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20 Febbraio
A PROPOSITO DELLE AFFERMAZIONI DI UN VICEMINISTRO SUL RITARDO NELLE LAUREE PDF Stampa E-mail
Un problema di durata degli studi esiste: l’età media per la laurea di primo livello (triennio) è di 26 anni, solo un terzo dei laureati ha 23 anni o meno, circa il 20 per cento si laurea oltre i 27 anni. Gli studenti che si laureano dai 25 anni in su sono oltre il 36 per cento. Per fare un confronto con un paese in cui l’università funziona un po’ meglio, nel Regno Unito la percentuale corrispondente è di circa il 25 per cento (ma scende al 14 per cento fra gli studenti full time). In Italia resta poi alto il numero di abbandoni: il 18 per cento lascia dopo il primo anno, con un leggero miglioramento rispetto al 27 per cento del periodo pre-riforma. La percentuale corrispondente nel Regno Unito è l’8 per cento. Il problema, per un esponente dell’esecutivo, dovrebbe dunque essere cercare di capire il perché di questi numeri e proporre soluzioni. 
Esiste poi un altro: la probabilità di laurearsi dipende molto dal background famigliare. Sebbene quasi il 40 per cento dei maschi in età 45-69 anni (che hanno probabilmente figli in età da università) abbia la licenza elementare o meno, solo il 10 per cento dei laureati proviene da famiglie in cui il padre ha la licenza elementare. Se si guarda al livello d’istruzione della madre le cose vanno anche peggio. Risultati analoghi si possono ottenere, com’è facile immaginare, se si considerano le professioni (e presumibilmente il reddito) dei genitori anziché il loro livello d’istruzione. A prescindere dall’età, dunque, la laurea resta parecchio meno probabile se si proviene da un background familiare poco favorevole. Detto questo cerchiamo ora di capire chi sono gli “sfigati” secondo la definizione vice ministeriale. Non è sorprendente constatare che gli studenti che lavorano tendono a laurearsi più tardi, come si può vedere dalla tabella qui sotto. (4) La percentuale di chi si laurea a 27 anni e oltre è del 21 per cento, ma sale al 73 per cento se si è lavoratori-studenti. È un indicatore di demerito? Probabilmente no, che si lavori per necessità o per acquistare esperienza diretta del mondo del lavoro, cosa peraltro molto comune all’estero. Resta però un 20 per cento che si laurea a 25 anni o più pur non avendo mai lavorato. Tutti i laureati che hanno il padre con licenza elementare, il 35 per cento si laurea quattro o più anni fuori corso. La percentuale scende al 20 per cento se il padre è laureato. Analogamente, un laureato proveniente da un’università del Nord-Ovest ha il 20 per cento di probabilità di essersi laureato quattro o più anni fuori corso. In Sicilia e Sardegna la probabilità sale al 35 per cento. Non mi pare azzardato dire che queste correlazioni riflettono una distribuzione delle opportunità piuttosto asimmetrica nella società e nel territorio del nostro paese. Studenti con meno mezzi a disposizione o che studiano al Sud fanno più fatica a tenere il passo.
Forse bisognerebbe apprezzare di più l’impegno di tanti studenti che provengono da ambienti poco favorevoli e sono immessi spesso in università tutt’altro che efficienti, ma che riescono comunque a portare a termine i propri studi. Le affermazioni del viceministro sugli “sfigati” appaiono allora emblematiche dei peggiori problemi dell’università italiana. Ben venga dunque porre la questione di un’università che non funziona come dovrebbe. Farebbe anche piacere vedere un ministro sfruttare la sua visibilità per richiamare l’attenzione sulla scarsa mobilità sociale che caratterizza il nostro paese nei confronti internazionali.
(Fonte: V. Lancinese, Lavoce.info 31-01-2012)
 
