Home 2015 18 maggio IN EVIDENZA HA UN FUTURO L’UNIVERSITÀ?
HA UN FUTURO L’UNIVERSITÀ? PDF Stampa E-mail

A. Figà Talamanca, relazione al XV° Congresso Nazionale U.S.P.U.R., Roma 22-05-2015

Non è facile parlare di università del futuro, quando il governo dopo aver tagliato radicalmente le risorse ha sostanzialmente annullato i vincoli che fino a ieri non consentivano di offrire corsi di studio senza disporre di personale docente di ruolo. Tolti questi vincoli si potrà fingere di mantenere invariata un’offerta didattica a livello universitario anche con un’ulteriore forte diminuzione delle risorse.
Se dovessimo raccogliere i segnali che ci sono in tal modo inviati dovremmo ipotizzare un futuro in cui l’insegnamento universitario è affidato quasi totalmente a personale precario mal pagato, reclutato semestre per semestre senza una seria selezione e senza alcuna possibilità di attingere al mercato internazionale dei ricercatori. Dovremmo dire in questo caso che l’università italiana semplicemente non ha futuro come tale.
Voglio invece ipotizzare che i vincoli di qualità sull’offerta dei corsi siano ristabiliti e che sia pure gradatamente si torni a un finanziamento adeguato del sistema universitario.
Con queste premesse vorrei prendere in esame i pro e i contro di una questione ampiamente dibattuta da oltre cinquanta anni, la questione cioè della possibilità o opportunità di trasformare il nostro sistema di istruzione superiore in un sistema “dualista”1 in cui coesistano, assieme alle tradizionali università “sede primaria della ricerca scientifica” anche università o istituzioni parauniversitarie, la cui missione sia l’insegnamento superiore, ma non necessariamente la ricerca scientifica.

