Home 2010 20 Giugno Riformare l'università italiana - Pagina 2
Riformare l'università italiana - Pagina 2 PDF Stampa E-mail
Indice
Riformare l'università italiana
Pagina 2
Tutte le pagine

Seguendo l'esempio diffuso nei migliori sistemi universitari esteri, si propone di imporre per legge, oppure fortemente incentivare, la mobilità nelle fasi iniziali della carriera accademica, seguendo per esempio il modello USA che prevede cambio di sede universitaria per il dottorato di ricerca, per il contratto di post-doc, e per l'assunzione come assistant professor (cioè la prima posizione in prima approssimazione stabile nel personale universitario, approssimativamente corrispondente al ricercatore italiano). Ciò ridurrebbe fortemente il livello di inbreeding (formazione e carriera esclusivamente nello stesso Ateneo) che caratterizza in misura abnorme il sistema italiano, al pari di quelli dell'Europa meridionale. Diversi studi mostrano che livelli elevati di inbreeding riducono significativamente la produttività scientifica e favoriscono la creazione di strutture di potere piramidali, chiuse e gerontocratiche. Inoltre proprio l'assenza dei candidati locali nella selezione delle posizioni di dottorato, post-doc e ricercatore contrasterebbe efficacemente le distorsioni dovute a pratiche localistiche e nepotistiche, e favorirebbe una valutazione più equa e corrispondente al merito.  Infine, con salari significativamente più elevati di quelli attuali giovani motivati alla carriera accademica potrebbero affrontare adeguatamente i costi della mobilità.

È opportuno che il finanziamento alla ricerca venga gestito da una o meglio più Agenzie dedicate, salvaguardando le eventuali esperienze che già funzionano come l'INFN. Questa è la situazione comune ai paesi avanzati (es. DOE e NSF negli USA, ERC in Europa). Le Agenzie devono avere personale quanto più possibile disgiunto da chi chiede e riceve i fondi di ricerca, e devono avvalersi dei migliori esperti sia nazionali che internazionali per valutare i progetti presentati secondo gli standard della peer review. La valutazione comparativa dei progetti deve essere all'interno di discipline omogenee.

È essenziale che una parte significativa dei finanziamenti sia assegnata sulla base di progetti di singoli o pochi docenti di un unico Dipartimento, piuttosto che su progetti con collaborazione e responsabilità diffusa e difficilmente individuabile.  Una frazione (orientativamente il 20%) dei fondi assegnati deve andare ai Dipartimenti di appartenenza per spese amministrative e investimenti comuni (overhead): questo meccanismo comune e sperimentato nella ricerca internazionale (e con esempi anche in Italia) introduce importanti incentivi ai Dipartimenti a reclutare gli scienziati migliori.

I grandi progetti che necessitano di numeri elevati di collaboratori devono essere gestiti ed approvati o dai Dipartimenti o da Laboratori dedicati per quanto riguarda il merito scientifico, e poi devono essere presentati per l'approvazione del finanziamento alle Agenzie di finanziamento. Successivamente, le Agenzie dovranno valutare anche singolarmente i progetti di collaborazione presentati da singoli docenti o piccoli gruppi, Dipartimento per Dipartimento.

La valutazione deve influire sulla remunerazione del personale universitario in misura tale da incentivare la produttività scientifica e didattica e da usare le risorse disponibili per attrarre gli scienziati migliori. Si tratta di una materia delicata su cui l'Italia è poco preparata e che si presta ad abusi e distorsioni, tuttavia si tratta di un elemento indispensabile per migliorare l'accademia. Usando i risultati delle valutazioni, lo Stato dovrebbe imporre premi e penalizzazioni su tutte le remunerazioni, Dipartimento per Dipartimento, con incisività maggiore su quelle più elevate che statisticamente sono associate a maggiore potere e responsabilità.

