Il Ministro parla in Senato dell’autonomia e dei problemi finanziari degli atenei |
Vorrei sviluppare il tema dell'autonomia e cercare di rispondere ad una critica che viene mossa spesso a questo disegno di legge, cioè l'accusa di essere dirigista. È certamente un'accusa facile, ma a mio modo di vedere ingiusta, perché le nostre università - non possiamo dimenticarlo - sono enti pubblici gestiti sulla base delle leggi in materia. Tutto va normato per legge: strutture di governo, diritti e doveri dei professori, meccanismi concorsuali, diritto allo studio, norme contabili. In questo contesto abbiamo compiuto ogni sforzo per snellire, semplificare e delegificare, anche grazie al contributo della Commissione VII, che voglio ancora ringraziare. Oltre non è possibile andare e, in effetti, mi sembra che anche alcune proposte dell'opposizione si muovano all'interno dello stesso perimetro concettuale. Certo, personalmente sogno un futuro in cui la forza della valutazione e il suo impatto pervasivo sui comportamenti dei singoli e delle istituzioni consentano di abbandonare molte delle regole che oggi riscriviamo. Me lo auguro, ma non credo di peccare di pessimismo se affermo che i tempi per questa rivoluzione oggi non sono ancora maturi. Nel frattempo, invito gli onorevoli senatori a considerare con particolare attenzione le norme che già si spingono in quella direzione: penso alla possibilità che gli atenei virtuosi sperimentino proprie modalità di organizzazione e di gestione; alla facoltà data agli atenei medi e piccoli di semplificare ulteriormente la struttura interna, una norma che riguarda oltre la metà di tutte le istituzioni universitarie; all’eliminazione di macchinose procedure elettive per la formazione delle commissioni di concorso e alla completa libertà data agli atenei di regolare come meglio credono le procedure interne di chiamata, di selezione e di promozione. Sono riuscita a far fronte alla promessa fatta dal mio predecessore e a finanziare, per 40 milioni di euro nel 2008 e 80 nel 2009, nuovi posti da ricercatore, anche se, sia chiaro, ho dovuto trovare ex novo quei fondi. Per il 2010 il taglio previsto originariamente era di 672 milioni di euro; quel taglio si è ridotto a meno della metà grazie ai 400 milioni di euro recuperati in finanziaria. Il Fondo di finanziamento ordinario per il 2010 sconta quindi una riduzione di circa il 3,7 per cento: riduzione dolorosa, certo, ma oggettivamente sopportabile. Anche quest'anno, nonostante la riduzione, distribuiremo poco più del 7 per cento dei fondi sulla base di un modello valutativo. Come Ministro dell'università sono naturalmente la prima a volere e a chiedere con forza fondi e investimenti. Ho però anche il dovere e, consentitemelo, lo abbiamo tutti, di guardare in faccia la realtà. Le cifre del dissesto sono impressionanti. Ora che abbiamo imposto maggiore trasparenza e serietà nella redazione dei bilanci stanno emergendo sofferenze troppo a lungo sottaciute che rivelano anni di diffusa irresponsabilità, di spese facili, di assunzioni fuori controllo, di promozioni senza copertura, di gestioni mirate ad acquisire il consenso dimenticando responsabilità e qualità. Dal 1999 al 2009 gli studenti sono cresciuti del 7 per cento, ma il corpo docente è cresciuto del 24 per cento, passando da 50.700 unità di ruolo a 62.700. Solo il costo di questi 12.000 nuovi docenti pesa per oltre un miliardo su un Fondo di finanziamento ordinario di 7,5 miliardi. Nello stesso decennio, poi, il numero dei professori ordinari è cresciuto del 46 per cento, con punte del 70-80 per cento di crescita in alcune aree disciplinari. Molte università hanno dato corso alle chiamate a un ruolo superiore ignorando intenzionalmente i maggiori costi che si verificano dopo il triennio di conferma, costi certi e ineludibili. Nel complesso quindi il costo degli stipendi è lievitato da 4,5 a 6,8 miliardi, con un aumento di 2,3 miliardi, il 51 per cento in più rispetto a dieci anni fa. Oggi spendiamo in stipendi il 90 per cento: di tutte le risorse che il contribuente mette a disposizione del sistema universitario. Nel periodo 2001-2009 il Fondo di finanziamento ordinario è complessivamente cresciuto del 15,7 per cento; nessun taglio, quindi, ma un aumento - lo ribadisco - del 15,7 per cento. Sarebbe stato logico attendersi che, a fronte di questa crescita, le università riuscissero ad allontanarsi gradualmente dalla soglia del 90 per cento di spese per il personale rispetto al Fondo di finanziamento ordinario: un parametro minimale di sostenibilità che il legislatore ha indicato fin dal lontano 1997. Ebbene, è successo esattamente il contrario: più il Fondo di finanziamento ordinario statale cresceva, più cresceva l'incidenza degli stipendi su di esso. Oggi ben 36 università hanno sforato quel tetto al lordo dei correttivi prorogati di anno in anno e 7 università superano quel parametro anche tenendo conto degli stessi correttivi. In altre parole questo significa che non solo