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18 Marzo
RIFORMA. RILIEVI DEL MIUR AL NUOVO STATUTO DELL’UNIVERSITA’ LA SAPIENZA PDF Stampa E-mail

Il MIUR invia numerosi rilievi al nuovo statuto proposto dall'ateneo La Sapienza di Roma. I dirigenti del ministero scrivono che deve esserci "un bilancio unico di ateneo", non tanti quanti sono stati proposti. E aggiungono: "Si esprimono perplessità sulla costituzione di molteplici nuclei di valutazione (remunerati; ndr) in ciascuna facoltà". "Si elimini", esortano poi, "la possibilità di costituire dipartimenti cosiddetti atipici (articolo 10) perché non è consentito dalla legge". "È necessario", sollecitano, "riformulare le norme sul reclutamento dei professori e dei ricercatori".
In altre parole, le "proposte di chiamata" dei docenti in cattedra da parte dei Dipartimenti devono passare il vaglio del consiglio di amministrazione. Di più: all'articolo 15 era previsto l'organismo di mediazione nelle controversie che, nello statuto proposto, però, "risulta essere un ente completamente autonomo sul piano organizzativo, contabile, regolamentare e amministrativo". Non va bene. Ipotesi respinta. Con un’esortazione: "L’organismo sia un'articolazione dell'ateneo, operi nel rispetto della legge sulla conciliazione e non goda di autonomia contabile". Ancora più dure le osservazioni sulla composizione e sulle competenze del senato accademico. La proposta della Sapienza puntava a spostare su questo alcune funzioni del CDA, ma il ministero ricorda: "Spetta esclusivamente al consiglio di amministrazione la materia contabile così come quella dell'attivazione dei corsi di laurea e delle nuove sedi universitarie". I dirigenti del Miur "rilevano come la composizione del Senato accademico presenti diversi profili di illegittimità". Il nuovo statuto, criticano, "prevede un numero di componenti che eccede il limite massimo consentito dalla legge". "Secondo la previsione statutaria", argomentano, "i "senatori" sarebbero 36 ai quali si aggiungono i presidi delle facoltà". Ma la presenza di questi ultimi, sottolineano, "è contraria al regime del cumulo delle cariche accademiche”. I "senatori", insomma, non possono essere i presidi di facoltà. Il Miur considera eccessivo anche il numero dei componenti il CDA previsto dal nuovo statuto: "L'organo risulta illegittimamente costituito da 14 consiglieri".
(Fonte: C. Picozza,roma.repubblica.it 11-03-2012)

 
UNA SINTESI DELL’EVOLUZIONE DELL’ISTRUZIONE SECONDARIA E SUPERIORE PDF Stampa E-mail

Non vi è stata forse una grande riforma scolastica, comparabile a quella di Giovanni Gentile, ma negli ultimi cinquant'anni le correzioni sono state numerose. È stata ampliata la gamma dei licei offerti agli studenti. I programmi scolastici sono stati adattati ai tempi. Le prove d'esame hanno subito diversi adattamenti. Ciò che è veramente cambiato, rispetto alla riforma Gentile, non è l'architettura dell'insegnamento secondario, ma il suo spirito e i suoi obiettivi. Nelle intenzioni del filosofo idealista il liceo era il collo dell'imbuto che avrebbe selezionato i giovani di una nuova classe dirigente per avviarli agli studi universitari. La maturità classica li avrebbe indirizzati verso le scienze umane, la maturità scientifica verso le scienze esatte e applicate. Sulla soglia dell'università non vi sarebbero stati esami d'ingresso perché la licenza liceale rappresentava già, di per sé, una selezione. Per i ceti sociali meno favoriti o meno ambiziosi vi sarebbero stati percorsi diversi, destinati alla formazione di operai, artigiani e professioni minori.
Con l'avvento dei partiti di massa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, e soprattutto con la formazione dei primi governi di centrosinistra all'inizio degli anni Sessanta, gli obiettivi sono cambiati. Occorreva elevare il grado d'istruzione del maggior numero possibile di persone e occorreva farlo democraticamente, vale a dire evitando di abbandonare lungo la strada i giovani meno preparati e dotati. A mano a mano che i nuovi professori subentravano ai vecchi, questa politica dell'educazione ha finito per allargare considerevolmente l'imbuto della licenza liceale. Il fenomeno non è soltanto italiano. In molte altre democrazie occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, la scuola media superiore si conclude ormai con un diploma che è di fatto un certificato di frequenza. Ma in questi Paesi la selezione avviene nella fase successiva, quando lo studente decide di iscriversi all'università e deve superare un esame di ammissione. In Italia invece quasi tutte le università, sino a tempi recenti, hanno continuato a operare come se la selezione, grazie alla maturità, vi fosse già stata. Aggiungo che questo è accaduto mentre il miracolo economico creava un nuovo ceto medio, desideroso di consolidare con una laurea la sua recente promozione sociale. Le università si sono troppo rapidamente ingrossate e molte, quale più quale meno, hanno finito per adeguarsi ai criteri del livellamento democratico. Il valore legale del titolo di studio ha contribuito a peggiorare la situazione. Se ogni università rilascia alla fine degli studi lo stesso documento, molti giovani cedono alla tentazione di andare alla ricerca di quella più ospitale e generosa. Nei prossimi anni vi saranno certamente altre riforme, ma saranno buone, in ultima analisi, soltanto se eviteranno di eludere il problema della selezione.
(Fonte: S. Romano, Corsera 02-03-2012)