Il futuro dipende dal passato
Cominciamo con una rivisitazione del passato. Nel secolo scorso l’università italiana si presentava come un sistema di istruzione terziaria che prevedeva un’unica istituzione (l’università), che rilasciava un unico diploma (la laurea)2.
Nei principali paesi sviluppati erano previsti invece (almeno) tre gradi accademici, (Bachelor’s degree, Master’s degree, e Doctor’s degree, nella terminologia anglosassone) ed era previsto che l’istruzione terziaria fosse impartita da istituzioni con vocazioni e funzioni diverse. Alcune di queste istituzioni (talvolta la maggioranza) non pretendevano di conferire i gradi accademici più alti, né di essere “sede primaria dell’attività di ricerca”.
La singolarità del sistema italiano di istruzione terziaria non era casuale. Era invece il frutto di precise scelte politiche che risalivano agli anni sessanta ed ai primi anni settanta.
E infatti già nel 1963 la cosiddetta Commissione Ermini3 aveva proposto l’istituzione del dottorato di ricerca conseguibile dopo la laurea e del diploma universitario conseguibile prima della laurea. Vale la pena di trascrivere le motivazioni della Commissione:
“La prima e più importante riforma di struttura dovrà riferirsi al fatto che l'attuale formazione universitaria non è sufficientemente articolata per rispondere alle molteplici esigenze alle quali dovrebbe soddisfare. Se ci riferiamo, come esempio, alla Facoltà di Ingegneria, è bensì vero che sembra opportuno poter disporre al 1975 di un numero di ingegneri da 3 volte a 5 volte maggiore dell'attuale, ma le reali esigenze del mondo della produzione mostrano chiaramente come dai 2/3 ai 3/4 di questi ingegneri dovrebbero avere una preparazione di carattere assai più pratico e applicativo di quella fornita oggi, e orientata alla soluzione di problemi meramente tecnologici. Non si ravvisa la necessità per tali ingegneri di quella approfondita preparazione scientifica che attualmente si impartisce a tutti, che deve essere, viceversa, riservata a quella ben più esigua frazione che dovrà affrontare problemi di calcolo e di progetto; mentre una frazione ancor minore dovrà essere formata con particolare cura per sopperire al fabbisogno di docenti e di ricercatori. Esigenze di questo tipo si ritrovano, più o meno, in tutte le professioni, e pertanto appare essenziale differenziare in generale la formazione universitaria, a seconda che essa debba essere indirizzata a scopi strettamente professionali, a scopi professionali con fondamento scientifico, ovvero, infine, a scopo strettamente scientifico.
L’ultima frase
...appare essenziale differenziare in generale la formazione universitaria, a seconda che essa debba essere indirizzata a scopi strettamente professionali, a scopi professionali con fondamento scientifico, ovvero, infine, a scopo strettamente scientifico.”
a distanza di oltre mezzo secolo, mantiene una sua attualità.
La stessa Commissione Ermini proponeva anche la creazione dei cosiddetti “Istituti Aggregati”, cioè di istituzioni parauniversitarie che avrebbero rilasciato i “diplomi universitari”, ma non la laurea né il dottorato di ricerca. Si trattava, in qualche modo, di una conseguenza necessaria della previsione di un’istruzione “indirizzata a scopi strettamente professionali”. Un’istruzione così indirizzata avrebbe dovuto, infatti, di regola, fin dai primi anni, distinguersi da un’istruzione “a scopi professionali con fondamento scientifico”, o “a scopo strettamente scientifico”.
Le proposte della Commissione Ermini furono decisamente rifiutate dal Parlamento, ed anzi da tutti i partiti, che si allinearono sulla tesi, avanzata prima di tutto dal “movimento studentesco”, che bollava queste proposte come un tentativo di disegnare il sistema di istruzione in modo “gerarchico” allo scopo di ostacolare il ricambio sociale. Gli “Istituti Aggregati” furono i primi ad essere rifiutati e a cadere. Essi non solo furono denunciati come uno strumento per selezionare gli studenti ed ostacolare l’ascesa sociale dei ceti meno abbienti, ma, più concretamente, essi furono attaccati con motivazioni corporative da parte del personale insegnante (assistenti, professori incaricati) che non occupava la posizione di professore di ruolo, e che contava sulle prospettive di carriera offerte da un’espansione indiscriminata del sistema universitario.
Ma anche il rifiuto del diploma universitario e del dottorato fu una precisa scelta politica. L’argomento che risultò vittorioso nel dibattito degli anni sessanta fu che la diversificazione, non solo delle istituzioni, ma anche semplicemente dei gradi accademici era un tentativo della “bieca reazione in agguato” di impedire l’ascesa sociale dei ceti meno privilegiati.