tutto il Fondo di finanziamento ordinario se ne va in stipendi, ma che anche una parte delle risorse proprie dell'ateneo - frutto della contribuzione studentesca, dei fondi di ricerca, dei contratti esterni - viene requisita per far fronte a tali spese. Potrei aggiungere altre cifre, che però certamente conoscete: la proliferazione delle sedi e dei corsi; l'aumento del numero di insegnamenti e di contratti di docenza; il numero abnorme di corsi di dottorato di ricerca, che in Italia contano in media 5,6 studenti per ciascun ciclo triennale, il che vuol dire meno di due studenti per anno, e sparsi dovunque, anche in sedi dove non è onestamente concepibile poter offrire formazione a livello dottorale. Non posso però fare a meno di aggiungere almeno un altro dato. Nel suo primo Documento di programmazione economico-finanziaria l'allora ministro del tesoro Padoa-Schioppa ebbe a scrivere parole lungimiranti: il sistema universitario non poteva aspettarsi nuove risorse, ma doveva imparare a spendere meglio quelle che già riceveva: parole che condivido in pieno. Era la primavera del 2006, tempi di vacche grasse, non di recessione. Eppure, per il terzo anno della programmazione triennale, il 2008, il Governo di allora aveva previsto una riduzione del Fondo di finanziamento ordinario di 260 milioni. Poi Padoa-Schioppa e l'allora ministro dell'università Mussi si accordarono per immettere nel sistema risorse fresche (si trattava di una cifra importante: 550 milioni per ciascun anno del triennio 2008-2009-2010), legate a specifici obiettivi di qualità. Tanto preoccupato era il Tesoro su come sarebbero stati spesi quei denari da imporre la firma congiunta al decreto annuale di ripartizione. Non aveva torto. Oggi la maggior parte di quel Fondo - ben 468 milioni su 550, vale a dire l'85 per cento della somma - è assorbita dalla crescita stipendiale automatica del personale universitario, cosicché per le misure volte a rafforzare la qualità sono rimaste appena le briciole. Dietro tutti questi fenomeni si annidano due pericolose mistificazioni: l'illusione, o per meglio dire la presunzione, che per le istituzioni accademiche la sostenibilità economica non sia un requisito necessario e la strana idea che il numero dei docenti e la loro distribuzione geografica e disciplinare debbano essere parametrati sulle aspirazioni dei docenti stessi o di chi aspira a diventarlo, non sulle effettive esigenze e possibilità del sistema nazionale. Non è così, e non può e non deve essere così. L'università è un servizio pubblico largamente finanziato dal contribuente, e al contribuente deve rendere conto delle proprie scelte. Anzi, la solidità finanziaria è garanzia primaria di indipendenza: chi ha bisogno di prestiti, di piani di rientro, di contributi eccezionali, di salvataggi in extremis, rischia inevitabilmente di contrarre obbligazioni che minano il bene più prezioso per un ateneo: la sua autonomia. Questa esplosione dei costi sarebbe in teoria anche accettabile - il che non vuol comunque dire sostenibile - se fosse stata accompagnata da un deciso e riconosciuto innalzamento della qualità media delle nostre università. Sono la prima a riconoscere, come dicevo, i meriti dei nostri atenei, che non sono pochi, ma sfido chiunque ad affermare che oggi le nostre università siano nettamente migliorate rispetto a dieci anni fa. Di fronte a questa situazione, onorevoli senatori, è necessaria un'assunzione di responsabilità collettiva: è quella che abbiamo oggi di fronte nel momento in cui dobbiamo esaminare e approvare questo disegno di legge. Il disegno di legge è indispensabile se vogliamo dare un contributo concreto ad un processo di risanamento di cui già si intravedevano i primi segni. Nei due anni che ci separano dalle linee guida, le nostre università non sono state ferme. Pur in un contesto non facile, hanno continuato a svolgere la loro insostituibile missione di insegnamento e di ricerca e soprattutto hanno avviato importanti azioni di riforma: hanno messo mano alla governance, accorpato i dipartimenti, eliminato corsi di laurea superflui, chiuso sedi decentrate insostenibili. Il Ministero, per parte sua, ha riunito molte scuole di specializzazione medica, al fine di raggiungere una massa critica soddisfacente, condizione essenziale di qualità. L'ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca) avrà dopo l'estate il suo primo consiglio direttivo. Il nuovo regolamento sui dottorati di ricerca sarà discusso in Consiglio dei ministri subito dopo l'esame e - mi auguro - l'approvazione della riforma. Sto per inviare al Consiglio universitario nazionale (CUN) e alla Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) per i pareri di competenza il cosiddetto decreto n. 160, che segnala l'esigenza di attivare corsi solo in presenza di un numero adeguato di docenti e di chiudere i corsi con troppo pochi studenti. Tutte queste misure di razionalizzazione - mi preme ribadirlo - non servono solo per evitare sprechi