Home
SULL'UNIVERSITÀ ITALIANA SONO STATE SGANCIATE TRE BOMBE A EFFETTO RITARDATO NEGLI ULTIMI DUE DECENNI PDF Stampa E-mail

R. Simone prende spunto da un commento al libro di Federico Bertoni (“Universitaly. La cultura in scatola”) per allargare il discorso al processo di trasformazione dell’università. Le tre bombe del titolo sono, secondo Simone, la riforma Berlinguer del 2000 che introdusse la struttura didattica denominata 3+2, il cocciuto proposito del ministro Giulio Tremonti (professore anche lui, sebbene solo come secondo lavoro) di ridurre gli organici e prosciugare i finanziamenti, e, ciliegina sulla torta, la riforma del 2010 che porta il nome dell'ex ministro Maria Stella Gelmini. La prima riforma destrutturò l'organizzazione didattica col pretesto di renderla europea; il piano Tremonti la impoverì restringendo il ricambio di personale e i finanziamenti; la terza bloccò per anni il reclutamento, produsse un terremoto strutturale del tutto insensato. Rilasciandosi negli anni, gli effetti combinati delle tre bombe hanno prodotto la situazione attuale. Non solo sono cambiate le condizioni materiali; è cambiata anche, in silenzio, l'etologia dell'università, a cominciare dalla terminologia. I programmi di studio si chiamano offerta formativa; le parti sociali portano nei consigli di amministrazione la domanda del mondo del lavoro; il progresso degli studenti si calcola in crediti e debiti; quel che esce dalla testa dei docenti (pubblicazioni, brevetti, progetti, ecc.) si chiama prodotti della ricerca; ogni docente (selezionato attraverso l'inenarrabile Abilitazione Scientifica Nazionale, Asn) è sottoposto a cervellotiche Valutazioni della Qualità della Ricerca (Vqr) che gli assegnano un voto che si porta appresso per la vita; le università elaborano periodici piani strategici; i risultati dei ragazzi vengono confrontati con benchmark; i dipartimenti compilano periodicamente la Scheda Unica della Ricerca (Sua); i posti di docenza si calcolano a punti organico (1 per gli ordinari, 0,70 per gli associati, ecc.); negli atenei si creano Presidi di Qualità; le strutture che si progettano (dottorati, corsi, master...) devono avere l'accreditamento passando per l'Ava (Auto-valutazione, Valutazione, Accreditamento). Giuro che i termini e le sigle strampalate, che ricordano le pianificazioni quinquennali sovietiche e cinesi, sono autentici e quasi tutti fantasiosi parti dell'Anvur, il dispotico organo di valutazione ("di diretta nomina politica"), indifferente alle incessanti critiche che suscita. Sono cambiate le egemonie: al ministero, dove una volta i guai li facevano i pedagogisti, ora sono arrivati gli economisti che hanno un master negli Usa. La mestizia si aggrava se si pensa che a ognuna di quelle sigle e denominazioni corrispondano caterve di riunioni, documenti, circolari, moduli elettronici, discussioni, difese corporative... Insomma una montagna di tempo perso, che aumenta il carico burocratico della vita universitaria e ne distorce gli scopi. A ciò si aggiungono alcuni tormentoni ossessivi: l'internazionalizzazione, l'attrattiva, la digitalizzazione, l’e-learning... Tra questi, istanze serie si mischiano inesorabilmente con le tante bufale alla moda e le seduzioni di quel temibile complesso che io chiamo blocco educativo-computazionale, formato da aziende e agenzie multinazionali che hanno scoperto l'education (si dice così!) e intendono farci affari giganteschi.
(Fonte: R. Simone, Il Fatto Quotidiano 06-06-16)