Passarono quasi venti anni prima dell’istituzione del dottorato che fu “sdoganato” da un autorevole intellettuale di sinistra, il professor Alberto Asor Rosa. Fu, infatti, Asor Rosa, che, come parlamentare comunista, propose di inserire la previsione del dottorato di ricerca nella Legge 28 del 1980. Passarono tuttavia altri dieci anni prima che il dottorato di ricerca italiano cominciasse a funzionare regolarmente come percorso didattico e di ricerca, con le iscrizioni aperte ogni anno più o meno alla stessa data.
Pure nel 1990 ci fu un primo tentativo, dovuto al Ministro dell’Università Antonio Ruberti, di far partire un “diploma universitario” distinto dalla laurea e di durata inferiore (due o tre anni). Questo tentativo fallì perché i successivi governi, ebbero, in qualche modo, un ripensamento e si dimenticarono di indicare gli sbocchi professionali dei diplomati universitari, come richiedeva la legge. Così, ad esempio un diplomato universitario in ingegneria edile non avrebbe potuto esercitare nemmeno le funzioni che esercitava un geometra diplomato da un istituto tecnico.
Contro l’istituzione e la valorizzazione del diploma si erano infatti schierati nel frattempo gli ordini professionali e parte del mondo accademico, ed ai ministri dell’università che successero a Ruberti (nell’ordine: Alessandro Fontana, Umberto Colombo, Stefano Podestà e Giorgio Salvini) mancò la forza o la determinazione necessaria per sostenere un’innovazione da più parti contestata.
Dopo le elezioni del 1996, il Governo Prodi ed i Governi D’Alema che lo seguirono (Ministri dell’Università Luigi Berlinguer e Ortensio Zecchino), adottarono una strategia diversa. Anziché modificare l’ordinamento didattico attraverso una legge i cui contenuti avrebbero dovuto essere discussi in Parlamento, decisero di attuare le modifiche ritenute necessarie attraverso regolamenti autorizzati da leggi che non riguardavano l’università, ma l’intera amministrazione pubblica. Fu così che ci si trovò improvvisamente di fronte ad una normativa dettata da un regolamento, che innovava profondamente l’ordinamento didattico prevedendo il conseguimento della laurea dopo solo tre anni di studi universitari. Alla laurea poteva seguire un grado accademico superiore conseguibile in ulteriori due anni, denominato inizialmente “laurea specialistica” e successivamente “laurea magistrale”.
Fu così raggiunta, anche in Italia, una diversificazione dei gradi accademici, analoga a quella vigente nelle università di lingua inglese. La strategia del governo ebbe quindi successo, sul piano pratico, ma l’assenza di una discussione preliminare sul merito dei provvedimenti ne rese più difficile la comprensione e l’accettazione da parte del mondo accademico.
In particolare risultò a molti incomprensibile la funzione assegnata alla laurea, che secondo il decreto istitutivo ...ha l’obiettivo di assicurare allo studente un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, anche nel caso in cui sia orientato all’acquisizione di specifiche conoscenze professionali.4
Come potevano coesistere l’esigenza di assicurare allo studente un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali e l’esigenza di acquisire specifiche conoscenze professionali? La struttura dei corsi di laurea prima della riforma prevedeva invece che le materie di base fossero impartite nei primi anni di corso e che le conoscenze professionali specifiche fossero basate sui contenuti scientifici generali già acquisiti e quindi il loro insegnamento fosse impartito negli anni successivi. Il caso più chiaro di questa suddivisione si verificava per il corso di laurea in Ingegneria, ma un’analoga divisione si trovava a Giurisprudenza, con gli insegnamenti di diritto romano e di filosofia del diritto impartiti nei primi anni. Non poteva essere facile partendo da questa struttura disegnare un percorso didattico professionalizzante per i primi tre anni di studi universitari e al tempo stesso prevedere che lo studente, negli stessi primi tre anni acquisisse la padronanza di metodi e contenuti scientifici generali.
D’altra parte già dai primi anni novanta il rapporto tra numero degli immatricolati e numero dei diciannovenni aveva superato il 40%, mantenendosi al di sopra di questo livello fino ai nostri giorni, e sfiorando persino il 50%5. Una domanda di istruzione terziaria di queste dimensioni corrisponde necessariamente ad una popolazione studentesca molto diversificata in termini di preparazione iniziale, capacità, interesse allo studio, ambizioni e aspettative.

