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12 Settembre
RIFORMA FORENSE. BOCCIATURA DELL’ANTITRUST PDF Stampa E-mail

La proposta di riforma forense licenziata dalla Commissione Giustizia della Camera ''reintroduce alcune misure limitative della concorrenza tra avvocati, in controtendenza con il Dpr sulle professioni appena varato dal Governo'. Lo afferma l'Antitrust, in un parere, a firma del presidente Giovanni Pitruzzella, inviato ai Presidenti di Senato e Camera, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia.
Secondo l'Antitrust ''i profili che destano maggiori perplessità, dal punto di vista concorrenziale, riguardano le norme sui compensi che reintroducono di fatto le tariffe e la durata troppo lunga del tirocinio, che limita la possibilità di ingresso alla professione''. In particolare, spiega l'Autorità', con la proposta di legge ''si reintroducono di fatto le tariffe'' visto che ''il preventivo e' obbligatorio solo su richiesta del cliente e non e' comunque necessaria la forma scritta. In caso di mancato accordo, inoltre, il compenso e' determinato utilizzando i ''parametri'' stabiliti con decreto ministeriale: in questo modo viene ripristinato il rispetto di prezzi uniformi, vanificando cosi' gli effetti della liberalizzazione''.
Dubbi anche dalle norme sul tirocinio dalle quali ''derivano ostacoli alla professione'' visto che la durata, ridotta dal decreto sulle liberalizzazioni a 18 mesi viene nuovamente allungata a due anni. L'Antitrust sottolinea che vengono previsti limiti e divieti alla pubblicità considerando che la proposta di legge ''utilizza il termine 'informazione' o 'comunicazione' in luogo di pubblicità facendo sorgere il dubbio che la pubblicità non sia consentita''.
Altri nodi riguardano l'introduzione del nuovo titolo di specialista ''che può essere attribuito solo dal Consiglio Nazionale Forense'' con ''verifiche che non sono sempre fondate sull'accertamento dell'esperienza professionale effettiva'' e l'ampliamento delle incompatibilità con la professione di avvocato che secondo l'Autorità' ''non risultano necessarie ne' proporzionali, rispetto alla garanzia dell'autonomia degli avvocati o alla tutela dell'integrità' del professionista''.
(Fonte: ASCA- Roma 10-09-2012)

 
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE PER LE PROFESSIONI LEGALI: 3700 POSTI PER IL 2012-2013 PDF Stampa E-mail
E’ stato fissato il numero complessivo dei laureati in giurisprudenza da ammettere alle scuole di specializzazione per le professioni legal presenti nelle facoltà di giurisprudenza: 3.700 persone. Infatti, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto 07.08.2012 del Ministero dell'Istruzione sulla "Programmazione dell'accesso alle scuole di specializzazione per le professioni legali per l'anno accademico 2011-2012". Con il decreto il ministero della giustizia e quello dell'università hanno bandito il concorso per l'accesso alle scuole per l'anno accademico 2012-2013. Tali istituti di specializzazione legale (istituite dall'art. 16 del DLgs n. 39811997) sono uno dei requisiti obbligatori per accedere al concorso in magistratura, preparando nello stesso tempo anche all'esame di abilitazione per avvocato e al concorso per notaio. In entrambi i casi, infatti, il titolo equivale a 12 mesi di pratica. Presenti in tutta Italia in ogni facoltà, pubblica e privata, di giurisprudenza, le scuole hanno una durata biennale, corsi a frequenza obbligatoria e prevedono un primo anno in comune, mentre il secondo si suddivide nei due indirizzi: giudiziario-forense o notarile. Alla prova sono ammessi coloro che hanno conseguito il diploma di laurea in giurisprudenza prima del 24 ottobre 2012. La domanda di partecipazione al concorso dovrà essere presentata alla segreteria della facoltà di giurisprudenza dell'ateneo di riferimento entro il 5 ottobre 2012.
(Fonti: Altalex 29-08-2012. ItaliaOggi 06-09-2012)
 
