Home 2010 20 Giugno Riprogettare l’università: la parola agli atenei
Riprogettare l’università: la parola agli atenei PDF Stampa E-mail
Qual’è la posizione dei Rettori delle Università del Lazio sul DDl Gelmini? A questa domanda è stato dedicato il convegno del 13 maggio organizzato dalla Fondazione internazionale Nova Spes edalla Lumsa, con l’intento – evidenziato in apertura da Laura Paoletti, segretario generale della Fondazione – di esaminare tanto le criticità del ddl Gelmini, quanto le carenze dell’attuale sistema universitario italiano. Ai lavori – moderati da Paolo Blasi (Università di Firenze) e Gilberto Capano (Università di Bologna) – sono intervenuti i rettori Giuseppe Dalla Torre (Lumsa), Massimo Egidi (Luiss), Guido Fabiani (Roma Tre), Luigi Frati (Sapienza) e Vincenzo Lorenzelli (Campus Biomedico). A concludere, è intervenuta Valentina Aprea, Presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati.

Quali le criticità del sistema universitario attuale?
Governance? – La governance non è una delle questioni nevralgiche su cui un ddl di riforma dell’Università dovrebbe intervenire: questa la posizione radicale espressa da Luigi Frati, che ha visto concordi anche Guido Fabiani e Giuseppe Dalla Torre. Una legge non dovrebbe imporre a priori, e dunque in astratto, un modello di governo che può essere efficace per alcuni atenei e del tutto antifunzionale per altri. Ciascuna università dovrebbe poter scegliere come governarsi, sulla base delle proprie esigenze specifiche: un’università che si preoccupi soltanto della governance rischia di dimenticare, ha chiosato Lorenzelli, la sua finalità precipua, che è lo studente. Diverso il giudizio di Renato Lauro, che ha messo in evidenza la necessità di definire una cornice chiara, all’interno della quale le singole università possano muoversi. Lauro ha insistito sulla profonda trasformazione della funzione sociale dell’accademia, la quale non è più un enclave che produce cultura e di conseguenza non può più permettersi di ignorare le richieste provenienti dal mondo esterno.

Inadeguatezza dei sistemi di valutazione
Secondo Frati la vera rivoluzione del Ministro Gelmini, rispetto agli interventi degli ultimi trenta anni, è l’art. 2 della legge 1 del 2009, secondo il quale parte dei finanziamenti pubblici è erogata sulla base del merito. Questo principio, in sé assolutamente giusto, è tuttavia smentito nei fatti dalla scelta di indicatori profondamente inadeguati che sono ricavati sulle esigenze del tutto specifiche dei Politecnici e che penalizzano in modo iniquo università generaliste. Sulla scarsa affidabilità dei sistemi di valutazione, e sulla conseguente difficoltà di individuare e premiare il merito, è intervenuto anche Fabiani, che ha sottolineato le ripercussioni di questa difficoltà sul sistema di reclutamento. Frammentarietà dei processi di riforma, che invece necessitano, secondo Fabiani, di una progettazione sul lungo periodo per dare alle università modo di mettere in pratica processi virtuosi di apprendimento, altrimenti il rischio è solo di impantanarne l’attività con un proliferare di norme e di burocrazia.

Assenza di autonomia
Secondo Dalla Torre oggi l’università è complessivamente meno autonoma di quanto non fosse quarant’anni fa, basti guardare ai machiavellismi tipici delle riforme dei processi formativi intervenute negli ultimi anni; e questo è accaduto perché l’autonomia è stata intesa in modo riduttivo, cioè fondamentalmente finanziario, il che, in tempi di scarsità, non ha agito certo a vantaggio dell’università. Andando più in profondità è possibile rilevare un conflitto tra due modelli in contraddizione: quello “competitivo”, che favorisce la differenziazione tra le università e verso cui si muove l’insistenza sulla valutazione, e quello “programmatorio” che agisce in direzione contraria e che trova espressione, per esempio, nell’esperienza (fallimentare) dei coordinamenti regionali. Su questo punto è intervenuto in modo molto deciso Egidi, il quale ha ricordato che il legislatore si è trovato nella necessità di far fronte alla situazione d’emergenza provocata da un’interpretazione irresponsabile del percorso dell’autonomia cominciato con la riforma Berlinguer. La proliferazione incontrollata di sedi, corsi di laurea e insegnamenti (inutili sia sotto il profilo didattico che scientifico) sta progressivamente spingendo il sistema accademico italiano fuori dal mercato internazionale.

