino nella forma più debole dell’intersoggettività. Per questo fin dalla recluta dei dottorandi dovrebbe valere il principio che il dottorato si faccia in un’altra università da quella di provenienza: anche perché l’eccellenza di un’università si misurerebbe proprio dalla sua capacità di attirare i migliori potenziali ricercatori, e non certo da quella di promuovere i propri, che crea fin dall’inizio arrivismo e servilismo. Ma a maggior ragione questa regola dovrebbe valere per ciascuno dei posti di ruolo, a tempo determinato o indeterminato.

La condizione elementare della terzietà del giudicante è precisamente quella che il nostro sistema di scambi è fatto per eludere senza eccezioni: questa prima regola gli toglierebbe un po’ di motivazione iniziale, ma è prevedibile che anch’essa ricomincerebbe ad essere aggirata. La seconda regola dovrebbe dunque semplicemente abolire ogni forma di legame fra una data università e le commissioni che valutano le candidature. Questo effetto potrebbe ottenersi, nel caso si adottasse un sistema d’idoneità nazionali con una commissione di volta in volta appropriata, costituendo le commissioni esclusivamente sulla base di sorteggio fra tutti i docenti della disciplina o gruppo di discipline in questione: sorteggio non preceduto da votazioni che eleggano i sorteggiabili, perché si sa che è nella richiesta e nello scambio dei voti già a questo livello che cominciano a costituirsi i gruppi di pressione. Ma poiché comprensibilmente devono essere le singole università, in base alle loro esigenze, alle loro vicende interne, al loro bilancio, a offrire posti a tempo determinato o indeterminato, occorre anche che esse possano attingere, per le loro chiamate, a coloro che questa commissione nazionale avesse giudicato idonei. Qui il rischio da evitare è: todos caballeros. Che cioè si abbondi nel riconoscere idoneità, contando su offerte di posti a venire. Del resto è soprattutto dove ci sono in palio almeno due idoneità, che gli scambi s’intensificano: perché ce n’è il materiale. La terza regola sarebbe, dunque, che per ogni posto bandito sia costituita una commissione (nazionale, e in base alle regole precedenti), la quale possa riconoscere una e una sola persona idonea (a occupare quel posto) – e nessun’altra idoneità (ad essere per esempio promosso, pur restando nella propria università).

Comunque si possano migliorare queste proposte, mi sembra che non possiamo più rinviare il momento di proporre noi stessi una riforma del reclutamento che estirpi ogni radice di corruzione, e ci assicuri almeno per l’avvenire giustizia e riconoscimento esclusivo al merito, all’intelligenza, alla creatività. Invece di continuare a mantenere un sistema di cui molti di noi si lamentano, come se non fossimo noi che accettandolo e facendolo funzionare ne siamo infine responsabili. Solo a questa condizione, mi sembra, sarà giustificata una lotta senza quartiere ai tagli indiscriminati che l’attuale maggioranza vuole imporre. Invece senza questo nostro nuovo impegno “virtuoso”, che sconvolga e distrugga dall’interno i meccanismi della servitù mentale e del potere di consorteria, ogni nostra resistenza darà soltanto argomenti sempre più forti a quei politici per i quali la cultura, la scienza, l’arte e il pensiero sono solo fastidiosi impedimenti sulla via della conformazione totale del Paese alla libertà dei servi. (R. De Monticelli, il Fatto Quotidiano, 24-07-2010)
 
Bando. Procedure per la selezione di nominativi per il Consiglio Direttivo dell’ANVUR PDF Stampa E-mail

