L’art. 8 del disegno di legge n. 1577 (presentato al Senato il 23 luglio 2014, che contiene molteplici deleghe di potere legislativo al governo) opera una divisione interna al sistema universitario che suscita preoccupazione. La disposizione colloca le «università statali» tra le «amministrazioni di istruzione e di cultura»; mentre tra gli «organismi privati di interesse pubblico» sono menzionate le «università non statali». L’inserimento delle università in due distinte categorie classificatorie è stato criticato, con argomenti pienamente condivisibili, dal Cun in sede di audizione parlamentare proprio sul disegno di legge n. 1577. In particolare si osserva che «sulla base della sistemazione proposta dal disegno di legge, una qualificazione delle università non statali come soggetti ‘diversi’, in relazione alla loro supposta natura giuridica ‘privata’, supera, quasi a negarla, una costante giurisprudenza amministrativa, civile e contabile per la quale la natura del soggetto (università) deve definirsi in senso pubblicistico, ossia in relazione alla natura delle funzioni pubbliche (di ricerca e formazione) assolte, al di là del diverso sistema di finanziamento (appunto derivato dallo Stato in parte maggioritaria o meno)». D’altra parte, «questa separazione interna al sistema universitario supera alla radice la nozione unitaria di universitas, costruita nei secoli sull’esercizio della funzione di trasmissione delle conoscenze e di avanzamento dei saperi scientifici, a prescindere dalla natura pubblica e privata dei soggetti eroganti e, ancor, più dalle mire lucrative dell’attività svolta». Si tratta di «una nozione unitaria che è stata appunto sviluppata dalla Costituzione sul concetto di ‘autonomia’ e che ha consentito poi al legislatore di elaborare il concetto di ‘autonomia funzionale’, il quale connota sia le università statali sia quelle non statali». In particolare, si paventa la possibilità «di assoggettare le università statali alle ‘regole’ proprie delle articolazioni di un ministero (come è per i musei, gli archivi, le biblioteche)» e di inserirle «in linee di comando altrettanto complesse, tanto più che, come esplicita la relazione, non è intento di questa collocazione conferire particolari forme di autonomia». Inoltre, si può «alimentare la propensione delle università cosiddette non statali a un esercizio della funzione pubblica di istruzione superiore e ricerca orientata a finalità lucrative, come già avviene per talune loro espressioni, quali quelle dedite a erogare formazione a distanza». E proprio rispetto alle università non statali si fa notare che «la loro assimilazione a soggetti che operano in regime di mercato e in base a meccanismi concorrenziali, come le società a partecipazione pubblica che operano in regime di concorrenza, è piuttosto eloquente». Sicché, la distinzione prefigurata dal riformatore «oltre a rompere l’unità di un sistema che tale è in considerazione delle funzioni di rilevanza costituzionale che lo qualificano (negli artt. 9 e 33 Costituzione), apre a trattamenti differenziati, anche per i profili dell’azione e non solo dell’organizzazione, di molto superiori a quelli che le norme generali dell’ordinamento riconducono alla differente fonte di finanziamento». Tutto questo, se fosse realizzato, comprometterebbe la capacità competitiva delle università statali rispetto a quelle non statali e pertanto è opportuno che entrambe vadano ricomprese nella medesima categoria classificatoria. (Fonte: A. Bellavista, Roars 27-11-2014)
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