Il tam tam è partito in primavera, dal Politecnico di Torino: a settembre, l’anno accademico si aprirà con un inaudito sciopero degli esami. Le motivazioni possono sembrare nebulose, persino corporative, a chi lavorerebbe anche nelle miniere di sale, se fossero banditi appositi concorsi: recuperare anni di contributi perduti, dopo un blocco degli stipendi che dura da una vita. Ma è chiaro che si tratta solo del casus belli che potrebbe far scoppiare i Vespri siciliani, il Tumulto dei Ciompi, la Congiura dei Pazzi. L’accademia in rivolta, decimata dai tagli ai finanziamenti, dai pensionamenti e dal palese disprezzo dei politici, reclama che si torni a finanziare la ricerca, che si assumano i giovani, che si riveda tutto il carrozzone della valutazione. La valutazione, già. Ricordo un’intervista a Edoardo Sanguineti, antidiluviana visto che non la ritrovo sul web, in cui il grande poeta e accademico comunista proponeva di burocratizzare la cultura. Non l’avesse mai detto. Fabio Mussi, ministro dell’Università nell’ultimo governo Prodi, lo prese in parola e s’inventò l’Anvur, Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca. «Un moloch che costa una fortuna allo Stato» e che «controlla tutto, interviene su tutto, ha potere di vita e di morte su corsi di studio, dipartimenti, dottorati»: scrive Walter Lapini, ordinario di Letteratura greca, sul «Secolo XIX» di mercoledì scorso. È così: dimentica solo lo ius primae noctis. Constatato che ogni riforma dell’università pubblica ne ha smontato un pezzo, il collega conclude che, invece di pensare all’ennesima riforma della riforma, si dovrebbe avere il coraggio di «un’onesta marcia indietro». M poi confesso che mi è difficile persino immaginarla l’università di prima da cui ricominciare. Ricordo a malapena Consigli di facoltà che finivano all’alba, concorsi che duravano decenni. Lapini trascura che abolire le riforme, e anche l’Anvur, sarebbe solo l’ennesima riforma. Oggi possiamo solo cambiare questa università pubblica, prima che muoia. Lotta dura senza paura, dunque. Ma che il grido di battaglia non sia solo «arridatece li sordi», bensì, anzitutto, «sburocratizziamo la cultura». (Fonte: M. Barberis, Il Mulino 31-07-17)
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