Con la pubblicazione di questo bando si dà attuazione a quanto previsto dal Regolamento in merito alla raccolta delle candidature, necessarie per la definizione dell'elenco di nominativi dal quale il Ministro sceglierà i membri del Consiglio Direttivo dell'ANVUR, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. L'elenco sarà composto di non meno di dieci e non più di quindici nominativi scelti dal Comitato di selezione che dovrà valutare le candidature assicurando all'Agenzia il contributo di "personalità, anche straniere, di alta e riconosciuta qualificazione ed esperienza nel campo dell’istruzione superiore e della ricerca, nonché della valutazione di tali attività, provenienti da una pluralità di ambiti professionali e disciplinari". Il Comitato di selezione valuterà le indicazioni di nominativi con i relativi curricula forniti dagli interessati, da istituzioni, accademie, società scientifiche, da esperti, nonché da istituzioni ed organizzazioni degli studenti e delle parti interessate. Saranno esaminate le candidature presentate entro il 20 settembre 2010 esclusivamente mediante la compilazione on line dell'apposita scheda sul sito http://anvur.miur.it.

Decreti e documenti

•Il Decreto Ministeriale del 24 giugno 2010

•Il Decreto n. 76 (10 febbraio 2010) dalla Gazzetta Ufficiale

•Bando per la selezione del Consiglio Direttivo dell'ANVUR

http://anvur.miur.it/documenti/Bando_selezione_Consiglio_Direttivo_ANVUR.pdf
 
Ai ricercatori è consentito di acquisire una proprietà privata, il brevetto, sfruttando però le strutture pubbliche universitarie o dei centri ricerche PDF Stampa E-mail

La stesura definitiva del nuovo Codice della proprietà industriale non ha sanato la ferita aperta nel mondo accademico. Il brevetto resta di proprietà del ricercatore e non – come accade negli altri paesi – dell'ateneo presso cui lavora e con i cui strumenti è arrivato alla scoperta. Un modello unico nel suo genere e «a mio avviso sbagliato» chiarisce subito Giulio Ballio, rettore del Politecnico di Milano secondo cui il metodo usato in Italia «presenta anche qualche profilo d’illegittimità». Il rettore è categorico sul punto: «In effetti, si permette ai ricercatori di acquisire una proprietà privata, il brevetto, sfruttando però le strutture pubbliche universitarie o dei centri ricerche». A Milano si è però posto rimedio a queste incongruenze. «Da otto anni – chiarisce Ballio – abbiamo creato un servizio interno a supporto dei ricercatori, che li assiste nelle spese e nelle procedure per ottenere il copyright, nella commercializzazione e in eventuali contenziosi. Il ricercatore cede all'università il brevetto ma in cambio riscuote una royalty più alta di quella prevista nel precedente regime normativo». Un regolamento interno del genere è in vigore anche al Politecnico di Torino, dove negli ultimi dieci anni sono stati raggiunti importanti traguardi nell'attività brevettuale grazie alla sinergia tra università e ricercatori. «Il regolamento – spiega il rettore Francesco Profumo – prevede che l'ateneo si faccia carico del costo dell'application, spesso troppo onerosa per un ricercatore, e in cambio ottenga una partecipazione alla proprietà della scoperta». È sempre l'università che si occupa di proporre il brevetto alle aziende, garantendo al ricercatore un compenso. «Così avviene in molti Paesi – aggiunge Profumo – e questo metodo consente di incentivare il ricercatore ma allo stesso tempo cautelare l'università». Senza questi escamotage, però, la norma in vigore rischia di penalizzare ulteriormente la ricerca, che già non gode di ottima salute. Per le università non è conveniente investire in ricerca e strumenti senza poterne tranne benefici. Ma, allo stesso tempo, la scarsa capacità brevettuale riduce la quota del Fondo di finanziamento ordinario, facendo arrivare nelle casse dei rettori meno soldi. «Per il nostro ateneo – spiega Valeria Ruggiero, rettore facente funzioni dell'Università di Ferrara, ai vertici delle graduatorie nazionali per i brevetti depositati – la ricerca è una vocazione istituzionale. Ma lo è anche la volontà di tradurre i risultati delle ricerche in brevetti e quindi in prodotti. Non sempre l'università è preparata per mettere a frutto gli sforzi scientifici». «È chiaro, però – aggiunge – che poter brevettare direttamente, o doversi accontentare di una percentuale sui ritorni economici derivanti da un brevetto intestato ai singoli ricercatori, sono cose diverse. Ma la nostra università agisce sul presupposto che la ricerca è un lavoro collettivo destinato a realizzare un beneficio per tutto il territorio». Per questo all'interno della struttura accademica è stata istituita una commissione incaricata di valutare preliminarmente le invenzioni con le maggiori propensioni "economiche".