Il presente
Eppure l’università italiana rispondeva e risponde a questa domanda di istruzione con un’offerta didattica uniforme, o meglio, diversificata solo per facoltà o corso di studio e non per livello di approfondimento all’interno dello stesso corso. Si rischia in questo modo di abbassare per tutti il livello degli studi a quello che si adatta agli studenti meno preparati (come certamente avviene in molti corsi di laurea), o di respingere la maggioranza degli studenti che chiedono una formazione superiore, incrementando irragionevolmente i ritardi e gli abbandoni.

Diversificare il sistema di istruzione?
E’ naturale che a questo punto sia riproposta da più parti, l’ipotesi di diversificare il sistema di istruzione superiore, per rispondere meglio ad una domanda di istruzione diversificata. Questa ipotesi prevedrebbe, ad esempio, università “di serie A” dove si svolgerebbe ricerca scientifica e dove sarebbero ammessi solo gli studenti più preparati e università di “serie B” dedicate prevalentemente all’insegnamento e dove entrerebbe la maggioranza degli studenti. Come giudicare questa ipotesi?
Ci sono almeno due modi di affrontare la discussione su questo problema, ambedue legittimi. Il primo è quello di discutere se la proposta innovazione contribuirebbe a facilitare il ricambio sociale offrendo un’istruzione superiore adeguata anche a chi proviene dai ceti meno privilegiati, o viceversa se questa proposta renderebbe più difficile ai capaci e meritevoli, privi di mezzi, di accedere ai più alti gradi accademici e alle professioni più remunerate.
Sembra abbastanza ovvio che solo la pratica indicazione, nei dettagli, di come viene attuato il sistema “dualista” ci consentirebbe di sciogliere il dilemma. Possiamo ad esempio paragonare il sistema delle università della California a quello delle università inglesi. Tutti e due i sistemi prevedono università di prima classe ed istituzioni minori. Tuttavia, mentre è abbastanza comune che chi consegua un diploma di Bachelor in un’università di prima classe della California abbia frequentato i primi anni in un’università minore, risulta quasi impossibile il trasferimento ad un’università di prima classe di uno studente che abbia iniziato gli studi in un’istituzione inglese di seconda o terza classe. Cioè le istituzioni minori della California svolgono anche il compito di recuperare agli studi superiori di alto livello studenti che per ragioni diverse non raggiungono gli standard di preparazione per l’ammissione al primo anno delle università maggiori. Non sembra invece che le “teaching universities” inglesi si propongano questo scopo.
E’ difficile prevedere che cosa avverrebbe in Italia. E’ certo però che l’offerta della stessa istruzione universitaria ad un corpo studentesco molto diversificato, senza riguardo alle differenze nella preparazione degli studenti è attualmente una causa importante dei ritardi e degli abbandoni. Come sostengono i fautori di una diversificazione del sistema, potrebbe essere proprio l’attuale configurazione dell’istruzione universitaria a rendere più difficile per i meno abbienti il conseguimento della laurea. L’accusa di voler ostacolare il ricambio sociale viene in tal modo rinfacciata ai fautori di un sistema “non dualista”.
Ma, come ho detto, c’e almeno un altro modo di affrontare il problema della possibile diversificazione delle sedi universitarie.
Ci si può chiedere se sia possibile operare questa trasformazione del sistema universitario italiano in tempi ragionevoli e a costi contenuti ed anche se sia possibile diversificare l’istruzione offerta dalle università per venire incontro ad una domanda didattica molto diversificata senza dover necessariamente dividere le sedi universitarie in università di prima classe e di seconda o terza classe.
Questa è infatti la questione che vorrei affrontare, cominciando dal problema delle modalità e dei costi di trasformazione del sistema in un sistema “dualista”.

E’ possibile passare a un sistema dualista senza gravi costi?
Una tesi (o speranza) ampiamente condivisa dai sostenitori del sistema “dualista” è che una valutazione nazionale della qualità della ricerca scientifica sarebbe sufficiente a discriminare tra università dove si fa buona o ottima ricerca e università dove l’attività di ricerca è solo marginale. Così è avvenuto per i grandi esercizi di valutazione della ricerca che si sono svolti nel Regno Unito, i famosi Research Assessment Exercises (RAE). Secondo il cosiddetto Robert’s Report6 ben 40 delle 130 università del Regno Unito hanno contribuito solo marginalmente all’attività di ricerca. Non bisogna però dimenticare che fino al 1992 circa la metà (in termini di numero di laureati) del sistema di istruzione superiore della Gran Bretagna era costituito dai cosiddetti “Polytechnics” dove i docenti non erano tenuti a svolgere attività di ricerca ed erano maggiormente impegnati nella didattica. La promozione dei politecnici a università nel 1992 non ne ha cambiato la sostanza. Un effetto importante degli RAE è stato quello di ripristinare, anche e soprattutto in termini di finanziamenti, la distinzione tra università e ex politecnici, che era stata nominalmente cancellata.
Ben diversa era ed è la situazione italiana. E’ ovvio che nei diversi ambiti disciplinari ci siano differenze nella qualità scientifica dei docenti di università diverse. Tuttavia ambedue le valutazioni nazionali della qualità della ricerca svolte negli ultimi anni e cioè la VTR e la VQR hanno evidenziato che ricerca scientifica di livello buono o eccellente si svolge in tutte le sedi nelle aree di competenza di ciascuna. Non ci si può quindi aspettare che una valutazione nazionale della qualità della ricerca riesca a distinguere le “teaching universities” dalle “research universities” in Italia. Per illustrare questa affermazione prenderò in esame i risultati della VQR relativamente all’area della ingegneria industriale e dell’informazione.
Prenderemo in esame le università statali7 che offrono corsi di laurea in ingegneria, non limitati all’ingegneria civile o edile. Queste sono 40 e precisamente: Ancona, Pol. Bari, Basilicata, Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Cagliari, Calabria, Cassino, Catania, Catanzaro, Ferrara, Firenze, Genova, L’Aquila, Lecce, Messina, Pol. Milano, Modena, Napoli, Napoli2, Napoli Parthenope, Padova, Palermo, Parma, Pavia, Perugia, Pisa, Reggio C., Roma1, Roma2, Roma3, Salerno, Sannio (Benevento), Siena, Pol. Torino, Trento, Trieste e Udine.
L’esito della VQR per queste sedi e per l’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione si è concretato in una graduatoria basata su un “voto medio” che va da un minimo di 0,34 al massimo di 0,91. La graduatoria è la seguente (tra parentesi il voto medio):

