La missione di SAR (Scholars at Risk) è proteggere docenti, ricercatori e altri membri delle comunità accademiche; e coltivare la cultura dei valori dell’università, il rispetto per la libertà accademica, l’autonomia istituzionale e la responsabilità sociale. La rete opera per proteggere, all’interno delle società e delle comunità, spazi di pensiero e riflessione, perché la conoscenza si sviluppi liberamente e senza paura. In tempi d’instabilità politica, quando milioni di persone rischiano la vita per fuggire dall’oppressione, è bene ricordare che fra questi ci sono molti studiosi e studenti. Al tempo stesso, vediamo crescere nel mondo le pressioni esercitate sulle università e le istituzioni di alta formazione. Questo non dovrebbe meravigliare: le università sono sempre state obiettivo privilegiato di governi oppressivi, regimi militari, colpi di stato e fazioni politiche. Le università dovrebbero essere luoghi dedicati al confronto fra pensieri e prospettive diverse, luoghi in cui si pongono domande e si definiscono i contorni del futuro. Per questo esse vengono viste con ostilità da parte di coloro che non amano si facciano domande; quanti temono la contingenza degli eventi futuri, e preferiscono la certezza della forza bruta. Nel contesto attuale, appare evidente e grande la necessità del lavoro di associazioni quali Scholars at Risk. Dalla sua fondazione, nel 2000, più di 900 accademici hanno trovato, grazie a questa rete, accoglienza, riparo e la libertà di proseguire le loro attività educative e di ricerca. Oltre 3000 studiosi e studiose hanno potuto giovarsi del sostegno e dell’appoggio di Scholars at Risk. Ogni anno cresce il numero di quanti si rivolgono alla rete in cerca di sostegno. Quest’anno abbiamo ricevuto quasi il doppio delle domande di aiuto, rispetto allo scorso anno; e abbiamo accompagnato e fornito consulenza al più grande numero di docenti dalla nostra fondazione. Anche se la rete di Scholars at Risk è cresciuta in ampiezza e capacità di intervento – oggi sono 460 le università che ne fanno parte, in 35 paesi del mondo – dobbiamo fare di più. L’autore dell’articolo segnala anche una serie di situazioni gravi che si possono leggere qui. (Fonte: S. O’Gorman, IlBo 02-05-17)
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