 
LAUREE. VALORE LEGALE DELLA LAUREA. PARTE IL 22 MARZO LA CONSULTAZIONE PUBBLICA PDF Stampa E-mail

La consultazione pubblica online sul valore legale della laurea inizierà giovedì 22 marzo 2012. Da quella data, collegandosi al sito web del Ministero dell’istruzione si potrà accedere a una pagina dedicata, dove sarà messo a disposizione un documento di base, una sorta di piattaforma sulla quale innescare la discussione se abolire o no il valore legale del titolo di studio. La consultazione pubblica attraverso internet durerà circa 20 giorni. Per partecipare alla discussione e dire la propria opinione, sarà obbligatoria la registrazione per evitare il rischio di votare più volte.
Quello che per ora pare certo è che non sarà predisposto un semplice quesito ‘Sì-No’, per non trasformare la questione del valore legale della laurea in una sorta di referendum.
Le questioni in discussione relative al valore legale della laurea riguardano fondamentalmente le seguenti proposte:
- l’eliminazione della tipologia di laurea come vincolo nei concorsi pubblici;
- l’eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici;
- la differenziazione del titolo di studio secondo la qualità delle facoltà e Università di provenienza;
- l’eliminazione o la riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici;
La prima proposta prevede la possibilità di ammettere ai concorsi per la dirigenza pubblica tutti i tipi di laurea e non solo quelle appartenenti alle facoltà tradizionali quali giurisprudenza o scienze politiche, ad eccezione dei casi in cui siano richieste competenze tecniche specifiche.
Una scelta del genere consentirebbe da un lato, così come affermato da Pietro Manzini (de lavoce.info), di intercettare ‘saperi utili e diversificati’ e quindi di conferire maggiore valore e ‘ricchezza’ di apporti al sistema pubblico; dall’altro valorizzerebbe maggiormente capacità, competenze e conoscenze dimostrate dal candidato nel concorso, al di là del percorso di studi effettuato.
Per quanto riguarda invece il secondo punto, eliminazione del valore del titolo di studio significa sostanzialmente che un voto di 90/110 avrebbe lo stesso valore di un 110/110 e lode.
Obiettivi del Governo in questo senso sembrano essere sostanzialmente due: da un lato conferire maggiore importanza al valore reale (quindi alle reali capacità dei diversi candidati) rispetto alla “funzione burocratica”, in modo tale che solo i soggetti realmente capaci possano accedere alla carriera negli apparati statali; dall’altro (e qui ci colleghiamo al terzo punto) considerare come maggiormente importante la qualità dell’insegnamento, e più in generale dei servizi offerti dalle Università, piuttosto che il voto in sé. Oggi, infatti, i titoli di studio rilasciati da qualsiasi delle numerose Università presenti sul territorio italiano hanno lo stesso identico peso e valore nelle selezioni per gli impieghi pubblici.
(Fonte: S. Ivaldi, you-ng.it 05-03-2012)