Mancata attenzione alla pluralità di esperienze del sistema italiano
– Riprendendo alcune osservazioni di Dalla Torre, Lorenzelli ha sostenuto che il ddl Gelmini conferma la tendenza tipicamente italiana a ridurre l’università al modello unico delle università statali. In realtà le esperienze sono molte e le differenze marcate: università statali e non statali, università generaliste e politecnici, università territoriali e non territoriali, università “reali” e “telematiche”, collegi universitari. Chi ne fa le spese sono gli studenti, per i quali, per esempio, sono fortemente penalizzanti norme difficilmente comprensibili come quelle che consentono a strutture private come i collegi di accedere ai fondi per l’edilizia universitaria, mentre negano questa possibilità alle università non statali.

Il ddl Gelmini: verso una responsabilizzazione delle università?
Lauro ha sottolineato che il ddl avvia senz’altro un processo di riforma, frenato però da alcuni elementi che scoraggiano la pur auspicata responsabilizzazione: in primo luogo il sistema di reclutamento misto che, prevedendo un’idoneità scientifica nazionale, impedisce di fatto ai singoli atenei di bandire i concorsi e scegliersi i propri docenti. In secondo luogo la persistenza di cariche elettive e non per nomina, che è in netto contrasto con il disegno complessivo di verticalizzazione che il ridisegno della governance vorrebbe mettere in atto. Infine va rilevato un atteggiamento complessivamente punitivo nei confronti dell’università che è il contrario esatto del meccanismo premiale che dovrebbe incentivare l’assunzione diretta di responsabilità: atteggiamento alimentato dal giudizio dei media e delle forze politiche, che prevede un taglio dei finanziamenti in netta controtendenza rispetto alla Francia (che ha stanziato 5 miliardi di euro per l’Università) e alla Germania (1,5 miliardi di euro). Su quest’ultimo punto è intervenuto anche Fabiani, che ha sottolineato la gravità della situazione creata dai drastici tagli ai finanziamenti. Perplessità nei confronti dell’idoneità nazionale sono state manifestate anche da Lorenzelli, secondo il quale il meccanismo di reclutamento non può limitarsi a valutare le competenze scientifiche, ma deve tener conto anche delle capacità pedagogiche e relazionali; e da Frati, che ha ricordato, tra le varie farraginosità dei meccanismi concorsuali, il numero elevatissimo di ricorsi contro la norma che limita il numero di pubblicazioni da presentare. Egidi, nel ribadire l’importanza di una seria riflessione sulle responsabilità e gli errori commessi in passato, ha osservato che finché il sistema è tale per cui la promozione interna costa meno di una chiamata esterna, l’incentivo ad un rinnovamento non ci sarà.