LAUREATI IN MEDICINA. IN 3.000 NON POTRANNO SPECIALIZZARSI NE' ESSERE IMPIEGATI NEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE PDF Stampa E-mail
Solo un concorrente su 8 ce la farà a superare le prove di accesso a Medicina e Odontoiatria nelle università pubbliche. Lo sostiene il Consiglio Universitario Nazionale (CUN), secondo cui in 3.000 (il 30% di chi entra quest’anno all'università' e si laurea entro 6 anni) resteranno senza occupazione: "Il vero 'collo di bottiglia' alle facoltà di Medicina non sono tanto i quiz iniziali ma l'accesso alle specializzazioni e ai posti di medicina generale messi a bando in Italia dal Servizio Sanitario Nazionale" spiega Andrea Lenzi, presidente CUN e presidente della Conferenza dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina. Secondo il Cun, su 11.000 studenti che supereranno i test quest'anno e inizieranno il percorso di studi in medicina riusciranno a laurearsi, fra 6 anni, 8.500/9.000 studenti (l'80% degli iscritti si laurea, infatti, entro il primo anno fuori corso). I posti disponibili per le scuole di specializzazione sono invece 5.000 e quelli per medicina generale circa 1.000. "Il numero dei laureati è adeguato a coprire il turn-over dei medici e scongiurare il rischio del calo di medici ipotizzato per il futuro, ma nasconde un'altra realtà: avremo circa 3.000 laureati in medicina che non potranno specializzarsi ne' essere impiegati nel Servizio sanitario nazionale" precisa Lenzi. Lenzi propone di incrementare il numero dei posti delle scuole di specializzazione e quindi i contratti di formazione anche trovando fondi altrove: "Si potrebbe incrementare il numero di contratti da parte delle Regioni e consentire anche quello di eventuali Fondazioni e dalla Sanità privata, che usufruisce e ha bisogno di specialisti formati dal sistema universitario". Quanto alla validità dei quiz, per Lenzi sono "una buona verifica" la cui struttura è "migliorata notevolmente". Il difetto è piuttosto nei tempi: non andrebbero fatti a settembre, ma entro aprile. Infine, la richiesta del CUN è che si faccia una buona volta ciò che prevede la legge per l'orientamento nelle scuole superiori: per Lenzi è necessario che test psico-attitudinali siano eseguiti nel quinto anno delle scuole superiori ma che già nel quarto anno siano organizzati incontri tra ricercatori universitari e studenti per favorire scelte consapevoli.
(Fonte: AGI – Roma 03-09-2012)
 
LA CARTA BLU PER SPECIALISTI EXTRA UE ALTAMENTE QUALIFICATI PDF Stampa E-mail

Ingegnere pakistano, chirurgo argentino, geofisico cinese, progettista di software indiano: in caso riescano ad ottenere un contratto regolare di lavoro in Italia, avranno tutti diritto a un permesso di soggiorno biennale, esteso, su richiesta, anche alle loro famiglie. Dallo scorso 8 agosto il nostro Parlamento si è finalmente "messo in regola", anche se in ritardo rispetto ad altri Paesi, approvando il decreto legislativo n. 108 del 28 giugno 2012, che recepisce una direttiva europea del 2009. Questi lavoratori "speciali", di cittadinanza non europea, non dovranno attendere i decreti flussi e rientrare nelle quote previste dal Paese di provenienza per restare più di tre mesi nel nostro paese, ma potranno ricevere il nuovo permesso di soggiorno, denominato "carta blu Ue". Il titolare della carta blu Ue rilasciata da uno stato membro, dopo diciotto mesi di soggiorno legale in quel paese, può entrare in Italia senza necessità di visto.
Dal 2013, gli stati membri dovranno fornire annualmente alla Commissione europea le statistiche sul numero di cittadini di paesi terzi cui viene rilasciata, rinnovata, revocata o rifiutata una carta blu UE, sulle loro nazionalità e professioni e sui loro familiari.
Quali sono le professioni altamente qualificate? In base all'ultima classificazione dell'Istat, entrata in vigore nel 2011, rientrano tra le professioni ammesse le seguenti figure: Specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali. Ingegneri, architetti e professioni assimilate. Specialisti nelle scienze della vita
Specialisti della salute Specialisti in scienze umane, sociali, artistiche e gestionali.
Specialisti della formazione e della ricerca.
(Fonte: A. Flora, euractiv.it 22-08-2012)

 
ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO PDF Stampa E-mail

Sull’abolizione del valore legale del titolo di studio Roars ha seguito con attenzione il dibattito. Molti fautori dell’abolizione non sembrano avere le idee chiare sulla natura del problema, su quali interventi concreti essi vogliano sostenere e sulle conseguenze della ventilata abolizione. Tra i molti materiali pubblicati, G. De Nicolao consiglia la lettura dei seguente articoli:

A. Stella, Riflessioni sull’abolizione del valore legale del titolo di studio (http://www.roars.it/online/?p=7510).

Redazione Roars: VQR, Valore legale e qualità della regolazione: i documenti CUN (http://www.roars.it/online/?p=8133).

F. Coniglione, Sul valore legale si decide online. Una consultazione indispensabile? (http://www.roars.it/online/?p=5213).

L’ultimo articolo contiene anche i link a numerosi riferimenti bibliografici.

