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L’IMPARZIALITÀ DEI RANKING. CLASSIFICHE DA MANEGGIARE CON CAUTELA PDF Stampa E-mail

Entrambi i ranking britannici, Times Higher Education (THE) e Quacquarelli-Symonds (Qs ranking) — due dei più noti sui 21 censiti dall'Ireg, associazione non-profit che vigila sulla qualità accademica — non passano il vaglio dell'imparzialità geografica: tendono a conferire a Oxford e Cambridge posizioni al top a danno delle rivali americane, Harvard in particolare. Un'accusa che nessuno ha mosso all'Arwu (Academic Ranking of World Universities), la decana delle classifiche nata nel 2003. Redatto da un organismo indipendente, il ranking di Shanghai rivendica di basarsi solo su indicatori «obiettivi»: dal numero di lavori pubblicati su riviste come «Science» e «Nature», all'indice di citazioni, fino ai premi Nobel ottenuti (anche da docenti che nel frattempo sono morti). Ma nemmeno questa scelta è neutra: gli indicatori bibliometrici funzionano per ingegneria e per le scienze naturali (anche se tendono a far pesare di più i lavori di medicina, grazie alla voluminosità di pubblicazioni firmate da tantissimi ricercatori) e trascurano le scienze umane. Se i ranking THE, Qs e Arwu restano, con pregi e difetti, i più consultati da studenti, il più quotato fra docenti e ricercatori è quello dell'università di Leiden in Olanda, che si basa solo sulla performance scientifica senza occuparsi della qualità della didattica. D'altronde la misurazione dell'impatto della ricerca è diventata per gli atenei una tale ossessione che lo stesso direttore del ranking Paul Wouters due anni fa ha pubblicato insieme ad altri ricercatori una specie di «manifesto» sui rischi della pervasività degli indici bibliometrici. (Fonte: G. Fregonara e O. Riva, CorSera La Lettura 25-03-18)