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02 Agosto
La classifica Censis-Repubblica delle università italiane. In testa l’Alma Mater PDF Stampa E-mail
Nella classifica dei cinquantotto "migliori atenei italiani", stilata dal Censis e dal quotidiano “La Repubblica”, la posizione di testa della hit parade degli atenei è occupata dal più antico ateneo italiano: l’Alma Mater di Bologna, quotata con 838 su 1000. Tra le università storiche di maggiori dimensioni Siena, Padova, Politecnico di Torino (che continua a "battere" quello di Milano), Pisa e Firenze sono saldamente tra le prime dieci, affiancate da atenei più piccoli come Trento, Siena, Perugia, Ferrara, Ancona e Trieste. La classifica per ateneo tiene in vario conto valutazioni su didattica, rapporto tra iscritti e laureati, rapporti internazionali e dà un peso rilevante anche ai “servizi”: mense, posti letto, laboratori, attrezzature sportive e qualità dei siti Internet. Offre inoltre una stima della “qualità della vita cittadina” nelle diverse sedi. Da questi parametri risultano penalizzate alcune mega-università come La Sapienza di Roma, la Statale di Milano, la Federico II di Napoli, Cà Foscari di Venezia (mentre, sempre a Roma, è in ottima posizione l’università di Tor Vergata). (17-07-2010)
 
Atenei in crisi. La riflessione di un preside PDF Stampa E-mail

Non è facile in questo momento parlare di Università. Si deve sfuggire alla tentazione di due opposte retoriche: quella distruttiva, che dipinge un sistema universitario popolato di baroni onnipotenti e di fannulloni strapagati, e quella apologetica, che attribuisce tutti i problemi all’insensibilità del governo di turno nei confronti dell’istruzione e della ricerca. Ovviamente non manca in queste posizioni qualche nucleo di verità, ma sono entrambe distanti dalla realtà in quanto il loro scopo non è descrivere criticamente la situazione, ma creare formule che abbiano efficacia mediatica. Prima di giudicare o di proporre ricette bisognerebbe ricostruire criticamente la storia dell’Università italiana almeno negli ultimi trent’anni. Studi non sono mancati, ma hanno avuto poca accoglienza negli organi di informazione. Proverò a individuare qualche snodo cruciale.

Anzitutto la politica del reclutamento, che ha proceduto alternando lunghi periodi di chiusura (quasi) totale a periodi di apertura (quasi) indiscriminata, come la sequenza di giudizi di idoneità dei primi anni ottanta: in pratica assunzioni ope legis. Ne è derivata una composizione disomogenea del corpo docente, con fasce di età troppo rappresentate e generazioni quasi integralmente messe da parte. In secondo luogo la frenesia legislativa che nell’ultimo decennio ha provocato instabilità negli ordinamenti didattici e disorientamento negli studenti. Il tentativo di classificare il sapere ha prodotto i settori scientifico-disciplinari, un sistema che avrebbe richiesto una preventiva e condivisa descrizione della realtà e delle dinamiche della conoscenza. Ma i nostri legislatori non sono neanche lontanamente paragonabili ad Aristotele o a Leibniz. Ne è nato un elenco ipertrofico, alimentato talvolta da pressioni interessate.

In terzo luogo la tendenza ad aprire nuovi atenei e sedi distaccate, spesso per soddisfare le ambizioni delle amministrazioni locali e per creare nuove cattedre. Come si può vedere, le responsabilità dei legislatori si intrecciano con quelle dei professori universitari. Per completare il quadro bisogna dire che, se per l’Università si è speso male, nel complesso si è speso poco, rispetto a quasi tutti i paesi europei: la spesa per istruzione e ricerca in Italia è di poco inferiore all’1% del PIL, un dato lontanissimo dall’obiettivo europeo del 3%. In questo modo non solo non ci avviciniamo all’altro obiettivo, sottoscritto dall’Italia, di aumentare in misura significativa i laureati entro il 2020, ma con ogni probabilità ci allontaneremo molto da quell’obiettivo e dal resto d’Europa. La combinazione di tagli e pensionamenti rischia, infatti, di svuotare le Università nei prossimi anni. Se i pensionati dei prossimi cinque anni non saranno sostituiti, perderemo circa un terzo dei docenti. Questo comporterà la chiusura di molti corsi di studio e l’introduzione del numero chiuso in molti altri. L’aspetto più preoccupante è che non si potrà procedere razionalmente, in quanto i tagli non distinguono le discipline importanti da quelle generosamente inventate negli anni passati. Chi sta tagliando non usa le forbici da potatura, ma la ruspa.

