Home 2010 02 Agosto Pensioni dei docenti, piove sul bagnato
Pensioni dei docenti, piove sul bagnato PDF Stampa E-mail

La proposta del Partito democratico, che il governo sembra voler far propria, di abbassare l’età pensionabile per i docenti universitari da 70 a 65 anni dovrebbe favorire i giovani a spese dei vecchi. Non è così. Non solo mandare in pensione prima gli attuali sessantacinquenni è in controtendenza rispetto a tutte le riforme che favoriscono la partecipazione al mercato del lavoro degli anziani, non solo non fa risparmiare soldi alle casse pubbliche nel loro complesso, ma chi veramente pagherà il costo di questo cambiamento sono tutte le generazioni successive, inclusi gli attuali giovani ricercatori. Il motivo di questo paradosso è legato ai diversi regimi pensionistici che attualmente operano.

DUE SCENARI, ALCUNE STIME

Gli attuali sessantacinquenni sono per lo più coperti  dal vecchio regime retributivo. Per costoro, una volta raggiunti i 40 anni di contributi (compresi eventuali riscatti di anni della laurea etc.), la pensione rappresenta il 75-80 per cento dell’ultima retribuzione, indipendentemente dall’età di pensionamento. Ma i sessantacinquenni di un futuro ormai prossimo avranno una parte sempre più grande di pensione calcolata col metodo contributivo, e ogni anno in meno di contribuzione riceveranno una pensione sensibilmente più bassa.

Per chiarire gli effetti della proposta sulla generazione di mezzo, quella che per prima è soggetta per  intero al regime pensionistico previsto dalla legge Dini (con tutte le sue successive modifiche), abbiamo preso in considerazione un ipotetico giovane che nel 1995 (o in qualunque anno successivo) ha cominciato la carriera universitaria: per i primi dieci anni è ricercatore universitario, poi per dieci è professore associato e per i restanti anni è professore ordinario. Abbiamo ipotizzato che il giovane in questione cominci la sua carriera a 30 anni – è tipico della carriera universitaria cominciare dopo il dottorato di ricerca (in Italia o all’estero) e qualche anno di esperienze post-doc (borse, assegni di ricerca, e così via). Al nostro ipotetico giovane abbiamo applicato le retribuzioni in vigore nel 2010, ed abbiamo ignorato gli effetti della manovra economica, attualmente all’approvazione del parlamento, e discussa nel pezzo di Baldini e Caruso. Abbiamo considerato due scenari, un primo in cui la crescita dell’economia è dell’1,5 per cento annuo, un secondo in cui la crescita è dell’1 per cento annuo. I risultati con l’età di pensionamento a 70 anni sono in linea con le aspettative: il tasso di rimpiazzo, e cioè il rapporto fra la pensione percepita e l’ultima retribuzione, è compreso fra il 62 per cento (se l’economia cresce di più) e il 57 per cento (se l’economia cresce di meno). Il nostro giovane ricercatore ha già la sfortuna di appartenere ad una generazione in cui gli effetti della riforma Dini si sentono appieno.

GIOVANI OGGI. ANZIANI DOMANI

Abbassare l’età di pensionamento di cinque anni ha due effetti negativi per il giovane ricercatore: da un lato può contribuire solo 35 anni, dall’altro perde le retribuzioni più elevate previste per gli ultimi anni di carriera, per effetto dell’anzianità di servizio. In entrambi gli scenari considerati, la pensione percepita è di circa il 20 per cento più bassa rispetto al caso in cui si va in pensione a 70 anni. I tassi di rimpiazzo si riducono meno che in proporzione, perché l’ultima retribuzione è più bassa a 65 anni rispetto ai 70 anni: in un caso (crescita all’1,5 per cento) il tasso di rimpiazzo è del 53 per cento, nell’altro (crescita all’1 per cento) è del 49 per cento. Non è quindi corretto presentare la proposta di abbassare l’età pensionabile come una riforma a favore dei giovani: i giovani di oggi sono gli anziani di domani, e costringere tutti ad andare in pensione prima per allontanare gli anziani di oggi dal lavoro penalizza prevalentemente proprio i giovani. Non ci sembra che questa proposta sia la soluzione ai problemi dell’università italiana. Se lo scopo della proposta è quello di ridurre la gerontocrazia nell’università, è preferibile considerare altre ipotesi, che riducano il potere accademico degli ultra-sessantacinquenni (specie se improduttivi nella ricerca!), e che nello stesso tempo offrano più opportunità a chi nelle generazioni successive fa buona ricerca. (A. Brugiavini, G. Weber, Lavoce.info 27.07.2010)