Ma i Rettori accettano il principio della valutazione?
Il problema, ha sostenuto Lorenzelli, è del tutto estraneo alle università non statali, che sono strutturalmente soggette alla valutazione da parte degli studenti, dal giudizio dei quali dipende la sussistenza stessa di questi atenei. Sulla stessa linea Dalla Torre, il quale ha aggiunto come l’equiparazione tra università, che la valutazione per definizione porta con sé, deve prevedere anche una garanzia di pari opportunità effettive. Non si possono, per esempio, imporre indiscriminatamente gli stessi requisiti minimi a tutte le università e ignorare il problema di ricollocazione del personale, che le università non statali si trovano a dover gestire nel caso in cui si trovino costrette a sopprimere un corso di laurea. Frati ha ribadito l’importanza di individuare parametri adeguati che garantiscano l’equità della valutazione. Non ha senso, per esempio, confrontare il bilancio di un ateneo come La Sapienza, sul quale gravano gli stipendi del personale del Policlinico, con quello di altre università che non si trovano a dover fronteggiare spese di questo genere. Così come non ha senso individuare parametri per la valutazione della ricerca – impact factor, numero di pubblicazioni per anno, etc. – che sono tarati esclusivamente sulla ricerca in campo scientifico. Un giurista o un filosofo possono lavorare anni alla pubblicazione di un trattato e risultare dunque inattivi (stando ai parametri correnti) per un periodo significativamente lungo. In questo modo la valutazione si rivela del tutto incapace di intercettare le eccellenze: a meno che l’intento non sia diverso, ma allora andrebbe esplicitato: chiudiamo le facoltà umanistiche. A questo proposito Blasi ha ricordato il meccanismo di valutazione delle università francesi, le quali negoziano direttamente con il governo un loro programma quinquennale, sulla base del quale alla fine vengono valutate. In questo modo non vi è il rischio di applicare parametri inadeguati, visto che in certo modo ogni università determina i propri.

È prevedibile una «regionalizzazione» delle Università?
Frati ha manifestato il suo scetticismo nei confronti di questa possibilità, perché sul piano culturale non esiste il pericolo che una grane università accetti di subordinarsi alle indicazioni di un governo regionale in cambio di finanziamenti. Dalla Torre ha ricordato che l’Università di Urbino è fallita proprio per il peso assunto dagli enti locali nel cda, che hanno indirizzato verso una politica di assunzioni scriteriata ed insostenibile. Meno drastico Fabiani, secondo il quale non è da escludere in linea di principio la possibilità che le regioni intervengano in maniera complementare allo Stato, sostenendo in particolare alcuni filoni di ricerca, anche se sarebbe molto grave se la definizione della didattica e della ricerca in senso generale risentissero di indirizzi politici. Secondo Capano questo tipo di posizioni rischiano di sottovalutare la portata del definanziamento: nel 2011 è prevista una riduzione di 1.000 miliardi ed in un simile contesto qualunque rettore può pensare di rivolgersi alla Regione. In alcune regioni del Nord (Lombardia e Veneto) già si avvertono movimenti in questo senso, mentre a Trento, pur considerando la specificità della situazione, è già prassi.

Sarebbe giusto un intervento governativo deciso a favore delle eccellenze?
Secondo Lorenzelli, oltre a prendere in considerazione l’eccellenza sarebbe necessario gettare uno sguardo sul suo opposto, rappresentato dalla “non-eccellenza”. Negli ultimi anni il sistema universitario italiano non lo ha fatto: si è insistito, per esempio, sul “3+2”, che era stato pensato come “3 e 2”, e ci si è messi in condizione di non rispondere alla domanda del mondo industriale che chiede «tecnici laureati». Egidi ha ricordato come l’idea di centrare la formazione superiore sull’eccellenza fosse esattamente quella di Napoleone, che aveva creato il sistema delle “grandi scuole”: un’idea che ha avuto sorti diverse in Europa negli ultimi duecento anni. Oggi i tre grandi Paesi continentali, Francia, Germania e Italia stanno prendendo strade diverse. Ad esempio, in Francia la tendenza sembra quella di dare fondi per incentivare le università ad accorparsi, piuttosto che a svolgere lavori di alta qualità scientifica. Il punto è che bisogna agire tenendo conto dell’esistente, consentendo a ciascuna università di preparare progetti – anche di alta qualità – sulla base dei quali ricevere finanziamenti. È in ogni caso da valutare l’opportunità di consentire leggeri incrementi delle tasse universitarie. Secondo Fabiani, se il governo dovesse indicare delle scelte strategiche di sviluppo sul lungo periodo, sarebbe giusto valutare la risposta da parte delle Università in modo differenziato per aree strategiche: valutando le università nel loro complesso, si finirebbe per favorire sistematicamente i politecnici a discapito delle università generaliste. Frati ha osservato che in realtà il processo è già in atto: il nostro sistema sta procedendo verso un modello competitivo basato sulla valutazione. Si deve prendere atto, però, del fatto che ci si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Europea, che eroga invece finanziamenti a chi si trova più in difficoltà.