(Fonte: G. De Nicolao, roars 01-09-2012)
 
RICERCA. NELLA VERA STORIA DELL’AUTONOMIA UNIVERSITARIA L’OCCASIONE PERSA PER UNIFICARE IL SISTEMA UNIVERSITARIO E DI RICERCA PDF Stampa E-mail

Ad Antonio Ruberti, Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica dal 1989 al 1992, si attribuisce la paternità della cosiddetta “autonomia universitaria”. Ciò è, in parte, fondato sul fatto che la Legge 168 del 1989, che istituì il nuovo Ministero dell’Università e della Ricerca, concesse anche ampia autonomia didattica e statutaria alle sedi universitarie. L’iniziativa di questa legge è attribuita a Ruberti. Ma la vera storia dell’autonomia universitaria è un’altra. Antonio Ruberti fu costretto a subire la legge 168 e non fece in tempo a correggerla come avrebbe desiderato. Il suo concetto preferito non era “autonomia”, ma “governo del sistema”. Alessandro Figà Talamanca nell’articolo “La vera storia dell’autonomia universitaria“ cerca di raccontare la storia correttamente.
Il programma del Governo dell’epoca (1987) prevedeva l’istituzione di un Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Antonio Ruberti fu indicato come il futuro titolare del nuovo dicastero. Ma l’idea di affidare università e ricerca a un socialista non doveva essere stata accettata pienamente dalla Democrazia Cristiana. Fu subito chiaro, infatti, che il progetto di un unico Ministero per Università e Ricerca avrebbe comportato una perdita di “autonomia” da parte del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che era allora, e da molti anni, un feudo democristiano. Anche i sindacati della ricerca, in particolare la CGIL-ricerca, abituati a contrattare per un “comparto”, che comprendeva tutti gli “addetti” alla ricerca, dagli uscieri ai direttori di ricerca, non potevano vedere di buon occhio un progetto che rischiava di portare a una sostanziale unificazione dello stato giuridico dei ricercatori del CNR (e di altri enti pubblici di ricerca) con quello dei docenti universitari. Per questi ultimi, infatti, non era (e non è) previsto un contratto negoziato dai sindacati. D’altra parte Ruberti aveva subito identificato nel problema dello stato giuridico il nodo cruciale per un’efficace unificazione delle competenze per l’università e per la ricerca in un unico Ministero. Il Governo approvò alla fine di agosto un disegno di legge che, assieme alla norma istitutiva del Ministero, conteneva anche norme (in realtà piuttosto vaghe) che garantivano l’autonomia universitaria e degli enti di ricerca. Il disegno di legge istitutivo del nuovo ministero iniziò allora un lungo iter legislativo, che si concluse solo nella primavera del 1989. Col passare del tempo il ddl si trasformò in un testo confuso e contraddittorio che comprendeva pochissime norme di immediata applicazione. Quasi tutte le nuove disposizioni sull’autonomia sarebbero entrate in vigore in ritardo. Ruberti, ansioso di prendere possesso del suo Ministero, accettò queste contraddittorie disposizioni. Probabilmente, riteneva di riuscire a modificarle con riforme più organiche, e forse più restrittive. Per accelerare l’iter del provvedimento Ruberti si vide costretto ad accettare un emendamento alla legge istitutiva, che aveva il solo scopo di far fallire il suo progetto. L’emendamento, presentato dall’on. Silvano Labriola, Presidene della Commissione Affari Costituzionali, eletto nelle liste del Partito Socialista, sembrava estraneo alla materia del disegno di legge, ma in realtà centrava il cuore del progetto Ruberti. Si stabiliva, infatti, che lo stato giuridico del personale dipendente degli enti di ricerca fosse regolato dai contratti stipulati con le organizzazioni sindacali. Si rendeva così impossibile l’unificazione dello stato giuridico dei ricercatori con quello dei docenti universitari. La separazione, sulla base di diversi interessi “contrattuali” di comunità scientifiche con gli stessi interessi di ricerca, rafforzava il potere dei sindacati e delle clientele politiche, con buona pace della vera “autonomia” della scienza e della ricerca. Le altre disposizioni, più o meno contraddittorie, della nuova legge che assunse la denominazione di Legge 9 maggio 1989, n.168, potevano essere, e furono in parte, superate da nuove norme promosse da Ruberti, ma l’emendamento Labriola che si concretò nel primo comma dell’art. 9 della legge, determinò un passaggio irreversibile. Rese inevitabile il progressivo distacco degli enti di ricerca dall’università, un distacco destinato a dar luogo all’inutile duplicazione di molte iniziative scientifiche. Dobbiamo riflettere sull’occasione persa, allora, per unificare il sistema universitario e di ricerca, consentendone un “governo” responsabile da parte del Ministro, rispettoso dell’autonomia di comunità scientifiche non artificiosamente separate. Da buon esperto di teoria dei sistemi Ruberti vedeva le singole università inserite in un sistema interdipendente. Gli era probabilmente estranea l’idea di una autonomia atomizzata, esercitata dalle singole sedi universitarie e non da comunità scientifiche nazionali.
(Fonte: A. Figà Talamanca, roars 20-08-2012)

 
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