 
LAUREE. Il RAPPORTO FRA LAUREE E CARRIERE PUBBLICHE PDF Stampa E-mail

Nella discussione in corso sul valore legale delle lauree sono ignorati i problemi più gravi che oggi viziano il rapporto fra lauree e carriere pubbliche.
Il primo di questi problemi è che, per molti concorsi pubblici, la preselezione data dalla laurea non impedisce la presentazione di migliaia di domande, anche per pochi posti. Ciò rende impossibile una valutazione imparziale ed efficiente della qualità dei candidati, impegna le commissioni per periodi lunghissimi e – per ragioni che è facile intuire – incentiva un’adverse selection dei commissari. Questo sistema perverso potrebbe essere riformato subito, introducendo un elemento di sana competizione fra Università. Basterebbe attribuire alle Università una funzione espressa di preselezione, cioè stabilire come requisito di ammissione al concorso una valutazione specifica di idoneità (a ricoprire il posto messo a concorso) da parte dell’Università di provenienza del candidato. Il ranking nazionale potrebbe essere costruito poi in base agli esiti della prima selezione (e poi delle successive), e ciò potrebbe consentire anche, in futuro, di fissare limiti numerici differenziati per i candidati ai concorsi provenienti dalle diverse Università. In questo modo si avrebbero concorsi di breve durata e, presumibilmente, selezioni migliori.
Il secondo grave problema è oggi costituito dal valore “convenzionale”, piuttosto che legale, che la laurea ha acquisito, sulla base di accordi sindacali, divenendo strumento di promozione interna nella carriera. In questa prospettiva s’inserisce il fenomeno dei “crediti formativi” e delle convenzioni che diverse Università hanno stipulato con diversi enti pubblici, offrendo lauree facilitate (una vera e proprio concorrenza al ribasso). Sull’abolizione del valore “convenzionale” del titolo sarebbe salutare un colpo di spugna. Ma non mi pare che la proposta sia all’ordine del giorno.
(Fonte: M. Libertini, www.apertacontrada.it 29-02-2012)

 
LAUREE. LA LAUREA NEI CONCORSI PUBBLICI PDF Stampa E-mail

In molti dei concorsi più difficili, quelli che danno accesso alle elite del settore pubblico (quelli per l’accesso alle magistrature, alle burocrazie parlamentari, alla Banca d’Italia, al corso-concorso per l’accesso alla dirigenza pubblica e anche al notariato), la laurea è sì un requisito per partecipare, ma poi il concorso è talmente difficile e selettivo, che il numero dei vincitori è quasi sempre inferiore a quello dei posti messi a concorso. In questo contesto, distinguere tra i diversi tipi di laurea avrebbe il solo possibile effetto di selezionare ulteriormente, ciò che il concorso fa già egregiamente. Sono cose che bisognerebbe conoscere, prima di pronunciarsi su questi temi.
Ma non ci sono solo questi grandi concorsi, che tutto sommato funzionano abbastanza bene. Ci sono anche i tanti micro-concorsi, banditi da comuni, camere di commercio, ordini professionali, università ed enti vari. Qui ci sono spesso i concorsi pilotati, con bandi-fotografia e commissioni compiacenti. Anche in questo caso, non bisogna generalizzare: a volte si tratta di consentire la meritata progressione in carriera a dipendenti di valore. Ma altre volte si tratta di assunzioni clientelari. E se il bando è fatto su misura per un laureato di un’università mediocre, al laureato dell’università eccellente è difficile far valere la competenza acquisita.
Il problema in questi casi esiste. Ma siete sicuri che lo si risolva eliminando il valore dei titoli di studio? Non pensate che, in questo modo, il sindaco, presidente o direttore generale dell’ente avrà le mani ancora più libere, perché potrà far partecipare al concorso anche un ignorante non laureato (e non solo un ignorante laureato)? Forse il valore legale è meglio che niente.
Il problema del malcostume e delle cattive prassi nei concorsi pubblici indubbiamente esiste, ma non lo si risolve in questo modo. Tra i possibili rimedi, ce n’è uno che varrebbe la pena di sperimentare ma che – questa volta sì – richiede una legge, da scrivere con cura: centralizzare i concorsi, privando le singole amministrazioni del potere di controllarli. (Fonte: B. G. Mattarella, roars 02-03-2012)