STATISTICHE DI CINQUANT’ANNI D’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA E MOBILITÀ STUDENTESCA IN OCSE FACTBOOK 2011/2012 PDF Stampa E-mail
Per festeggiare i cinquant'anni dell'OCSE, l'annuale pubblicazione Factbook 2011/12, che fornisce un ricco panorama globale dei principali indicatori economici, sociali, ambientali ed educativi, ha dedicato un intero capitolo alle statistiche più importanti relative a questo periodo di tempo. Riferendosi in particolare all'istruzione universitaria, le statistiche hanno evidenziato come dalla fine degli anni 90 sia quadruplicato il numero degli studenti internazionali, passati da 0,8 milioni nel 1975 a 3,7 milioni nel 2009. La tendenza riflette la mondializzazione delle economie e la crescita, seppur meno tumultuosa, degli accessi all'istruzione superiore. Gli studenti stranieri iscritti nei paesi industrializzati riuniti nel forum del G20 rappresentano l'83% del totale (quelli dell'area OCSE il 77% mondiale). I Paesi europei (38%) e gli USA (23%) sono più accoglienti che esportatori. La forte presenza di studenti internazionali determina anche un impatto significativo sui tassi di diploma: ad es. il tasso dei laureati in Australia si abbassa di ben 15 punti percentuali escludendo i non residenti. Negli ultimi anni è aumentata significativamente la popolazione adulta in possesso di titolo universitario. Nel 2009 è laureato oltre il 30% della popolazione in età 25/64 anni in più della metà dei Paesi OCSE e oltrepassa il 50% in Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda e USA. Agli ultimi posti, con meno del 15%, un gruppo di Paesi che, oltre all'Italia, comprende Portogallo, Turchia, Argentina, Brasile, Cile, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa. L'analisi delle tendenze a lungo termine del livello di scolarità mostra peraltro come i livelli formativi dei 25/34enni sono superiori rispetto a quelli di coloro che stanno per lasciare il mercato del lavoro (55/64enni). Infine, la Corea guida la speciale classifica dei sistemi universitari più finanziati da fonti private (l'80% degli studenti è iscritto in Università private e più del 70% del budget è privato).
(Fonte: L. Moscarelli, rivistauniversitas.it 31-01-2012)
 
IL MODELLO AMERICANO E IL VALORE LEGALE DELLA LAUREA PDF Stampa E-mail
In un documentato pamphlet (La regina e il cavallo) l'economista Salvatore Rossi, oggi vicedirettore di Bankitalia, spiegava che la società americana deve in qualche misura il suo dinamismo a un sistema universitario che funziona. E che funziona non perché è privato, come alcuni liberisti incalliti sostengono superficialmente. Università prestigiose, tra cui quella di Berkeley, sono di proprietà pubblica. Il sistema funziona perché si fonda su regole di mercato: le università si disputano i docenti migliori con totale autonomia retributiva. L'equilibrio finanziario è assicurato da rette elevate e da un esteso meccanismo di donazioni, fiscalmente incentivato. Nel contempo, una quota cospicua delle risorse statali e federali finanzia direttamente gli studenti attraverso borse di studio e prestiti d'onore, anziché le università (da noi avviene il contrario). Tutte cose note, si dirà. Meno noto, forse, è che nel Paese di Obama la spesa pubblica che va all'istruzione postsecondaria è, in rapporto al Pil, di gran lunga superiore a quella italiana. Nessuna sorpresa, comunque, se dalle graduate schools statunitensi viene buona parte della ricerca di eccellenza che si fa sul pianeta. Questo modello esclude sia il valore legale del titolo di studio sia il ruolo unico pubblico dei professori universitari. Il primo presuppone e, insieme, determina il secondo. Il valore legale del titolo di studio, infatti, implica lo status di impiegati pubblici di chi deve rilasciarlo. Come osserva ancora Rossi, essi difendono una realtà corporativa e fintamente egualitaria. E in una realtà in cui tutti i diplomi sono uguali per legge, tutti gli studenti parimenti liberi di parcheggiarsi nelle aule di ogni Ateneo, a tempo indeterminato e a prezzi politici (ma non per i più svantaggiati), il rischio che la mediocrità e l'ignoranza prevalgano è forte. Per queste ragioni appartengo alla ristretta minoranza (fin qui) dei "sedicenti fautori" - come li definisce Figà Talamanca - dell'abolizione del valore legale del titolo di studio, fatta salva la necessità di una certificazione pubblica per l'esercizio di professioni legate alla salute e all'incolumità dei cittadini.
(Fonte: M. Magno, Il Riformista 01-02-2012)
 