Quali potrebbero essere le soluzioni? Anzitutto su un punto c’è accordo: occorre intervenire sul sistema universitario. Il Disegno di legge Gelmini presenta aspetti condivisibili e altri molto opinabili: vedremo se il Parlamento lo migliorerà o, come certi segnali fanno presagire, inserirà emendamenti favorevoli a categorie o a gruppi. L’introduzione di un sistema di reclutamento nazionale (la lista di idonei) tende a correggere le storture dei concorsi locali, che hanno spesso facilitato la progressione di carriera di candidati non meritevoli. Ma le regole, per buone che siano, non sono risolutive: bisogna cambiare la mentalità, sentire l’istituzione come propria e lavorare per migliorarla. Un problema che non riguarda soltanto l’Università.

È poi indispensabile introdurre un serio sistema di valutazione. Se l’Università dell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era riservata a pochi e comprendeva un numero ristretto di docenti, in genere espressione condivisa della comunità scientifica, l’Università di oggi, con i suoi grandi numeri, esige un sistema di valutazione della didattica e della ricerca. Non soltanto occorre ridurre il fenomeno dei docenti e dei ricercatori inattivi, cioè di quelli che non hanno una produzione scientifica significativa, ma è necessario premiare il merito, anche dal punto di vista economico.

Non si può non ridurre il numero degli atenei e delle sedi distaccate. E, inoltre, occorre razionalizzare i corsi di studio.

Ma riformare e razionalizzare un’Università in sofferenza non devono portare a uccidere il paziente sotto i ferri. Se il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario per il 2011 non sarà annullato o drasticamente ridotto, la grande maggioranza degli atenei non potrà approvare i bilanci. Se non saranno introdotte norme che riconoscano ai ricercatori meritevoli quella funzione docente che molti di loro esercitano da anni il prossimo anno accademico potrebbe non partire. Se non sarà avviato rapidamente il ricambio del corpo docente il sistema andrà in crisi nel giro di pochi anni. Ma il cambiamento più importante, che richiede l’impegno della classe politica, dei mezzi di informazione e di tutti quelli che operano e vivono nell’Università, avrà bisogno di tempo: l’istruzione e la ricerca devono essere sentiti come un valore, come un investimento e non soltanto come una spesa. Mi permetto di concludere con un riferimento alla disciplina che insegno, la letteratura greca. Quando nel IV secolo a.C. Isocrate invocava il ritorno alla patrios politeia (le istituzioni degli antenati) non si riferiva a una legislazione storicamente determinata, ma a un tempo, forse idealizzato, in cui tutti i cittadini si impegnavano per il bene comune. L’Italia non ha una patrios politeia da vagheggiare, la deve iniziare a costruire e il punto di partenza, nell’Europa della conoscenza di cui facciamo parte, non possono che essere le istituzioni educative.

(R. Nicolai, Preside della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Roma “La Sapienza” 20-07-2010)
 
Un appello contro i vincoli all’organico PDF Stampa E-mail

Il rettore dell’Università di Bologna rivolge un appello al Parlamento e al Governo, tramite un documento approvato stamattina, chiedendo che venga riconosciuto il ruolo dell' Ateneo, sia per la didattica che per la ricerca. Il testo di legge per la riforma universitaria in discussione al Parlamento rischia di «compromettere il capitale scientifico, umano e morale di un’intera generazione di studiosi». L’allarme è contenuto in un documento approvato questa mattina dal senato accademico, dell’Università di Bologna, che il rettore Ivano Dionigi sta in queste ore spedendo alla presidenza della Crui, a tutti i ricercatori e a tutti i presidi delle facoltà. L’appello, rivolto al Governo e al Parlamento, è chiaro e chiede il riconoscimento «dell’autonomia e del ruolo vitale dell’Ateneo sia per la ricerca sia per la didattica».

