Home 2010 15 Aprile Contestata nel DDL la legittimità costituzionale di norme sulla governance
Contestata nel DDL la legittimità costituzionale di norme sulla governance PDF Stampa E-mail

Secondo l’art. 2, secondo comma, lettere e) e g), del d.d.l. di riforma dell’ordinamento universitario, “Le università statali, nel quadro del complessivo processo di riordino della pubblica amministrazione, provvedono, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, a modificare i propri statuti in materia di organi, nel rispetto dell’articolo 33 della Costituzione, ai sensi dell’art. 6 della legge 9 maggio 1989, n. 168, secondo principi di semplificazione, efficienza ed efficacia, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi:
e) costituzione del senato accademico su base elettiva composto per almeno due terzi da docenti di ruolo dell’università e, comunque, da un numero di membri proporzionato alle dimensioni dell’ateneo e non superiore a trentacinque unità, compresi il rettore e una rappresentanza elettiva degli studenti;
g) composizione del consiglio di amministrazione nel numero massimo di undici componenti, inclusi il rettore, componente di diritto, e una rappresentanza elettiva degli studenti; designazione o scelta degli altri componenti secondo modalità previste dallo statuto, anche mediante avvisi pubblici, tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello; non appartenenza di almeno il quaranta per cento dei consiglieri al ruolo dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico; elezione del presidente del consiglio di amministrazione tra i componenti dello stesso; nomina del presidente designato con decreto del Presidente della Repubblica”.
Le disposizioni citate sono accomunate dalla fissazione di un numero massimo di componenti dei due organi (rispettivamente, non oltre trentacinque per il Senato accademico e non oltre undici per il Consiglio di amministrazione) e dalla riserva di una percentuale minima di componenti a determinate categorie di soggetti (rispettivamente, almeno due terzi di docenti di ruolo dell’università per il senato accademico e almeno il quaranta per cento di consiglieri esterni al ruolo dell’ateneo per il consiglio di amministrazione). Si tratta di innovazioni molto significative all’art. 6 l.n. 168 del 1989, che in esplicita attuazione dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione (“Le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”), riservano alle Università piena autonomia organizzativa relativamente agli organi predetti al punto da non nominarli nemmeno, salva la previsione di un controllo del Ministro sugli statuti e sui regolamenti di ateneo nella forma della richiesta motivata di riesame, superabile con le speciali maggioranze ivi previste. Mentre la previsione di un numero massimo di componenti ben può rientrare nell’ambito della discrezionalità accordata al legislatore dall’art. 33 u.c., Cost., tanto più alla luce della finalità di porre un limite alla pletoricità degli organi di governo dell’Università suscettibile di menomarne il buon andamento (art. 97 Cost.), la riserva di una percentuale minima di componenti a determinate categorie di soggetti incide sull’autonomia statutaria delle Università al punto da porre dubbi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 33, u.c.
Occorre premettere che la natura degli organi di cui si tratta è e non può non essere di tipo rappresentativo. Tanto il Senato accademico quanto il Consiglio di amministrazione, di là dalle rispettive competenze, esprimono, infatti, il cuore dell’autogoverno delle Università, a sua volta strumentale alla piena garanzia della libertà della scienza e del suo insegnamento riconosciuta dall’art. 33, primo comma. E’ vero che il principio di autogoverno non va assolutizzato al punto da impedire apporti esterni e quindi una composizione mista dei due organi, che anzi favorisce gli apprendimenti delle stesse comunità scientifiche e scongiura dai rischi di chiusure corporative. Nell’ambito della discrezionalità costituzionalmente riconosciutale, la legge ben potrebbe dunque richiedere la presenza di membri esterni. Ma simili requisiti dovrebbero ritenersi misura non solo necessaria ma anche sufficiente alle finalità ora indicate. La previsione comunque congegnata di limiti minimi alla partecipazione di soggetti estranei agli organi di governo degli atenei va invece oltre il soddisfacimento di quelle finalità, e non trova pertanto giustificazione costituzionale. I limiti della discrezionalità legislativa prefigurati dall’art. 33 Cost. sono a più forte ragione superati nel caso della disciplina della composizione dei consigli di amministrazione. In questo caso, la fissazione a un minimo del 40% di membri esterni su un totale di 11 componenti, uno dei quali scelti fra i rappresentanti degli studenti e un secondo, il Rettore, quale membro di diritto, fa sì che la quota dei docenti dell’ateneo non possa comunque superare la metà dei membri, e induce a ipotizzare un favor per una loro rappresentanza minoritaria. Occorre interrogarsi sulla ratio di tale previsione. Se nella Relazione illustrativa del d.d.l. essa è qualificata misura “di trasparenza e indipendenza dell’organo”, nelle “Considerazioni e proposte per la revisione della governance delle Università” della CRUI del 19 febbraio 2009, una proposta del tutto simile è viceversa motivata con l’esigenza che i membri del Consiglio di amministrazione avrebbero dovuto “scegliersi non più su basi elettive e con riferimento vincolato a specifiche categorie di personale ma secondo designazioni imperniate sulla competenza”. Ora, l’obbligatoria previsione di una così elevata percentuale di esterni appare del tutto incongrua, sia che si voglia una maggior trasparenza dell’organo, sia che vi s’intendano valorizzare competenze gestionali, sia se si tratti invece, come si dice nel documento della CRUI, non semplicemente di valorizzare tali competenze, bensì di sostituire il criterio della rappresentanza con quello della competenza. Possono addursi in proposito le seguenti ragioni:
a) la legge richiede che tutti i componenti del Cda siano “in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello”, senza distinguere fra componenti eletti nell’ambito del corpo docente ed esterni, così facendo mancare il discrimine fra criterio della rappresentanza e criterio della competenza;
b) la formulazione dei requisiti indicati appare troppo vaga per impedire l’ingresso nel Cda di esterni caratterizzati per appartenenze o filiazioni che nulla hanno a che fare con soggettive competenze gestionali o esperienze professionali;
c) la soluzione non sostituisce il criterio della competenza a quello della rappresentanza ma giustappone contraddittoriamente l’uno all’altro, determinando un cattivo compromesso fra le esigenze rispettivamente sottese ai due criteri;
d) la previsione di una percentuale così elevata di esterni rischia di introdurre elementi di conflittualità con i componenti designati dal corpo docente, con pregiudizio del buon andamento dell’amministrazione universitaria in violazione dell’art. 97 Cost.;
e) alla luce di tutti i punti precedenti, e tenuto conto dei poteri spettanti ai Consigli di amministrazione, la previsione appare direttamente lesiva del principio costituzionale di libertà della ricerca scientifica.
La disposizione in esame esorbita pertanto da quel limite della razionalità oltre il quale una legislazione rispettosa dell’autonomia universitaria riconosciuta dall’art. 33 Cost. non può spingersi (Corte cost., sentt.nn. 1017 del 1988 e 145 del 1985), lede il principio costituzionale del buon andamento, risulta affetta da manifesta incongruità degli strumenti predisposti rispetto agli obiettivi perseguiti. (C. Pinelli, Sulla legittimità costituzionale del decreto Gelmini sull'organizzazione delle Università 01-04-2010)