Deluso dal nuovo Codice della proprietà industriale anche il rettore dell'università delle Marche, Marco Pacetti. «Sono anni che i governi promettono di rimediare a questa stortura – spiega – e stavolta ero convinto che ce l'avremmo fatta, invece all'ultimo è arrivata questa "sorpresa". Non è pensabile continuare in questo modo, l'università dev'essere equiparata al settore privato, come avviene negli Stati Uniti, per esempio. Lì il ricercatore ha il riconoscimento morale per il brevetto, e oltre al suo stipendio riceve un premio economico dall'ateneo. Ma la proprietà della scoperta resta del "datore di lavoro", come è giusto che sia. Altrimenti gli atenei smetteranno di investire in ricerca». (M. Bellinazzo e F. Milano 20-08-2010)
 
Profitti derivanti da brevetti nelle università degli Stati Uniti PDF Stampa E-mail

Sono le università in America a possedere generalmente la titolarità dei brevetti registrati da un loro ricercatore, una prassi stabilita negli atenei pubblici e privati sin dagli anni '20. I proventi, invece, sono divisi tra l'università e l'inventore con formule che variano da ateneo ad ateneo ma che riflettono un principio riconosciuto universalmente nel paese: parte dei proventi va ad arricchire, infatti, il ricercatore, ma una parte ancor più consistente è reinvestita nella ricerca.

Anzi, con il passare degli anni la percentuale devoluta all'inventore è scesa. Esemplare è il caso dell'University of California, i cui dieci campus (tra cui Berkeley, Los Angeles e San Diego) costituiscono il più grande centro pubblico di ricerca degli Stati Uniti, con un budget di 2,9 miliardi di dollari. L'adozione ufficiale di una formula di spartizione dei profitti derivanti da un brevetto sviluppato nel corso dell'attività di ricerca finanziata dall'università risale al 1963 e prevedeva una suddivisione al 50% meno il 15% per le spese amministrative; la percentuale devoluta al ricercatore è scesa nel corso degli ultimi cinquant'anni e oggi è pari al 35 per cento.

Analoga è la formula degli atenei privati, anche se alcuni hanno adottato nuovi e creativi espedienti per sfruttare a proprio vantaggio la commercializzazione delle invenzioni sfornate dai loro laboratori di ricerca. All'università di Stanford, fucina di cervelli e imprenditori high tech della Silicon Valley, l'ateneo in molti casi cede la titolarità del brevetto all'inventore in cambio di una partecipazione azionaria nella società da lui fondata. Il vantaggio per l'ateneo è palese nei casi eclatanti di straordinario successo di una tecnologia, basti pensare al caso Google. Stanford aveva ceduto a Larry Page e Sergei Brin il brevetto del loro algoritmo PageRank in cambio di una quota nell'azienda che oggi ha un valore di mercato di 150 miliardi di dollari.
Anche il governo americano ha deciso di esigere una partecipazione ai profitti derivanti da invenzioni fatte nel corso di progetti di ricerca universitari ma finanziati da fondi statali provenienti generalmente dal Ministero della Difesa o della Sanità. Nel 1980 la legge Bayh-Dole ha stabilito che l'università ha il diritto di mantenere la titolarità di un brevetto ma ha l'obbligo di commercializzare l'invenzione (o almeno tentarci) e di spartire i proventi non solo con l'inventore ma anche con il governo. (D. Roveda, Il Sole 24 Ore 21-08-2010)
 
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