 
LAUREE. LA DISOCCUPAZIONE AUMENTA TRA I GIOVANI LAUREATI. XIV RAPPORTO ALMALAUREA PDF Stampa E-mail

La disoccupazione aumenta tra i giovani laureati e anche quando il lavoro si trova, rispetto al passato è meno stabile. E' quanto emerge dal XIV Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati presentato oggi a Roma nella sede della CRUI. L’indagine ha coinvolto circa 400mila laureati. Si tratta di quasi 186mila laureati del 2010 (più di 113mila di primo livello; 54.300 biennali specialistici; quasi 16mila a ciclo unico, ovvero i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza) intervistati nel 2011, a un anno dal conseguimento del titolo; 53mila laureati del 2008, specialistici e a ciclo unico, intervistati dopo tre anni; 22mila laureati pre-riforma del 2006, intervistati dopo cinque anni. Dal rapporto emerge che una percentuale notevole e in crescita di giovani, tra cui vi sono anche profili che in tempi migliori non avrebbero avuto difficoltà a trovare un lavoro, è a rischio di disoccupazione prolungata o di inattività, con effetti che potrebbero divenire irreversibili. Tali rischi includono la difficoltà protratta di trovare lavoro e la persistenza di differenziali salariali. Secondo la documentazione più recente (Istat), a gennaio 2012, i tassi di disoccupazione giovanile nel nostro Paese hanno raggiunto livelli superiori al 31%.
Contemporaneamente emergono aree a rischio di marginalità per i giovani non inseriti in un percorso scolastico/universitario/formativo e neppure impegnati in un'attività' lavorativa. Nel 2010, in Italia il fenomeno riguarda oltre due milioni di giovani (più del 22% della popolazione di età 15-29 anni). Su questo terreno la posizione dell'Italia, al vertice della graduatoria europea, è distante dai principali paesi quali Germania (10,7), Regno Unito e Francia (entrambi 14,6), risultando così particolarmente allarmante.
Il rapporto evidenzia inoltre che in Italia è penalizzata l'occupazione più qualificata. In particolare, evidenzia AlmaLaurea, l'evoluzione della quota di occupati nelle professioni più qualificate evidenzia criticità, di natura sia strutturale sia congiunturale, queste ultime particolarmente preoccupanti. Tra il 2004 e il 2008, quindi negli anni precedenti alla crisi, tranne che in una breve fase di crescita moderata, l'Italia ha fatto segnare una riduzione della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione, in controtendenza rispetto al complesso dei paesi dell'Unione Europea. Un'asimmetria di comportamento che si è accentuata nel corso della crisi: mentre al contrarsi dell'occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il contrario.
In Italia si contano ancora pochi laureati: nel nostro Paese i giovani sono pochi e per di più poco scolarizzati. Ancor oggi il confronto con i paesi più avanzati ci vede in ritardo: 20 laureati su cento di età 25-34 contro la media dei paesi OECD pari a 37 (mentre in Germania sono 26 su cento, negli Stati Uniti 41, in Francia 43, nel Regno Unito 45, in Giappone 56). Il nostro - segnala AlmaLaurea - è un ritardo dalle radici antiche e profonde: nella popolazione di 55-64 anni sono laureati 10 italiani su cento, metà di quanti risultano nei paesi OECD (in Francia sono 18, in Germania 25, nel Regno Unito 29, negli USA 41) e che riguarda ovviamente, sia pure su valori diversi (ma in graduale miglioramento) anche imprenditori e dirigenti, pubblici e privati.
Anche sul terreno della scolarizzazione superiore nella popolazione adulta il Paese è in forte ritardo. Al punto che, ancora oggi, il 75% dei laureati di primo livello porta a casa un titolo di studio mancante a ciascuno dei genitori.

Nonostante poi i giovani con una preparazione universitaria costituiscano nel nostro Paese una quota modesta, risultano ancora poco appetibili per il mercato del lavoro interno. I più recenti risultati dell'indagine Excelsior-Unioncamere sui fabbisogni occupazionali delle imprese italiane (che non comprende il settore della pubblica amministrazione) testimoniano il crescente peso relativo dei laureati sul complesso delle assunzioni previste.
Ma la consistenza della domanda di laureati, complessivamente pari a 74mila nel 2011 (il 12,5% di tutte le assunzioni previste) conferma la ridotta utilizzazione di personale con formazione universitaria. Negli USA, le più recenti previsioni, elaborate per il decennio 2008-2018, stimano il fabbisogno di laureati pari al 31% del complesso delle nuove assunzioni.
A tre anni dalla laurea le differenze di genere si confermano significative e pari a 7 punti percentuali: lavorano 71 donne e 78 uomini su cento. Anche a tre anni dal conseguimento del titolo il lavoro stabile è prerogativa tutta maschile: può contare su un posto sicuro, infatti, il 66% degli occupati e il 49% delle occupate. I laureati specialistici del 2008 guadagnano il 28% in più delle loro colleghe (1.432 contro 1.115 euro).
(Fonte: Adnkronos/Ign 06-03-2012)

 
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