1. Bolzano (0,91)

2. Sannio (0,87)

3. Trento (0,86)

4. Ferrara (0,85)

5. Basilicata (0,84)

6. Siena (0, 83)

7. Messina (0,82)

8. Cassino (0,81)

9. Napoli Parthenope (0,81)

10. Padova (0,81)

11. Udine (0,80)

12. Milano Pol.(0,79)

13. Bologna (0,78)

14. Modena (0,78)

15. Salerno (0, 76)

16. Calabria (0,75)

17. Catanzaro (0,75)

18. Napoli2 (0,75)

19. Torino Pol. (0,75)

20. Lecce (0,74)

21. Pavia (0,73)

22. Perugia (0,73)

23. Reggio C. (0,73)

24. Sassari (0,71)

25. Roma2 (0,70)

26. Ancona (0,69)

27. Bari Pol. (0,69)

28. Bergamo (0,69)

29. Roma1 (0,69)

30. Catania (0,68)

31. L’Aquila (0,68)

32. Napoli1 (0,68)

33. Pisa (0,68)

34. Palermo (0,67)

35. Brescia (0,66)

36. Firenze (0,62)

37. Trieste (0,62)

38. Genova (0,61)

39. Roma3 (0,60)

40. Cagliari (0,56)

Così, nella graduatoria fornita dalla VQR l’ultima sede risulta quella di Cagliari con un voto medio di 0,56. Un po’ migliori risultano Roma Tre con un voto medio di 0,60, Genova con un voto medio di 0,61, e Firenze e Trieste ambedue con un voto medio di 0,62. Ma il 42,8% dei lavori presentati dalla sede di Cagliari è stato giudicato eccellente, assieme a quelli giudicati buoni si raggiunge il 63,6% dei lavori presentati per la valutazione. In effetti, la percentuale di prodotti eccellenti di Cagliari è superiore alla percentuale attribuibile alle quattro sedi che la precedono in graduatoria: Roma Tre (41,1%), Genova (40,1%). Firenze (37,2%) e Trieste (39,7%). Insomma sembra proprio che il livello della ricerca scientifica nell’Area 09 che si svolge a Cagliari non sia molto diverso da quello delle quattro sedi che la precedono nella graduatoria. Non sarebbe quindi facile giustificare la soppressione dei corsi di laurea magistrali in ingegneria industriale della sede di Cagliari, dove tra l’altro si trova l’unica facoltà di ingegneria della Sardegna. Ancor più difficile sarebbe sopprimere i corsi di laurea magistrale in ingegneria industriale delle cinque ultime sedi in graduatoria.
Se poi si dovesse pensare ad escludere il conseguimento di una laurea magistrale nel 50% “peggiore” delle sedi, risulterebbero escluse Pavia e tutte le sedi di Roma, mentre a sud di Roma verrebbero premiate le sedi di Benevento, Basilicata, Messina, Cassino, Napoli Parthenope, Salerno, Napoli2 e Lecce, ma non Napoli1 e Catania.
Risultati del tutto simili (anche se con graduatorie diverse) si ottengono se si prendono in considerazione altre aree o se ci si basa sui risultati della VTR.
Per trasformare il sistema italiano di istruzione superiore non basta quindi osservare e valutare la realtà esistente, è necessario intervenire attivamente per cambiare l’esistente, pur rispettando l’autonomia universitaria.

