Home 2010 02 Agosto Università. Un'idea su pensioni e ricerca
Università. Un'idea su pensioni e ricerca PDF Stampa E-mail

La proposta del Pd, fatta propria dal ministro Gelmini, di reperire risorse per le carriere dei giovani universitari mandando in pensione tutti i professori al compimento del sessantacinquesimo anno di età, come era inevitabile, ha innescato un conflitto generazionale nelle università. Come molti commentatori hanno osservato, però, la questione è resa assai delicata dal fatto che in essa sono in gioco due valori, entrambi importanti e entrambi degni di essere tutelati.

C’è, da un lato, la necessità di reperire risorse per consentire di fare carriera ai giovani meritevoli (e sottolineo meritevoli: ci sono anche giovani che non meritano affatto di farla ed è auspicabile che non la facciano). E c’è, dall’altro lato, la necessità di non impoverire di colpo l’università mandando a casa, insieme ai peggiori, anche i migliori fra i professori ordinari che abbiano compiuto 65 anni.

La via maestra, in realtà, dovrebbe essere quella indicata da Michele Salvati (Corriere, 23 luglio) e ribadita, con l’aggiunta di qualche suggerimento assai interessante, da Irene Tinagli (La Stampa, 24 luglio): mettere a pieno regime il sistema di valutazione e distribuire premi (meglio se consistenti) e punizioni (meglio se durissime) sulla base della qualità della produzione scientifica individuale. I mezzi ci sono. Basta solo avere la voglia (e la capacità politica) di attivarli. Il grande vantaggio sarebbe quello di poter reperire risorse da destinare ai meritevoli togliendole ai non meritevoli, quale che sia l’età di costoro. Per esempio, si potrebbe decidere di ridurre lo stipendio a tutti quei docenti (di 30 anni o di 65 non fa differenza) che abbiano alle spalle una produzione scientifica insufficiente. E sarebbe anche altamente educativo se si decidesse che chi non ha prodotto nulla, poniamo negli ultimi cinque o dieci anni, debba essere messo alla porta. A un sistema di premi e punizioni sulla base della produzione scientifica svolta occorre arrivare al più presto. Non c’è altro mezzo per ridare slancio, prestigio e forza all’università.

Ma, se capisco qualcosa di politica (il che, naturalmente, non è scontato), sembra che governo e opposizione siano in realtà, in questo momento, alla ricerca di una via rapida, immediata (più immediata di quella che si affida al sistema della valutazione) per placare ansie e potenziali ribellioni degli universitari più giovani. Come percorrere questa via più rapida, salvando capra e cavoli, salvaguardando entrambi i valori sopra indicati? Si può fare solo se ci si affida a norme transitorie, in attesa che il meccanismo dei premi e delle punizioni connesso al sistema della valutazione entri a pieno regime. Si potrebbe stabilire, ad esempio, che, per un certo periodo di tempo (cinque anni o più) vadano in pensione, al compimento del 65° anno di età, tutti quei professori che risultino privi di pubblicazioni scientifiche nei tre anni precedenti all’anno di promulgazione della norma transitoria (a meno che, nel suddetto triennio, non abbiano avuto compiti direttivi nell’ateneo di appartenenza).

Uscirebbero dall’università, liberando risorse da destinare ai più giovani, i docenti che non fanno più ricerca mentre resterebbero quelli che la fanno. Oppure la norma transitoria potrebbe ispirarsi alla proposta di Francesco Giavazzi (Corriere, 22 luglio) ma con un’integrazione che mi permetto qui di suggerire. Al compimento del sessantacinquesimo anno, come propone Giavazzi, tutti i professori perdono il diritto di entrare in commissioni di concorso e di detenere cariche direttive (presidenze di facoltà, direzioni di dipartimenti, corsi di laurea, cliniche universitarie, eccetera). Forse non si elimina del tutto ma certo si riduce grandemente il cosiddetto «potere accademico» di questi docenti. Per giunta (ed è l’integrazione che propongo), i professori che accettano di andarsene in pensione a 65 anni, ricevono un bonus economico e non sono penalizzati a fini pensionistici rispetto ai professori che scelgono di restare. I docenti interessati solo ad esercitare potere accademico sarebbero incentivati ad andarsene. Liberando posti da destinare ai più giovani. Resterebbero invece i professori ultrasessantacinquenni con la perdurante passione per l’insegnamento e la ricerca e, proprio per questo, capaci di dare ancora molto all’università. (A. Panebianco, Corsera 25-07-2010)