In particolare, ha spiegato Dionigi in conferenza stampa «se Tremonti insiste ancora con l’ormai anacronistico vincolo in organico del 60% dei ricercatori, a fronte di un 30% di associati e del 10% di professori ordinari, verrà strangolata la carriera dei ricercatori, che sono invece il nucleo vitale dell’Università e figure senza le quali l’Ateneo stesso non potrebbe esserci». (Il Resto del Carlino 20-07-2010)
 
Perché nella ricerca non facciamo gli inglesi? PDF Stampa E-mail

Dato l'ammontare di risorse destinate al sistema universitario, la produttività italiana in termini di ricerca è in linea con quella degli altri paesi europei. L'eccezione è la Gran Bretagna: un sistema decentrato e meritocratico che riesce a ottenere buoni risultati con risorse limitate. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno seguendo l'esempio inglese, l'Italia no. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sulla ripartizione dei fondi, ma taglia le risorse esistenti e aggiunge prescrizioni centralistiche nella gestione delle risorse umane.

Una riforma dovrebbe essere preceduta da uno studio approfondito delle possibili alternative, fondato su un confronto internazionale di best practices. In Italia non succede quasi mai e la riforma universitaria proposta dal ministro Gelmini non fa eccezione. Lavoce.info ha cercato di sopperire a questa carenza (si veda, tra gli altri, questo articolo di Daniele Checchi e Tullio Jappelli. (1)

In questo contributo, basato su un lavoro presentato recentemente alla Camera dei Deputati (http://econ.lse.ac.uk/staff/prat/papers/roma.pdf), cerchiamo di vedere se esistono differenze sistematiche tra la produttività in termini di ricerca scientifica dei diversi sistemi universitari europei. Le misure che proponiamo sono rozze e soggette a evidenti limiti, ma crediamo tuttavia che aiutino a portare alla luce alcuni elementi importanti per valutare la riforma Gelmini.

INDICI E RISORSE

Utilizziamo due misure. La prima è l’indice di produttività scientifica costruito da David King. (2)

Si calcola il fattore d’impatto di tutti i contributi catalogati da Thomson Isi (solo discipline scientifiche) dal 1997 al 2001. In ogni disciplina si selezionano i contributi con un fattore d’impatto nel percentile più alto – le chiamiamo pubblicazioni eccellenti. Infine, si attribuiscono tali pubblicazioni ai diversi paesi a seconda dell’istituzione a cui gli autori appartengono. L’indice finale è il numero di pubblicazioni eccellenti per ogni milione di abitanti.

L’altra misura è semplicemente l’ammontare di risorse, pubbliche e private, dedicate al sistema universitario. Tra i paesi europei esistono grandi differenze: si va da meno di 100 euro per cittadino in Grecia a quasi 700 in Danimarca. (3)

Se confrontiamo la misura di produttività di King con la spesa universitaria pubblica pro capite (vedi grafico), otteniamo un risultato netto. La maggior parte dei grandi paesi europei si situano approssimativamente su una retta che parte dall’origine. La correlazione tra fondi pubblici e risultati scientifici è quasi perfetta. In particolare, la differenza tra quattro grandi nazioni – Francia, Germania, Italia, Spagna – ricalca quasi perfettamente le differenze di risorse. Ecco la “normalità” italiana: in un panorama europeo, il nostro sistema universitario produce quello che ci si aspetterebbe date le risorse disponibili.

L'ECCEZIONE GRAN BRETAGNA

La Gran Bretagna, in contrasto, produce molto di più di quanto ci si aspetterebbe. Paragonata alla Francia, spende un po’ meno e produce il doppio. Perché?