Come cambiare il sistema: il metodo dei RAE
Un suggerimento su che cosa si potrebbe fare ci viene ancora dai RAE britannici, che oltre ad evidenziare le differenze tra gli ex politecnici e le vecchie università hanno contribuito ad accentuare le differenze tra le diverse sedi universitarie. Infatti, all’esito dei RAE era associata la distribuzione di una porzione notevole (circa un terzo) del finanziamento ordinario. Succedeva così che un ricercatore in grado di produrre scientificamente ad alto livello (“world class research”) portava alla sua università finanziamenti che potevano facilmente eccedere l’ammontare del suo compenso. Diveniva allora conveniente per le diverse sedi andare a caccia dei “world class researcher” offrendo loro compensi adeguati al valore dei maggiori finanziamenti che la presenza di un “world class researcher” avrebbe portato. Questo ha comportato una maggiore mobilità dei docenti di alto livello scientifico nonché un deciso aumento delle loro retribuzioni. In sostanza le università che hanno più guadagnato dai RAE hanno potuto reinvestire le somme così ottenute per reclutare altri ricercatori di spicco, che hanno lasciato sedi che mancavano delle risorse per trattenere i propri docenti migliori. In questo modo si è accentuata la polarizzazione del sistema. La stessa politica potrebbe essere adottata in Italia secondo lo schema seguente:

1. Destinare una parte consistente del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle università a finanziare le università più attive nella ricerca. In GB si tratta di circa un terzo del FFO, cui in Italia corrisponderebbe una somma dell’ordine di 2 miliardi di euro. Nelle condizioni attuali questa somma dovrebbe, almeno in parte, essere aggiunta al totale dello FFO erogato alle università.

2. Eliminare ogni limite superiore agli stipendi dei docenti.

3. Valutare accuratamente la ricerca svolta negli atenei nelle diverse aree disciplinari, avendo cura che la procedura serva, come in GB ad identificare i migliori ricercatori, piuttosto che a valutare il livello medio della ricerca, o la presenza di “inattivi”, come fa attualmente la VQR. Ad esempio la valutazione si potrebbe proporre di identificare i 50-60 docenti di matematica più originali ed attivi (tenuto conto che i professori di prima fascia di matematica sono circa seicento).

4. Premiare con forti elargizioni di denaro, libero da vincoli (FFO) le università che impiegano i docenti che più eccellono nella ricerca nelle diverse aree. Il premio dovrebbe essere tale da eccedere notevolmente il costo complessivo del personale docente che contribuisce alla classificazione dell’università ai primi posti della graduatoria nella sua area.

Organizzando opportunamente le corrispondenze tra valutazioni ed elargizioni (come avviene nei RAE) si dovrebbe ottenere anche in Italia l’effetto che un docente la cui produzione scientifica è valutata molto positivamente porterebbe alla sua sede una quantità di denaro molto superiore al costo della sua retribuzione lorda. Diverrebbe allora conveniente per le sedi che ricevono in questo modo più denaro, investire lo stesso denaro per “rubare” i migliori ricercatori ad altre sedi. Chi ha più soldi troverebbe il modo di aumentare le sue possibilità di ottenere allo stesso modo altri soldi, mentre chi ha meno soldi dovrebbe rassegnarsi a perdere i suoi migliori ricercatori. Il principio sarebbe quello di arricchire chi è ricco e far impoverire chi è povero fino a raggiungere un sistema polarizzato.
Il passo successivo (o simultaneo) dovrebbe essere allora di aumentare gli obblighi didattici dei docenti, consentendo però alle sedi, di esentare dall’aumento i docenti più attivi nella ricerca. Questa parziale esenzione farebbe parte delle condizioni di reclutamento dei docenti più attivi e originali. Piano piano (in diversi anni) si formerebbero due gruppi distinti di università: quelle dove i docenti non sono molto attivi nella ricerca ed hanno obblighi didattici più pesanti e quelle dove i docenti sono molto attivi e gli obblighi didattici sono leggeri. Un blocco degli stipendi minimi (quelli spettanti su base tabellare) contribuirebbe a distinguere, complice l’inflazione, le “teaching universities”, dove i docenti sono pagati meno ed hanno obblighi didattici più pesanti, dalle “research universities” dove almeno alcuni docenti sono pagati di più ed hanno obblighi didattici più leggeri.
Un’applicazione severa di questa procedura produrrebbe (come è avvenuto, a quel che sembra in GB) anche un certo numero di prepensionamenti. Un anziano docente che si vede superare nello stipendio, oltre che in termini di prestigio, da un docente più giovane, in grado di portare più soldi alla sua sede, potrebbe preferire un onorevole pensionamento senza aspettare l’età del pensionamento obbligatorio (che in Italia è 70 anni.)
Resterebbe naturalmente il problema di selezionare gli studenti che frequenterebbero le “research universities”.
Ci sono diverse ragioni per le quali è improbabile che un governo (ed in effetti più governi) adottino la strategia così delineata. La prima è l’altissimo costo dell’intera operazione, senza che per molti anni si possa produrre anche un risparmio. Nell’immediato si tratterebbe di aumentare di un bel po’ la retribuzione di un’esigua minoranza, opportunamente scelta, di docenti per indurli a concentrarsi in alcune sedi, in attesa che il blocco degli stipendi degli altri docenti comporti un significativo risparmio. Non sarebbe nemmeno facile ottenere su questo punto il consenso degli attuali fautori del sistema dualista. Al contrario, come già avvenuto negli anni sessanta si creerebbe un vasto fronte di docenti contrari all’ipotesi dualista. Ci saranno poi dei problemi politici associati alla collocazione geografica delle “research universities” che potrebbero concentrarsi nelle regioni settentrionali. Simili problemi si sono presentati in Gran Bretagna con il possibile declassamento delle antiche università della Scozia. Il problema è stato risolto facendo in modo che le università entrassero in competizione solo con le università della stessa macroregione (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord).

