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TRE GRANDI PROBLEMI DELL’UNIVERSITÀ IN UNA VISIONE RIFORMISTA NON CONVENZIONALE PDF Stampa E-mail

I tre grandi problemi da affrontare sono sostanzialmente legati alle modalità di funzionamento, all'organizzazione (il sacro Graal di qualsiasi problema in questo paese, ma sempre disatteso – non è un caso che gli esperti siano sempre giuristi o economisti, mai coloro che studiano come far funzionare le cose...) e dipendono da una autonomia incompleta e dalla voracità del centralismo ministeriale.
Il primo problema è la mancanza di una vera autonomia che implichi anche la responsabilità e la possibilità di fallire. Contrariamente a quanto dovrebbe far supporre l'approvazione della cosiddetta autonomia universitaria, la realtà è una quantità imbarazzante di regole e norme che vincolano le decisioni e che si traducono in un controllo ossessivo della forma, spesso senza nessuna valutazione del supposto beneficio.
Per esempio, per molto tempo alle università pubbliche è stato di fatto quasi impedito di investire in comunicazione esterna anche qualora avessero scelto di destinare a ciò risorse proprie e questo non è che uno dei mille lacci e lacciuoli che riportano ai ministeri romani. Un altro aspetto riguarda l'autonomia didattica nella configurazione dei percorsi formativi.
I nostri corsi di laurea devono rispondere a delle tabelle astratte che fanno riferimento a settori disciplinari presenti solo nel nostro paese con questa formalizzazione pubblica. Queste tabelle sono frutto di rapporti di forza negli organi ai tempi della loro redazione. Oggi sono "tabelle della legge" e creano vincoli irragionevoli all'innovazione didattica, il tutto soprattutto a causa del valore legale del titolo di studio, altro simulacro di cui fare volentieri a meno.
È infatti il valore legale che impone una uniformità tra percorsi che forza all'utilizzo di tabelle astratte, quanto meno per alcuni percorsi di formazione. Su questo primo punto non sarebbe difficile intervenire. Si potrebbe per esempio consentire alle università di decidere se vogliono o non rimanere nell'alveo del valore legale del tutto o solo su alcuni percorsi, per esempio quelli a forte vocazione internazionale.
Inoltre, andrebbe creata una vera autonomia con un budget vincolato solo ad obiettivi, questi sì tassativi e ben misurati. Probabilmente gioverebbe una trasformazione per esempio in Fondazioni per inserire i giusti correttivi rispetto alla concessione di autonomia. Forse, alcune università potrebbero essere gestite male e fallire, ma altre potrebbero finalmente definire piani strategici che non siano esercizi di stile come accade oggi.
Il secondo problema è il deficit di imprenditorialità delle università italiane che ha radici ancora una volta in una regolazione assurda di stampo centralistico. Oggi, di fatto, la variabilità delle strutture retributive di docenti e non docenti è limitatissima ed esistono in molti atenei tetti arbitrari a prescindere dal contributo. Non è possibile per esempio definire una retribuzione ad hoc per reclutare docenti particolarmente capaci anche all'estero o ricompensare chi sia in grado di attrarre fondi e opportunità o abbia voglia di lavorare davvero di più.
Questa ipocrisia tutta del sistema pubblico italiano non ha alcuna ragione di esistere in un settore che non ha solo il ruolo di custodire l'esistente ma di stimolare il nuovo e il cambiamento. E non si tratta di meritocrazia, altro vuoto simulacro che si agita sempre quando si parla di università. È il mercato, che non deve certo definire cosa studiare, ma nemmeno rimanere fuori dalla porta dell'università, quasi fosse una cosa disdicevole.
Il terzo problema è la scarsa attenzione all'innovazione nel funzionamento operativo dell'università. L'innovazione deve diventare uno dei temi se non il tema centrale dell'attenzione nel disegno dei percorsi didattici, per esempio, affiancando alle consuete tesi di laurea lo sviluppo di business plan su idee generate nell'alveo del percorso di studi.
(Fonte. L. Solari, huffingtonpost.it 15-05-19)