Sgombriamo il campo da due possibili spiegazioni: il vantaggio conferito da un sistema universitario di lingua inglese (altrimenti anche l’Irlanda dovrebbe essere altrettanto produttiva) e la possibilità che in Gran Bretagna le risorse provengano da fonti diverse (come negli altri paesi europei, la maggior parte dei fondi viene dallo Stato). La risposta secondo noi va cercata in due fattori che distinguono nettamente la Gran Bretagna (e in misura minore l’Olanda) dagli altri paesi europei.

Primo, gli atenei inglesi hanno una piena autonomia gestionale in termini di risorse umane. Possono assumere, promuovere e rimuovere docenti con procedure simili a quelle del settore privato. Non esistono farraginosi concorsi pubblici o ferree regole nazionali. Come tutti i settori basati sulla creatività individuale, l’università ha bisogno di un’enorme flessibilità nella gestione del capitale umano. Immaginate Google che cerca di fare innovazione con regole simili a quelli delle università europee?

Secondo, i soldi pubblici sono distribuiti secondo criteri trasparenti e meritocratici. Dal 1992, quasi tutti i fondi di ricerca sono assegnati tramite il Research Assessment Exercise (Rae). (4) I fondi vanno all’ateneo e non agli individui o al dipartimento. I rettori, sapendo che il costo di avere ricercatori poco produttivi è alto, tolgono risorse e talvolta licenziano docenti incompetenti o troppo distratti da attività esterne; invece creano meccanismi per attirare e premiare giovani bravi.

Per concludere, la Gran Bretagna sembra avere trovato un sistema per produrre ricerca scientifica in maniera efficiente. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno cercando di applicare alcuni degli aspetti del modello inglese. Si vedano in particolare gli elementi di autonomia e meritocrazia della riforma appena varata in Francia.

Autonomia e meritocrazia sono complementari. (5) Dare incentivi per la ricerca senza autonomia sulla gestione delle risorse umane che la producono è inutile perché gli atenei non hanno strumenti per aumentare la produttività, mentre dare autonomia su assunzioni e salari senza la disciplina degli incentivi è pericoloso perché gli atenei non soffrono le conseguenze di assumere ricercatori su criteri non meritocratici.

Per lungo tempo l’Italia ha adottato il sistema opposto, senza incentivi e senza autonomia. Si è poi passati all’autonomia sulle assunzioni senza incentivi sulla produttività, con conseguenze disastrose e prevedibili.

Per avvicinarsi alla Gran Bretagna, l’Italia dovrebbe: 1) aumentare un po’ le risorse destinate all’università; 2) utilizzare un meccanismo alla Rae; 3) lasciare agli atenei autonomia nella gestione delle risorse umane. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sul secondo punto, ma fa passi indietro sugli altri due, tagliando risorse esistenti e aggiungendo altre prescrizioni centralistiche sulla gestione delle risorse umane.

(1) Si veda anche Roberto Perotti, L’università truccata, Einaudi, 2008.

(2) David A. King, “The Scientific Impact of Nations: What Different Countries get for Their Research Spending.” Nature, vol 430, p. 311-316, 2004.

(3) Dati 2000 – spesa totale per l’università divisa per numero di abitanti.

(4) Dal 2010 ribattezzato Research Excellence Framework (Ref).

(5) Si veda Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline M. Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir, “The Governance and Performance of Research Universities: Evidence from Europe and the U.S.”, Nber Working Paper No. 14851, April 2009.

(O. Bandiera, A.Prat, Lavoce.info 21-07-2010)

COMMENTI PRESENTI SULLA NOTIZIA

Nome: Lorenzo Marrucci  Data: 21.07.2010

Un altro importante elemento distintivo del sistema universitario britannico (in comune con l'Olanda, che non a caso è un altro sistema con performance superiori alla media, nonché con la Svezia, e in tempi più recenti con la Danimarca, che forse sono meno efficienti a causa della grande disponibilità di risorse) è un modello di governance degli atenei non autoreferenziale. Il council o court che governa ciascuna università britannica è, infatti, composto in maggioranza di lay members (ossia esterni all'ateneo), con la sola eccezione di Oxford e Cambridge (che avendo una tradizione di eccellenza hanno potuto finora permettersi di conservare una governance più antiquata). Inoltre, i vice-chancellor (equivalenti ai nostri rettori) e, almeno in parte, la dirigenza accademica intermedia (dean e simili) sono tutti reclutati dal council/court o dai dirigenti superiori e non eletti, e quindi sono di fatto figure assimilabili a dirigenti professionisti, anche se con background accademico (questo è ormai vero anche a Oxford e Cambridge). Questi elementi giocano a mio parere un ruolo di importanza comparabile con gli altri menzionati dagli autori.