ingiustificabili, ma prima di tutto per ragioni di serietà accademica. Tutte le patologie gestionali ed economiche ampiamente note e lamentate corrispondono, infatti, ad altrettanti cedimenti sul piano della qualità scientifica e didattica, che abbiamo il dovere inderogabile di garantire ai nostri studenti. Ma al di là di ogni misura tecnica e amministrativa, dobbiamo essere consapevoli che solo una vera riforma del nostro sistema universitario può consentirci di raggiungere nuovi traguardi. Il vero rischio che corriamo oggi è di far pagare gli errori del passato a chi non ne ha colpa: ai ricercatori e agli associati che non hanno sfruttato le promozioni facili degli anni scorsi e si trovano oggi di fronte a piramidi rovesciate difficili da scalare; ai dottorandi e agli assegnisti che vorrebbero portare nel sistema le loro competenze e il loro entusiasmo e trovano l'ingresso sbarrato; agli studenti, i più danneggiati dallo scadimento della qualità di alcuni corsi. Questo è un rischio che non intendo correre, come - ne sono convinta - non lo vuole nessuno di voi. Per evitarlo dobbiamo proporre soluzioni realistiche e serie, non illusioni. Pensare che il Fondo di finanziamento ordinario e l'organico possano crescere senza fine, come se fossero variabili indipendenti, è insieme una follia e un inganno, a cui dobbiamo reagire mettendo al centro del nuovo sistema la valutazione del merito dei singoli, in un quadro di doverosa sostenibilità economica, rispetto alla quale - ripeto - il Governo ha assunto un impegno. Onorevoli senatori, abbiamo di fronte a noi tempi non facili e sfide complesse, ma possiamo farcela se ci impegniamo in un nuovo «Patto nazionale per l'università», che propongo a questa Assemblea. Per i docenti dobbiamo creare un sistema che non proceda a fughe in avanti nel reclutamento seguite da lunghe carestie, ma sappia dosare le sue risorse in modo da garantire possibilità di accesso e di crescita regolari nel tempo, con cadenze certe e prevedibili. Per gli studenti dobbiamo insistere sulla necessità di offrire corsi di livello elevato nei contenuti e nelle modalità di erogazione, anche scoraggiando l'inseguimento di lauree magari facili, ma deboli sul piano scientifico e inutili per trovare un lavoro. Per il Paese, soprattutto, dobbiamo costruire un'università che goda pienamente della fiducia di tutti, cui sia riconosciuto fino in fondo il suo ruolo - unico ed insostituibile - di luogo primario della ricerca e di motore dello sviluppo sociale, economico e tecnologico. Per tutti questi motivi, mi auguro che sia ancora possibile un accordo tra maggioranza ed opposizione su alcuni punti qualificanti: penso alla presenza di prestigiosi esponenti della società civile nei consigli di amministrazione; al ruolo centrale affidato ai dipartimenti; alla revisione delle norme su tempo pieno e definito; alla centralità della valutazione per allocare le risorse; all'accorpamento dei settori scientifico-disciplinari; all'abilitazione scientifica nazionale a numero aperto; alla distinzione tra reclutamento e promozione, accompagnata nel transitorio da norme specifiche per agevolare la chiamata dei ricercatori di ruolo; alla limitazione nell'uso dei contratti di insegnamento per evitare che diventino fonte di precariato; alla struttura stessa dei nuovi ricercatori (tenure track). Sono tutti temi importanti ed ineludibili, se crediamo veramente nelle grandi potenzialità del sistema universitario. Restano alcune differenze ma, francamente, non tali e non tante da far comprendere un atteggiamento ostile al disegno di legge nel suo complesso. Né mi sento di condividere una posizione negativa sul disegno di legge motivata esclusivamente o principalmente dalla mancanza di fondi. È vero e l'ho detto: i fondi sono e restano un problema che dobbiamo risolvere, ma questo significa forse che dobbiamo rinunciare a qualunque idea di riforma? Siccome non ci sono garanzie sui fondi è meglio tenere bloccato, anche a livello normativo, il reclutamento, continuando ad essere l'unico Paese al mondo in cui non esiste un modo per diventare professori di università? È meglio tenerci le mille forme di precariato non regolato che affliggono i nostri giovani? Rinunciare a nuove regole chiare e trasparenti sulla valutazione? Di risorse aggiuntive ne abbiamo avute in quantità nello scorso decennio, grazie a Governi di centrodestra e di centrosinistra: è sotto gli occhi di tutti che il loro impatto non è stato positivo perché non è stato accompagnato dalle riforme necessarie. Tuttavia vi chiedo: se le riforme non si fanno né quando le risorse aumentano né quando le risorse diminuiscono, allora, onorevoli senatori, quando si possono fare? Esiste in questo Paese un tempo per le riforme? La mia risposta è: oggi. Oggi abbiamo di fronte a noi un'occasione irripetibile ed è nostro dovere coglierla fino in fondo, senza tentennamenti! (M. Gelmini, dal discorso in Senato in occasione dell’approvazione della riforma universitaria il 29-07-2010) |