Il possibile ruolo degli Istituti Tecnici Superiori
La recente istituzione degli Istituti Tecnici Superiori (ITS) che attualmente accolgono circa 5.000 studenti sembra corrispondere ad una volontà politica di diversificare il sistema di istruzione terziaria, nel senso che era previsto dalla Commissione Ermini, attraverso i cosiddetti Istituti Aggregati. Naturalmente non siamo più negli anni settanta e non disponiamo di una macchina del tempo che ci riporti indietro: l’espansione del sistema universitario è già avvenuta secondo il modello “non dualista”. C’e da chiedersi se gli ITS possano espandersi fino a costituire un’alternativa valida all’università per una porzione consistente degli attuali immatricolati. Gli immatricolati negli ultimi anni sono stati all’incirca 250.000. Il numero degli attuali iscritti al primo anno degli ITS è all’incirca 2.500. Non sembra probabile che questo numero raggiunga nel futuro prevedibile una porzione significativa del numero degli immatricolati. Ci sono comunque molti ostacoli che impediranno agli ITS di svolgere il ruolo che, ad esempio svolgono i “junior college” in California, che è anche quello di avviare agli studi universitari studenti potenzialmente capaci ma la cui preparazione alla fine della scuola secondaria non raggiunge il livello necessario per accedere all’università. Prima di tutto gli ITS sono aperti solo ai diplomati degli attuali istituti tecnici, inoltre, anche se teoricamente previsto dalla normativa sugli ITS, manca un canale di comunicazione tra gli ITS e l’università. Manca, ad esempio la possibilità di riconoscere qualche credito ITS, come credito universitario. L’ITS si presenta pertanto al diplomato di scuola secondaria come un vicolo cieco, mentre l’iscrizione ad un corso di laurea, a tutti formalmente accessibile, può apparire come una strada aperta ad un proficuo proseguimento degli studi. Così, mentre l’esperimento degli ITS dovrebbe essere seguito, incoraggiato ed esteso, non sembra che queste istituzioni possano dar luogo ad una vera alternativa all’università.

