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LA CONDIZIONE DEL DOCENTE UNIVERSITARIO TRA DISCRIMINAZIONE, VALUTAZIONE E BUROCRATIZZAZIONE PDF Stampa E-mail

Il docente universitario ha pagato, da una condizione sia chiaro relativamente tranquilla (però generalmente conquistata legittimamente con investimenti, meriti, valutazioni e profusione di intelligenza critica), più di ogni altra categoria pubblica la crisi di questi anni. Agganciato da sempre nel trattamento ai magistrati per la comune natura di argine verso ogni rigurgito settario, corporativo, massificante, autoritario (più ancora che con le garanzie giurisdizionali, con la preservazione del libero pensiero), si è visto poi, per decisione politica e con l'avallo dei tribunali, di soppiatto sganciato da questo simbolico, ma non solo simbolico, collegamento. In più il docente universitario ha perso allo stato, probabilmente con un trattamento ingiustificatamente discriminatorio e, diciamolo chiaramente, quasi punitivo, gli scatti di carriera che, peraltro, sarebbero diventati triennali e non più biennali. Di fatto gli stipendi sono assolutamente fermi da molti anni, mentre quelli dei magistrati per esempio sono sbloccati, e questo vuole dire che in termini reali si sono ridotti in modo non impercettibile In più ancora c'è la precarizzazione della docenza universitaria, in particolare i ricercatori, e il pensionamento del 50% dei docenti universitari (2007-2013, se non erro) è avvenuto senza turn over, prima bloccato per anni, poi sbloccato in misura del tutto insufficiente. La docenza continua ad essere articolata, a differenza di molti paesi simili a noi, in ben tre fasce (ricercatore, associato, ordinario) ciascuna delle quali prevede la conferma triennale, con la conseguenza che la fascia più ambita si consegue spessissimo dopo il cinquant'anni (sei ordinari under 40 censiti nel 2015!), spesso dopo i sessanta, e talora mai; come peraltro inevitabile, ma non sempre, come dovrebbe avvenire, per carenza di ambizione o demeriti. Docenti e giovani hanno più di qualche ragione per essere scontenti e qualche volta frustrati o demotivati, mentre vengono bombardati di convocazioni per commissioni, mail con scadenze, schede da compilare di valutazioni e autovalutazione che tolgono tempo prezioso e, nella migliore tradizione italiana, non approdato a nulla o quasi. A tale proposito, si ha la sensazione che la cultura della valutazione di tipo anglosassone, apprezzabilmente introdotta, non ha forse raggiunto ancora quella soglia critica da lasciar intravedere i suoi grandi benefici, mentre se ne scorgono molti piccole e, qualche volta, grandi difetti. La ricerca italiana nonostante ciò, è bene ribadirlo, resta ad un livello decisamente alto per le pubblicazioni e a un livello discreto per i brevetti, e si colloca, anche se in mancanza di cambiamenti è verosimile che avvenga ancora per poco, nel gruppo di testa mondiale. Ciò rappresenta un miracolo nelle condizioni date e qui illustrate. Basti dire che i colleghi dei grandi paesi con i quali ci confrontiamo guadagnano, negli atenei pubblici, generalmente il doppio, se non il triplo. Il legislatore gode di discrezionalità politica, nei limiti della Costituzione, ma il modo in cui tratterà l'Università italiana darà l'indice della serietà con cui intende affrontare la questione del declino del paese, che va ben oltre il ciclo economico. (Fonte: M. Plutino, huffingtonpost.it 29-09-17)