NUOVI CORSI DI LAUREA PER ADEGUARSI AL MERCATO PDF Stampa E-mail
La crisi economica condiziona in modo sostanziale la tipologia dei nuovi corsi di laurea proposti dalle maggiori università italiane. Di là dalle polemiche che ogni anno suscita il proliferare di discipline i cui sbocchi professionali sono difficili da individuare, gli atenei tentano di reagire alle critiche, alla recessione e alla crisi dell'università italiana istituendo corsi di laurea che sembrano, almeno sulla carta, garantire una spendibilità piuttosto veloce nel mondo del lavoro. A Bologna ad esempio, prenderà il via la prima laurea internazionale in Business and Economics interamente in inglese, forse un tentativo di frenare l'esodo crescente degli studenti che ogni anno decidono di investire tempo e denaro in un corso universitario all'estero. A Siena e all'Aquila si punta sulla scienza antisismica e sulla geoingegneria, due settori in crescita che promettono ottimi sbocchi professionali, soprattutto a seguito della sciagura che ha colpito il territorio abruzzese nel 2009. L'ateneo di Verona, considerato uno dei migliori in termini di occupazione post laurea, propone un corso in Business Intelligence e in Computer Game, particolarmente indicato per chi avesse una particolare attitudine nei confronti della progettazione in ambiente informatico. Altri corsi invece puntano sulla scienza botanica, sul settore agroalimentare e su strane mescolanze disciplinari come il corso in informatica umanistica. Indubbiamente il trend premia le discipline economiche e finanziare, quelle che si occupano di Information technology, alcuni settori della moda e del turismo e tutto ciò che ha a che fare con la green economy e con il promettente universo delle energie rinnovabili. In calo i corsi prettamente umanistici come le lauree in lettere, filosofia, psicologia e sociologia. Stazionarie le iscrizioni ai corsi di medicina con un incremento degli immatricolati nelle lauree brevi in infermieristica e odontotecnica. Migliora infine l'impegno delle università a incrementare la possibilità di praticare stage e tirocini in azienda sia durante gli studi che dopo il conseguimento del titolo.
(Fonte: La Repubblica 08-02-2012)
 
AFFERENZE DEI CORSI DI LAUREA AI DIPARTIMENTI E DEI DIPARTIMENTI ALLE EVENTUALI STRUTTURE DI RACCORDO PDF Stampa E-mail

Le università provvedono a individuare le afferenze di tutti i corsi presenti nel regolamento didattico d’Ateneo ai dipartimenti. Relativamente all’organizzazione della didattica di ogni ateneo e fatte salve le attribuzioni dei rispettivi consigli di corso, ogni corso di studio deve afferire ad un “dipartimento di riferimento” individuato di norma in quello responsabile della prevalenza degli insegnamenti del corso stesso. E’ ammessa la possibilità di prevedere un’afferenza del singolo corso di studio anche a più dipartimenti tra cui andrà comunque individuato quello di riferimento e quelli associati, nel caso in cui gli stessi concorrano con i propri docenti in misura rilevante e significativa agli insegnamenti del corso di studio.
Qualora sia adottato un modello organizzativo che prevede anche la presenza di strutture di raccordo si ricorda che, fatte salve le specificità relative all’area medica, le strutture di raccordo sono finalizzate al coordinamento, alla razionalizzazione e alla gestione di servizi comuni delle attività didattiche di almeno due dipartimenti raggruppati secondo criteri di affinità disciplinare. A tal fine sarà possibile indicare l’afferenza dei dipartimenti alle rispettive strutture di raccordo. Tali valutazioni devono essere adeguatamente considerate e riportate, in particolare, a livello di Regolamento didattico di ateneo. Tenuto conto che di norma ogni dipartimento fa riferimento a un’unica struttura di raccordo, eventuali eccezioni andranno adeguatamente motivate nel Regolamento didattico di ateneo.
(Fonte: Nota del MIUR Offerta formativa 2012-2013. Indicazioni operative, 31-02-2012)

 
UNA LAUREA FANTASMA PDF Stampa E-mail

Una situazione paradossale in cui si sono ritrovati circa 200 studenti della facoltà di Architettura dell'università La Sapienza di Roma che, una volta laureati o in procinto di terminare gli esami, hanno scoperto di punto in bianco che il loro corso magistrale in "Interni e allestimenti" non serve a nulla.
Secondo il ministero dell'Istruzione, infatti, non è valido per sostenere l'esame di Stato e iscriversi nella sezione A dell'albo per esercitare a tutti gli effetti la professione firmando progetti e restauri.
Una beffa, dopo almeno cinque anni di studi, che ha spinto i 194 ragazzi, tra laureati e laureandi, a rivolgersi ai legali e a presentare un maxi ricorso contro La Sapienza e il Miur.
(Fonte: La Repubblica 14-02-2012)

 
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