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FRA I 30 E I 34 ANNI SOLO 26 PERSONE SU 100 SONO LAUREATE PDF Stampa E-mail

Gli obiettivi europei in tema di istruzione riguardano due indicatori. Il primo è la percentuale di laureati sulla popolazione di 30-34 anni di età. L’obiettivo al 2020 per l’Europa nel suo complesso è stato fissato al 40% ed è stato quasi raggiunto (39,1%). L’Italia ha un obiettivo fissato al 26%, quindi molto inferiore a quello europeo. E lo ha già raggiunto: i laureati sono il 26,2% della popolazione. Peccato che non ci sia molto da festeggiare. Solo la Romania con il 25,6% di laureati ha un risultato peggiore del nostro. Siamo ben lontani dai paesi con i migliori risultati: Lituania (58.7%), Irlanda (52.9%) e Svezia (51.0%). Ma siamo ben lontani anche dai nostri vicini francesi (43,6%), dalla Spagna (40,1%) e dalla Germania (33,2%).
Per capire come mai nella fondamentale fascia demografica fra i 30 e i 34 anni solo 26 persone su 100 siano laureate (secondo il rapporto Eurostat, che fa riferimento agli standard dell’International Standard Classification of Education dell’Unesco, si comprendono sia le lauree triennali che quelle magistrali) c’è dunque da comprendere il valore culturale e occupazionale dei titoli. Che è buono ma non travolgente né decisivo: in Italia solo il 53% di chi possiede una laurea riesce a trovare un’occupazione trascorsi tre anni dalla discussione della tesi. Gli altri, pur dottori, annaspano. Il punto di partenza è questo. Il fatto per cui sfioriamo la maglia nera continentale col 26,2% di laureati in quella forchetta, seguiti dalla sola Romania al 25,6% (siamo nell’ambito dell’errore statistico, quindi ci sono buone probabilità che la situazione complessiva sia la medesima) passa dal valore dei titoli di studio sul mercato del lavoro. Più questi servono a trovare un lavoro affine a passioni e percorso più aumenterà la propensione a iscriversi, non abbandonare e laurearsi nei tempi. Più divengono inutili, delegittimati, scarsamente accompagnati da una pratica parallela (e non successiva, come succede per esempio ai laureati in legge che magari scoprono di non voler fare gli avvocati) più quella percentuale è destinata a crescere con lentezza.
E no, non è la vecchia storia di scienze della comunicazione (ormai tutte le lauree soffrono e ho perfino l’impressione che il campo della comunicazione sia uno di quelli che si difendono meglio) ma dell’Italia in cui “la laurea a 28 anni con 110 e lode non serve a niente” e del calcetto – cioè delle relazioni personali – come mezzo di reclutamento del personale. Valutazioni forse perfino comprensibili nel loro messaggio di fondo, ma che non hanno senso nella bocca di ministri e di pubblici amministratori, che proprio quei fenomeni dovrebbero cercare di contrastare. Con le riforme giuste e magari, tanto per dirne una, facendo funzionare i centri di collocamento che in Italia danno lavoro solo a chi ci lavora dentro. (Fonte: Wired 27-04-17)