La possibile strategia di uscita dalla crisi presuppone, per il suo successo, la capacità di recuperare competitività nel nuovo assetto economico globale. Ciò significa essenzialmente innovazione, ricerca e tecnologia. L'idea che quest’obiettivo possa prescindere da forti investimenti nell'istruzione universitaria di alto livello è ingenuo. In Italia, la manovra di consolidamento del bilancio non ha toccato direttamente le università e la ricerca (a parte gli stipendi dei professori) e abbiamo sentito dichiarazioni di buone intenzioni in base alle quali se si creeranno spazi di spesa questa dovrà essere indirizzata verso il sistema scientifico. Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, il nodo del finanziamento del sistema universitario rimane con tutta evidenza aperto. Un’idea ci viene dalla Gran Bretagna dove è in discussione la proposta dei Liberal Democrats di istituire una graduate tax, vale a dire una tassa sui laureati, per contribuire al finanziamento delle università. La giustificazione è che chi usufruisce di un elevato livello d’istruzione dovrebbe contribuire maggiormente al suo costo. Naturalmente, questo obiettivo può essere facilmente perseguito attraverso un aumento delle tasse universitarie, che avrebbe come effetto non solo di assicurare un finanziamento aggiuntivo alle università, ma anche di aumentare la qualità dell'istruzione attraverso la concorrenza tra università. L'idea della tassa sui laureati rompe, invece, la relazione tra costo dell'istruzione e pagamento da parte degli studenti, perché, diversamente dal meccanismo del prestito d'onore che è rimborsato dopo la fine degli studi, la tassa sui laureati si basa sul reddito degli stessi e non termina una volta rimborsato il prestito. La logica è diversa e pone il problema del finanziamento dell'istruzione in una prospettiva potenzialmente nuova. Facciamo un esempio Immaginiamo che lo Stato finanzi un grande programma d’investimenti in università e centri di ricerca di eccellenza. Per semplicità assumiamo che chi entra in queste università, dopo adeguata selezione, non debba pagare nulla. Si tratta di un investimento pubblico in conoscenza e capitale umano, del tipo di quello che stanno attuando massicciamente in Cina e altri paesi emergenti e che è stato in passato alla base del miracolo coreano. Il problema che si pone è come lo stato, cioè la collettività, si possa appropriare, in una società libera, dei rendimenti dell'investimento e fondare su questi l'accumulazione progressiva di un patrimonio anche finanziario da utilizzare a fini di sostenibilità del sistema. L'idea è che chi entra in queste università, stipula un accordo societario *** con lo stato per un investimento congiunto, in cui lo studente apporta capitale umano iniziale e lo stato apporta capitale finanziario incorporato nel finanziamento delle università. Entrambi i contraenti si aspettano che i propri capitali siano remunerati e si accrescano grazie alla società costituita. I dividendi per la remunerazione dei due diversi capitali conferiti, derivano dai maggiori redditi personali ottenuti grazie all'aumento di capitale umano acquisito con l'istruzione. Allo stato dovrebbe essere pagata quindi, come remunerazione del capitale messo a disposizione, una tassa sui redditi personali di coloro che escono dalle università con il proprio capitale umano accresciuto. Una sorta di generalizzazione del meccanismo del prestito d'onore, ma con la cruciale differenza che la somma restituita è determinata dal grado di successo e di rendimento della conoscenza acquisita nel periodo di formazione, cioè dal successo della società di fatto costituita, e non limitata nel tempo. Lungo questa strada si potrebbe immaginare di porre le basi per fondazioni universitarie capaci di auto sostenersi e di fornire allo stato delle royalty sul giacimento di risorse di conoscenze accumulate nel tempo. (E. Felli e G. Tria, Il Foglio 13-08-2010)
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