I criteri di valutazione devono dipendere dai macrosettori. Il metodo è fondato sulla peer review da parte di persone esterne e di chiaro livello scientifico, con un sostanziale contributo di colleghi stranieri qualificati. Si potrebbe partire dai raggruppamenti disciplinari nei MACRO-SETTORI ESISTENTI, abolendo la divisione in settori scientifico-disciplinari, incoraggiando al contempo quegli scambi interdisciplinari che sono il motore dell'evoluzione della Scienza.

Area 01 - Scienze matematiche e informatiche

Area 02 - Scienze fisiche

Area 03 - Scienze chimiche

Area 04 - Scienze della terra

Area 05 - Scienze biologiche

Area 06 - Scienze mediche

Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 - Ingegneria civile e Architettura

Area 09 - Ingegneria industriale e dell'informazione

Area 10 - Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche

Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 - Scienze giuridiche

Area 13 - Scienze economiche e statistiche

Area 14 - Scienze politiche e sociali

La posizione di “ricercatore” nell'Università italiana è assolutamente abnorme. Per quanto riguarda il reclutamento futuro, si propone di trasformare la posizione di ricercatore in una posizione equivalente alla posizione di assistant professor con tenure-track del sistema universitario USA, con obblighi didattici corrispondenti nella fase iniziale di tenure-track e con conferma finale nella posizione di associato previa valutazione a cura del Dipartimento di appartenenza dei primi 5-6 anni. Quanto qui descritto si combina in maniera naturale e opportuna con il riequilibrio della remunerazione lungo la carriera accademica media, anche a parità di spesa complessiva integrata sulla carriera media.  Per quanto riguarda i ricercatori esistenti, è auspicabile prevedere una fase transitoria che possa permettere ai Dipartimenti di inquadrarli come docenti in seguito ad una valutazione comparabile a quella del percorso di tenure-track.

Di fatto non esiste valore legale del titolo di studio nelle procedure di reclutamento delle posizioni anche apicali del settore economico privato.  Il valore legale del titolo di studio di fatto è sostanzialmente un parametro prevalentemente solo formale valido ad ottenere inquadramenti e remunerazioni superiori nel settore statale pubblico. Come è risultato recentemente (convenzioni dell'Ateneo di Siena e Kore), l'esistenza di questo genere di valore legale induce abusi e degenerazioni senza assicurare vantaggi concreti allo Stato.  Proponiamo pertanto che venga abolito il valore legale del titolo di studio, così da rendere più concreto ed evidente che ciò che veramente conta (in tutto il mondo avanzato) e deve contare (in Italia) deve essere la reputazione dell'istituzione che rilascia il titolo nel fornire istruzione di qualità. In questa ottica non avrebbero spazio quelli istituti privati che offrono titoli accreditati dallo Stato senza alcuna verifica reale della qualità e appropriatezza della formazione fornita.

Appare opportuno prevedere che i fondi di ricerca possano contribuire ad alleviare i carichi didattici dei migliori docenti, fornendo risorse per sostituire la remunerazione associata al carico didattico corrispondente. Questo consentirebbe maggiore flessibilità per i dipartimenti e per i singoli docenti di ottimizzare i propri impegni di ricerca e di didattica nel corso della carriera e tra docenti diversi dello stesso Dipartimento, nella maniera più efficace in entrambi i settori. Meccanismi paragonabili esistono in alcuni dei migliori sistemi universitari stranieri. Specularmente, dovrebbe essere possibile assecondare la vocazione di quei docenti che ritengono di preferire un più esteso impegno didattico, riducendo od eliminando, ad esempio nella parte finale della carriera, il coinvolgimento nella ricerca. (A. Lusiani)

Per approfondimenti: http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/1351

 