Ma è proprio necessario un sistema dualista?
L’avvento dell’università di massa senza prevedere istituzioni universitarie diversificate costituisce come abbiamo visto un problema: sembra impossibile rispondere con un’offerta didattica uniforme a una domanda estremamente diversificata per provenienza scolastica, preparazione iniziale, aspirazioni ed estrazione sociale. Tuttavia non sembra impossibile diversificare l’offerta didattica anche all’interno della stessa università e dello stesso corso di studi. Dovrebbe altresì essere possibile mantenere un assetto del sistema in cui docenti diversamente impegnati nella ricerca e nella didattica svolgono la loro attività nella stessa sede.
Anche l’ipotesi di una diversificazione interna presenta difficoltà e costi. Inferiori però a mio parere a quelli associati a una diversificazione delle sedi.
Il primo passo per una diversificazione dell’insegnamento è la previsione di “placement test” che individuino le competenze iniziali degli studenti che vogliono iscriversi all’università. Per le facoltà scientifiche ed ingegneria, i test riguarderanno principalmente la competenza matematica e dovrebbero risultare in un’indicazione del livello dei corsi di base che lo studente dovrebbe iniziare a seguire. Per i corsi di laurea nelle scienze umane i test dovrebbero riguardare la capacità di comprensione di un testo scritto e la capacità di scrittura. Si dovrebbe arrivare alla previsione di una molteplicità di curricoli, formalmente equivalenti, che corrispondono, però, ad una formazione più o meno approfondita, anche se non ufficialmente certificata dal nome del diploma o dell’università che lo ha conferito.
Le diverse competenze potranno forse risultare da un accurato esame, da parte di un esperto, del percorso didattico che ha portato al diploma (ad esempio per eventuali proseguimenti negli studi) ma certamente dovrebbero manifestarsi in pratica sulla base delle capacità effettivamente acquisite dal laureato.
Anche la distinzione tra docenti maggiormente impegnati nella didattica e docenti più impegnati nella ricerca non passa necessariamente per una distinzione tra sedi di serie A e sedi di serie B. E’ sufficiente a questo proposito innalzare formalmente per tutti gli obblighi didattici, in modo che corrispondano, ad esempio, agli obblighi standard di un professore di una delle California State Universities e prevedere “premi” alla ricerca sotto forma di esenzione parziale dagli obblighi didattici (limitata ad un numero prefissato di anni) per i docenti maggiormente impegnati nella ricerca.
Insomma una diversificazione dell’offerta didattica ed un’incentivazione dell’attività di ricerca non sembrano dover necessariamente passare attraverso la diversificazione per livello degli studi delle sedi universitarie, come, storicamente, è avvenuto in altri paesi.

1 Il termine “dualista” è utilizzato nel programma dell’Unione (cioè la coalizione di centro-sinistra) per le elezioni politiche del 2006, ove si legge: “Occorre orientare le strategie di riforma verso il miglioramento del nostro modello universitario non dualista, in cui l’integrazione tra ricerca e didattica è la caratteristica fondante di ogni ateneo e di ogni carriera docente”. Come si ricorderà le elezioni furono vinte di misura dall’Unione che diede vita al secondo governo Prodi, che cadde nel 2008 dando luogo a nuove elezioni che furono vinte dalla coalizione di centro-destra.

2 Formalmente alla fine del secolo ventesimo erano già previsti tre livelli di laurea: la laurea (triennale) la laurea (quinquennale) che allora si chiamava “specialistica” destinata a chiamarsi “magistrale” ed il dottorato di ricerca. Ma il nuovo sistema, messo a punto negli anni novanta, non era ancora a regime (le prime lauree triennali furono conferite nel 2004) ed il dottorato di ricerca istituito sulla carta nel 1980 aveva appena iniziato un percorso regolare negli anni novanta.

3 Relazione della Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia, presentata al Parlamento il 24 luglio del 1963.

4 Riportiamo qui di seguito i commi 4, 5 e 6 dell’art. 2 del Decreto Ministeriale 270 del 2004 che definiscono le funzioni dei corsi di laurea e laurea magistrale:

4. Il corso di laurea ha l'obiettivo di assicurare allo studente un'adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, anche nel caso in cui sia orientato all'acquisizione di specifiche conoscenze professionali.

5. L'acquisizione delle conoscenze professionali, di cui al comma 4 è preordinata all'inserimento del laureato nel mondo del lavoro ed all'esercizio delle correlate attività professionali regolamentate, nell'osservanza delle disposizioni di legge e dell'Unione europea e di quelle di cui all'articolo 11, comma 4.

6. Il corso di laurea magistrale ha l'obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l'esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici.

5, In effetti, queste percentuali non si riferiscono esattamente alla porzione di diciannovenni che continuano gli studi a livello universitario, perché gli immatricolati includono anche studenti più anziani. La percentuale del 50% è stata superata in un anno nel quale, per effetto dell’istituzione della laurea triennale, si è avuta una crescita anomala di immatricolati più anziani.

6 Review of research assessment, Report by Sir Gareth Roberts to the UK funding bodies, May 2003, p. 19 (disponibile sul sito www.rae.ac.uk)

7 Il problema dell’accreditamento delle università non statali è reso complesso dalla presenza delle università telematiche.