Il ddl c’è: e i Rettori che faranno?
Quali interventi chiedono alla politica? Frati ha avanzato tre proposte: a) soffermarsi più sui principi e meno sulle norme di dettaglio, che imbrigliano l’operato delle Università; b) chiarire il meccanismo della valutazione, fissandone bene i principi; c) chiarire se l’opzione di fondo è per la competizione tra università o per la programmazione. Dalla Torre e Lorenzelli, ribadita l’opportunità di una maggiore flessibilità (soprattutto relativamente al personale docente), hanno sottolineato la necessità di valorizzare il contributo di primissimo livello delle università non statali, le quali applicano già – e con un risultato molto positivo –alcune delle indicazioni previste dal ddl (per esempio la distinzione di funzioni tra CdA e Senato Accademico). In particolare è necessario definire con più chiarezza i meccanismi di incentivazione del sostegno da parte dei privati. Egidi ha valutato in termini complessivamente positivi l’impianto della legge, che appare recepire – soprattutto per quel che attiene alla governance – alcune indicazioni positive che vengono dal privato. L’aspetto più delicato è quello del reclutamento – ruolo dei ricercatori, tenure track e idoneità – che rischia di creare delle aspettative cui il sistema universitario non è in grado di rispondere. Anche Fabiani, esprimendo un giudizio complessivamente positivo sul ddl, ha rilevato la necessità di ammorbidire alcuni eccessi in senso dirigistico, ma soprattutto di sostenere il progetto di riforma con un piano di investimento adeguato.

La risposta dell’interlocutore politico
Il convegno è stato concluso dall’on. Aprea, che ha precisato come sin dal periodo in cui era Ministro Letizia Moratti (2001) vi sia stato il tentativo portare all’attenzione la questione della valutazione: il fatto che non si sia potuto procedere con la rapidità auspicata è il segno evidente delle forti resistenze che una cultura della valutazione continua tuttora ad incontrare. Sulla questione del definanziamento, Aprea non ha negato la gravità della situazione, proponendo tuttavia la seguente riflessione: vincolare l’approvazione del progetto di riforma (da più parti giudicato positivamente) all’incremento dei finanziamenti significa, stante la situazione, perdere sia la riforma che i finanziamenti. Per contro, l’approvazione del ddl, magari prima dell’inizio del prossimo anno accademico, rappresenterebbe un forte segnale di discontinuità e rafforzerebbe la posizione del Ministro nella richiesta di stanziamenti maggiori. A questo proposito, è necessario abbandonare prese di posizione e categorie politiche valide nel secolo scorso e rese drammaticamente inadeguate dalla situazione attuale. In conclusione, Aprea ha toccato alcune delle questioni più rilevanti emerse nel corso dei lavori: l’opportunità di salvaguardare la grande tradizione umanistica dell’università italiana, tentando tuttavia di comprendere perché certi corsi di studio abbiano perso appeal in favore di altri (scienze della comunicazione), e di rispondere alla carenza dei laureati nei settori scientifici rispetto alla domanda proveniente dal mondo del lavoro; l’attuazione sbagliata del processo di Bologna, interpretato esclusivamente con l’ottica di aumentare il numero di laureati; l’opportunità di assumere le università private come modello di riferimento; l’opportunità di coinvolgere soggetti locali nel finanziamento del sistema universitario. (www.novaspes.org e-mail:nova.spes@tiscali.it)