1°COMMENTO

Penso che l'impostazione dell'articolo sia fortemente carente per la limitazione ai due  aspetti  sui quali andrebbe "incardinata" una riforma: in breve, i due cardini sarebbero la "valutazione" e l'"autonomia" didattica e scientifica dei dipartimenti. Vorrei osservare incidentalmente che la valutazione è l'attuale cavallo di battaglia dell'"establishment" universitario, rappresentato dalla CRUI, mentre l'autonomia è qualcosa che già esiste  in larga misura e senz'altro sufficiente a produrre danni, quali la proliferazione dei corsi, o la promozione indiscriminata dei candidati "locali". Danni da ascrivere non già alla autonomia in astratto, ma al contesto nel quale la stessa viene esercitata. La “valutazione”, sulla quale tanti ripongono una cieca speranza, è fortemente limitata da:i) “tempi di risposta” necessariamente lenti rispetto alle esigenze, tenendo conto che a loro volta ricerca e didattica non forniscono  risultati in tempo reale, e ii) valutatori che devono necessariamente essere scelti nel ristretto mondo al quale essi stessi appartengono. Per questo secondo punto ogni paragone con i paesi di cultura anglosassone è fuori luogo. Così come sperare che angeli stranieri ci vengano a salvare dai corrotti giudici “locali” è soltanto un sogno. Tutto questo non significa che non vada sviluppata una valutazione per quanto possibile seria e rigorosa: ma pensare che l’università possa di colpo cambiare a seguito della valutazione è pura utopia. Passo ora all’autonomia, che ha già fatto molti danni: questi sono il prodotto dell’autonomia incastonata in una “governance” la cui legittimità nasce dal consenso del personale che dovrebbe appunto governare. Chi è votato è portato a privilegiare gli interessi dei gruppi più forti del proprio elettorato, anche a danno dell’istituzione; non mi soffermo su questo punto, dato che è sufficiente rivolgere il pensiero alle università USA che hanno un tipo di governo del tutto diverso dalle nostre. Ed è qui la più urgente delle riforme (R. Nicoletti).

 

2° COMMENTO

Non mi meraviglio che Alberto Lusiani proponga l'abrogazione del valore legale della Laurea; non di meno so che gran parte degli intellettuali italiani sono contrari a questa proposta. Io, che intellettuale non sono, fino a qualche tempo fa mi sarei schierato con loro. Cerco di spiegare il motivo e di interpretare le loro ragioni (che erano le mie).

La laurea era (e in parte è) una delle poche misure di meritocrazia esistente in Italia; una misura parziale e certamente non adeguata a tutti gli scopi, ma pur sempre una misura. Ad es., la necessità nei concorsi pubblici di richiedere un titolo di studio per posizioni di livello più o meno elevato ha consentito un minimo (ma davvero minimo) di sbarramento nella selezione dei pubblici funzionari.

Per esperienza personale (per quello che possa valere una simile statistica) posso dire che tale filtro ha funzionato: la quasi totalità dei funzionari e quadri incapaci o fannulloni è costituita da quei dipendenti privi di laurea che hanno raggiunto tale posizione grazie a raccomandazioni e giochi sindacali possibili quando le promozioni verticali erano semi-automatiche e fortemente basate sull'anzianità. Ad oggi l'esplosione del fenomeno "Università telematica" con gli scandali che ne sono seguiti questo filtro è saltato. Ma non è questo che mi ha fatto cambiare idea.

E' stato più decisivo chiedersi quali fossero le reali ragioni di questo filtro e sul perché siamo solo noi italiani a volerlo; quando la risposta mi è stata chiara il cambio di schieramento è stato inevitabile. Il messaggio che vorrei fosse chiaro è che una simile abrogazione non può prescindere dall'introduzione di regole meritocratiche per la valutazione dei dipendenti pubblici; che insomma si sopperisca a quella che è l'unica ragione per cui oggi ci sembra indispensabile il valore legale della laurea: la mancanza di sanzioni e di controlli.

Mi rendo conto di chiedere troppo: in Italia quando ci si accorge che una regola viene aggirata troppo spesso anziché dare più potere ai giudici, forze dell'ordine, autority e quanti altri dovrebbero esercitare un controllo, si decide di complicare le procedure "affogandole di burocrazia". Col triplice effetto di dare una rinfrescata all'immagine del Governo che le propone, rendere più difficile la vita ai cittadini onesti e non risolvere il problema. (P. Casillo)