Nome: Paolo Quattrone  Data: 21.07.2010

Avendo insegnato contabilità per 10 anni (Manchester ed Oxford) a me i numeri (ed il Regno Unito) piacciono. Il nuovo REF si orienta verso due criteri numerici: impact factor e capacità di attrarre risorse. Ora, non per tutte le discipline (e gli approcci scientifici) il sistema ISI e' auspicabile perché l'avanzamento della conoscenza richiede tempi più lunghi della finestra temporale di ISI. Inoltre, l'avere pubblicato su ISI e' solo un’approssimazione indiretta alla qualità: il vecchio RAE chiedeva ai componenti la commissione di valutare i contributi singolarmente ed a prescindere dal luogo di pubblicazione, favorendo la creazione di Journals più innovativi e meno mainstream.Ma ciò costa e quindi meglio l'impact factor, che quindi risponde ad una esigenza di cost efficiency ma non di qualità. Analogo discorso si può dire per funding (addio humanities?). Insegno management... e so quanto siano appealing (ed a volte ingannevoli) le 'best practices' e ben vengano in un sistema incancrenito come l'Italia, ma la numerocrazia non e' la soluzione per l'Università', può esserlo forse per una certa economia da rational choice. Il vecchio RAE funzionerebbe meglio dell'impact factor.
 
Nota dell’associazione italiana editori su pubblicazioni scientifiche e valutazione della ricerca PDF Stampa E-mail

La valutazione della ricerca è negli ultimi mesi al centro del dibattito in molte sedi, politiche e accademiche. In tutto il mondo i risultati di ricerca si valutano prevalentemente attraverso le pubblicazioni scientifiche, cioè i prodotti degli editori. Per questa ragione l’AIE, che raggruppa gli editori italiani e operanti in Italia, ritiene di poter contribuire al dibattito in corso. Gli editori rivendicano il proprio ruolo di mediatori culturali in ambito scientifico pronti ad offrire quelle garanzie di terzietà nel processo di selezione delle pubblicazioni che da sempre costituiscono la cifra più autentica del loro lavoro. In questa veste offrono alla comunità accademica italiana una serie di riflessioni.

Procedure di selezione delle pubblicazioni

La scientificità delle pubblicazioni deve essere definita in ragione dell’esistenza di procedure di selezione rigorose che garantiscano l’indipendenza e terzietà del giudizio, senza che però sia prescelta una singola procedura, indipendentemente dal contesto editoriale. Il modello del peer review anonimo è un punto di riferimento nelle prassi editoriali italiane e internazionali, ma non può essere considerato come unico modello esistente. In particolare, le pubblicazioni che si rivolgono a pubblici più ampi spesso non seguono procedure standard di revisione dei pari.

Citazioni e impatto delle pubblicazioni

Le citazioni sono una misura dell’impatto delle pubblicazioni sulla letteratura scientifica e solo su questa. Il loro uso esclusivo implica pertanto rischi di autoreferenzialità1. Inoltre, non sempre sono disponibili dati sufficienti per una misurazione attendibile. In particolare, i dati citazionali sono disponibili più per le discipline scientifico tecnico mediche che per quelle umanistiche, più per le riviste che per le monografie e più per le pubblicazioni elettroniche che per quelle a stampa.

Scelta dei criteri nelle procedure di valutazione

La valutazione non può essere trasformata nell’applicazione meccanica di criteri prefissati che talvolta danno l’illusione dell’oggettività, ma sono solo “formali” quando non formalistici. In particolare, laddove i dati citazionali disponibili sono scarsi, come per le monografie o le scienze umane, e si utilizzano misure pseudo-quantitative basate su punteggi attribuiti secondo criteri alternativi, un’analisi approfondita del contesto editoriale di riferimento è a nostro avviso indispensabile.

