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20 Giugno
Università: non tutti si fanno gli «affari propri» PDF Stampa E-mail
Lettera al Corsera.
Caro Severgnini,
in una tua risposta pubblicata sul Sette del 3 giugno, parlando dell'università affermi «...mentre troppi professori si facevano gli affari loro (consulenze, studi professionali, libri e convegni)» ("Un clima ostile all'università come bene pubblico", Valentina Pisanty). Vorrei precisare che non tutti i professori universitari rientrano in questa categoria, anche se sui giornali si parla sempre di questi. Mi chiedo poi, e questo è lo scopo della mia lettera, perchè non si parli MAI sui giornali della differenza fra tempo pieno e tempo parziale. Eppure proprio da qui si dovrebbe iniziare. Tempo pieno: ti dedichi solo all'università. Tempo parziale: prendi uno stipendio inferiore ma puoi svolgere una libera professione (e puoi mettere sulla carta intestata il titolo di prof. presso l'università di... che per alcune professioni può essere molto utile). Questa è una differenza non trascurabile. Ti assicuro che per i «prof a tempo pieno» che dedicano tutta la loro giornata in università certe affermazioni generiche fanno male. Così come ci si rimane male quando ti senti dire «le lezioni sono finite, ormai sei in vacanza». No, per diversi docenti universitari la ricerca e la didattica è l'unica loro attività, che dura tutto l'anno. È, era, il sogno della loro vita, ma ora inizia a diventare un incubo. (M. Sironi, maurizio.sironi@unimi.it, Corsera 08-06-2010)
 
Quale spesa per una laurea? PDF Stampa E-mail
Gli economisti sommano il costo delle tasse universitarie ai mancati guadagni per gli anni di studio (il costo opportunità). Proviamo a fare un calcolo approssimativo. In Italia le tasse d'iscrizione sono mediamente a 1.200 euro (dati Ocse), gli anni medi necessari per laurearsi sono 7 (valutazione Crui) e il reddito medio netto annuo di un lavoratore con diploma di scuola secondaria tra i 18 e i 25 anni è 7.200 euro (Banca d'Italia). Dunque, il costo di una laurea è, in media, pari a 1.200 x 7 + 7.200 x 7 = 58.800. È una cifra senza dubbio significativa. Tuttavia, laurearsi conviene. La Banca d'Italia stima che il rendimento medio di un anno in più di istruzione sia circa l'8 per cento. Questo calcolo si basa sui differenziali salariali a vantaggio delle persone più istruite e sui costi di studio (incluso il costo opportunità). Meglio investire in istruzione che in Cct. Le banche dovrebbero essere pronte a finanziare questa spesa. In realtà le cose non sono così semplici: il mercato del credito nel settore dei prestiti agli studenti è caratterizzato da incertezza e asimmetrie informative. Le banche chiedono una qualche forma di collaterale ai mutuatari e l'investimento in istruzione non offre sufficienti garanzie ai creditori. In ogni caso, questi calcoli approssimativi dimostrano che le tasse universitarie sono una percentuale poco importante dei costi di laurea. In base al nostro esempio, ammontano ad appena 8.400 euro su 58.800, spalmati su 7 anni. In effetti, le tasse universitarie in Italia sono tra le più basse d'Europa e le banche dovrebbero essere ben felici di anticipare il 14% di un investimento (sia pure rischioso) che rende l'8% annuo. La spesa pubblica per l'università, in Italia, è inferiore del 30% rispetto alla media di Francia, Germania e Regno Unito. Questo dato spinge ogni anno la Conferenza dei Rettori a chiedere più risorse al governo di turno. Si ritiene che i cattivi risultati dell'università italiana (abbandoni, maggiore tasso di disoccupazione e tempi lunghi per laurearsi) possano essere eliminati dando il 30% in più di risorse. Ciò equivale a spendere 2.200 euro circa per studente. (P. Reichlin, Il Sole 24 Ore 06-06-2010)
 
Il tasso di abbandono nelle università PDF Stampa E-mail
Nelle università il tasso di abbandono è ancora altissimo. Il fenomeno è molto vistoso soprattutto all’inizio del corso di laurea: il 18,1% delle matricole degli atenei statali non si iscrive al secondo anno. Il dato, rilevato dal Miur, si riferisce al 2008-2009 e riguarda gli iscritti del 2007-2008. In media venti giovani su cento lasciano, ma avvicinando la lente d’ingrandimento sui singoli atenei si scopre che in alcune situazioni è allarme rosso. Siena con il 40,7% di mancate iscrizioni batte il record: su 5.760 immatricolati 3.413 non hanno confermato la scelta. Ma tra loro ci sono studenti che tornano in patria per motivi diversi dallo studio. Foggia, con il 34,7%, si piazza al secondo posto della graduatoria. Delle tre università della Sicilia, poi, due hanno percentuali preoccupanti: Palermo 29%; Messina 27,3%; Catania, invece, con il 17,3% va un po’ meglio. Con un 28,6% la febbre dell’abbandono brucia anche in Salento. Non è solo il Sud a piangere. La Statale di Torino dal primo al secondo anno ha il 25% di mancate iscrizioni. Se prendiamo in esame Roma, ci si accorge che anche nella capitale il problema non è davvero secondario: Tor Vergata 28,5%; La Sapienza 19,8% e Roma Tre 19,7%. La Tuscia, altra università laziale, si attesta al 26,4%. Se osserviamo poi le singole facoltà, scopriamo che le percentuali più alte riguardano Scienze matematiche, fisiche e naturali. (in sigla Mfn), con il 29,7%; seguono Scienze politiche con il 27,7%; Farmacia con il 27,”% e Giurisprudenza con il 21,2%. Anche Ingegneria, una facoltà che di solito viene scelta da chi ha una “vocazione”, non sta messa bene, con il 17,6%. (a. M. Sersale, Il Messaggero 06-06-2010)
 
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