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DOTTORI DI RICERCA E “FUGA DEI CERVELLI” PDF Stampa E-mail

L'Italia ha una percentuale di dottorandi stranieri che è inferiore non solo alla media, ma alla metà della media OCSE: su 100 dottorandi che studiano in Italia, poco più di uno su dieci (11,3%) viene dall'estero. La media OCSE è di quasi uno su quattro. Non solo in Paesi avvantaggiati sul piano linguistico come il Regno Unito, ma anche in Francia, Paesi Bassi, Svizzera, Belgio, proviene dall'estero almeno un dottorando straniero su tre, in certi casi addirittura uno su due. La quota di stranieri impegnati in un dottorato è superiore alla nostra anche in Austria e Spagna (rispettivamente 23% e 17%). Se si mira al rientro di ricercatori italiani all'estero, occorre tener presente che in molti casi non è solo la disponibilità di un posto di lavoro a convincerli a partire o tornare ma la differenza nelle condizioni di lavoro. Una burocrazia più snella, un'organizzazione del lavoro più rispondente alle esigenze di ricerca, perfino aspetti pratici quali la disponibilità di asili nido possono fare la differenza nel lavoro quotidiano di ricerca. Senza trascurare il problema centrale delle risorse. Il nuovo Piano Nazionale della Ricerca, più volte annunciato e continuamente rinviato, pare dalle bozze orientato a ricalcare priorità e temi decisi in sede europea. I fondi disponibili su base competitiva sono ormai ridotti al minimo: l'ultimo bando per progetti di ricerca di interesse nazionale è del 2012. Dunque il nostro problema non è tanto — o non solo — l'emorragia di risorse umane nell'alta formazione che prelude alla ricerca, ma la difficoltà di compensare i flussi in uscita con significativi flussi in entrata. Nessuno nega naturalmente che l'esperienza fatta all'estero da ricercatori italiani possa essere rilevante e stimolante per le nostre istituzioni. Ma in simili condizioni, pur con tutte le migliori intenzioni, puntare sul rientro in Italia di "cervelli in fuga" sarebbe come se una scuderia automobilistica si desse da fare per reclutare i migliori piloti internazionali, raccomandandogli poi sottovoce di portarsi la macchina e la benzina da casa. Un dato meno noto di altri ma fondamentale per comprendere la specificità italiana, e che forse più drammaticamente fotografa l'attuale situazione delle risorse umane nell'ambito della ricerca, è quello legato all'età. Le università italiane hanno, infatti, in assoluto il personale docente più vecchio di tutta Europa. Solo il 16% dei nostri docenti ha, infatti, meno di quarant'anni. In Germania resta sotto i quarant'anni oltre la metà (54%); in Irlanda il 38%; perfino in Austria e in Portogallo la presenza di nuove generazioni di docenti è più che doppia rispetto a quella italiana. Quindi il tema non è tanto la "fuga dei cervelli" o il rientro di illustri connazionali quanto la più generale difficoltà di rinnovare il personale di ricerca. (Fonte: M. Bucchi, La Repubblica 20-10-15)