Valutare le pubblicazioni o le sedi di pubblicazione

I metodi che si concentrano sull’impatto delle singole pubblicazioni sono preferibili rispetto a quelli sulle sedi di pubblicazione. Lo sono per ragioni metodologiche: una stessa rivista, o collana editoriale può accogliere pubblicazioni di qualità molto variabile. Lo sono ancor più per gli effetti sul mercato, per le barriere all’ingresso che i secondi creano (gli articoli pubblicati in una nuova rivista avrebbero un impatto zero, così che il lancio di una nuova rivista diviene molto più difficile). Pertanto, tali sistemi di valutazione preservano le posizioni degli editori esistenti e, tra questi, dei più consolidati. AIE, pur rappresentando prevalentemente questa tipologia di imprese, ritiene che la valutazione puntuale dei prodotti sia preferibile.

Carenza di dati bibliometrici nella realtà italiana

La carenza di dati citazionali deve essere affrontata come tale, con un’ottica di medio periodo. Gli editori italiani sono interessati a ragionare sui modi per migliorare i dati sulle pubblicazioni scientifiche italiane, in stretta collaborazione con l’università e con le migliori iniziative internazionali.

Pubblicazioni cartacee e digitali

Le pubblicazioni cartacee sono generalmente assenti dalle banche dati citazionali. La scelta se pubblicare un testo su carta o in versione digitale (o in entrambi i modi) risponde a criteri editoriali e commerciali indipendenti dalla qualità della pubblicazione. Una discriminazione tra l’una e l’altra categoria di prodotti è pertanto ingiustificata.

Funzione editoriale e impatto della ricerca sulla società

In molte discipline, dove il dialogo tra accademia ed esterno è più importante, deve essere posto il problema della valutazione dell’impatto delle pubblicazioni sul resto della società. Nella tradizione italiana vi è un particolare spazio per la cosiddetta “editoria di cultura” che nasce in ambienti accademici e dialoga con comunità di lettori più ampie, influenzando lo sviluppo culturale del paese e la formazione delle classi dirigenti. La misura dell’impatto delle pubblicazioni su comunità extra-accademiche può tener conto della loro diffusione3.

Editoria scientifica, professionale, divulgativa e didattica

In Italia, specie in alcune discipline, la distinzione tra editoria scientifica, divulgativa e didattica è meno netta che in altri contesti, ed esiste piuttosto un continuum tra monografie puramente di ricerca, quelle rivolte o professionali, e quelle strettamente divulgative o didattiche. Quando, a premessa di quasi tutti i documenti in materia, si dice che “sono escluse le pubblicazioni divulgative e didattiche” si presuppone l’idea che la distinzione sia semplice. Il che non corrisponde alla realtà editoriale italiana.

Liste di  editori ed effetti sul mercato editoriale

La compilazione di “liste” di sedi di pubblicazioni rischia di entrare in conflitto con principi generali, persino di rango costituzionale4. Come ha di recente sottolineato il CUN, per le monografie la redazione di liste di case editrici o di collane “scientifiche” è “una pratica del tutto sconosciuta in tutti i Paesi che hanno affrontato il problema della valutazione della produzione scientifica”. Vi sono molte ragioni per cui ciò avviene. Ragioni pratiche, considerata l’impossibilità di concepire un progetto di classificazione di tutte le case editrici del mondo (né si potrebbe limitare l’esercizio alle case editrici nazionali: qualsiasi discriminazione a favore o contro gli editori nazionali è semplicemente inconcepibile). Ancor più, vi sono ragioni connesse alla libertà di stampa: qualsiasi lista di “sedi editoriali” accreditate produrrebbe una proscrizione per chi non ne faccia parte. Per queste ragioni, gli editori italiani sottolineano la loro contrarietà alla compilazione di qualsiasi lista di case editrici o di collane. (Milano, 15 luglio 2010)
 
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