La stesura definitiva del nuovo Codice della proprietà industriale non ha sanato la ferita aperta nel mondo accademico. Il brevetto resta di proprietà del ricercatore e non – come accade negli altri paesi – dell'ateneo presso cui lavora e con i cui strumenti è arrivato alla scoperta. Un modello unico nel suo genere e «a mio avviso sbagliato» chiarisce subito Giulio Ballio, rettore del Politecnico di Milano secondo cui il metodo usato in Italia «presenta anche qualche profilo d’illegittimità». Il rettore è categorico sul punto: «In effetti, si permette ai ricercatori di acquisire una proprietà privata, il brevetto, sfruttando però le strutture pubbliche universitarie o dei centri ricerche». A Milano si è però posto rimedio a queste incongruenze. «Da otto anni – chiarisce Ballio – abbiamo creato un servizio interno a supporto dei ricercatori, che li assiste nelle spese e nelle procedure per ottenere il copyright, nella commercializzazione e in eventuali contenziosi. Il ricercatore cede all'università il brevetto ma in cambio riscuote una royalty più alta di quella prevista nel precedente regime normativo». Un regolamento interno del genere è in vigore anche al Politecnico di Torino, dove negli ultimi dieci anni sono stati raggiunti importanti traguardi nell'attività brevettuale grazie alla sinergia tra università e ricercatori. «Il regolamento – spiega il rettore Francesco Profumo – prevede che l'ateneo si faccia carico del costo dell'application, spesso troppo onerosa per un ricercatore, e in cambio ottenga una partecipazione alla proprietà della scoperta». È sempre l'università che si occupa di proporre il brevetto alle aziende, garantendo al ricercatore un compenso. «Così avviene in molti Paesi – aggiunge Profumo – e questo metodo consente di incentivare il ricercatore ma allo stesso tempo cautelare l'università». Senza questi escamotage, però, la norma in vigore rischia di penalizzare ulteriormente la ricerca, che già non gode di ottima salute. Per le università non è conveniente investire in ricerca e strumenti senza poterne tranne benefici. Ma, allo stesso tempo, la scarsa capacità brevettuale riduce la quota del Fondo di finanziamento ordinario, facendo arrivare nelle casse dei rettori meno soldi. «Per il nostro ateneo – spiega Valeria Ruggiero, rettore facente funzioni dell'Università di Ferrara, ai vertici delle graduatorie nazionali per i brevetti depositati – la ricerca è una vocazione istituzionale. Ma lo è anche la volontà di tradurre i risultati delle ricerche in brevetti e quindi in prodotti. Non sempre l'università è preparata per mettere a frutto gli sforzi scientifici». «È chiaro, però – aggiunge – che poter brevettare direttamente, o doversi accontentare di una percentuale sui ritorni economici derivanti da un brevetto intestato ai singoli ricercatori, sono cose diverse. Ma la nostra università agisce sul presupposto che la ricerca è un lavoro collettivo destinato a realizzare un beneficio per tutto il territorio». Per questo all'interno della struttura accademica è stata istituita una commissione incaricata di valutare preliminarmente le invenzioni con le maggiori propensioni "economiche".
Deluso dal nuovo Codice della proprietà industriale anche il rettore dell'università delle Marche, Marco Pacetti. «Sono anni che i governi promettono di rimediare a questa stortura – spiega – e stavolta ero convinto che ce l'avremmo fatta, invece all'ultimo è arrivata questa "sorpresa". Non è pensabile continuare in questo modo, l'università dev'essere equiparata al settore privato, come avviene negli Stati Uniti, per esempio. Lì il ricercatore ha il riconoscimento morale per il brevetto, e oltre al suo stipendio riceve un premio economico dall'ateneo. Ma la proprietà della scoperta resta del "datore di lavoro", come è giusto che sia. Altrimenti gli atenei smetteranno di investire in ricerca». (M. Bellinazzo e F. Milano 20-08-2010)
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