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UE. BILANCIO DEL PROCESSO DI BOLOGNA PDF Stampa E-mail

A sedici anni dalla partenza del Processo di Bologna (in volgare italiano il 3+2) esistono oggi le condizioni per fare un bilancio del risultato. Per non accontentarsi dei giudizi sommari (fallimento) o delle versioni trionfalistiche. L’obiettivo era di far convergere i sistemi didattici universitari degli Stati europei per assicurare validità su tutto il territorio d’Europa a ciascuna laurea conseguita in ogni singolo ateneo e garantire, così, mobilità e occupabilità in un mercato del lavoro comune a tutti i laureati europei. Solo un gruppo di Stati (segnatamente i soliti nordici ed il nucleo dell’Europa continentale più vicina a Bruxelles) è ormai avanti nell’integrazione. Il resto procede più lentamente. Gli ultimi rapporti Anvur e Ocse ci documentano che gli immatricolati crescono (dal 10,6% del 2000 al 17,3% del 2006 e al 22,3% del 2012). Crescono anche i laureati, e fra questi gli appartenenti a famiglie senza titoli universitari in casa (socialmente significativo). Questi dati non sono definitivamente consolidati, mentre potrebbero migliorare ulteriormente se si lavorasse con intelligenza a correggere gli errori e le resistenze. Il processo ha anche favorito l’affermarsi di una sensibilità - nei curricoli - nell’introdurre attività formative per il miglioramento dell’occupabilità. L’Anvur ci dice che ormai la totalità degli atenei organizza stages e tirocini, anche per il dopo laurea, di avviamento al lavoro, di accompagnamento in azienda. AlmaLaurea calcola che nel maggio 2014 la partecipazione studentesca al tirocinio è stata del 57%. La situazione non è statica né regressiva, ma certo non soddisfacente. Di fronte alle sfide che incontra l’Europa, il contributo all’integrazione universitaria non può fermarsi qui. Molti aspetti sono ancora «sulla carta», o percepiti come adempimenti burocratici anziché come opportunità di miglioramento della qualità. Credo che si imponga più che mai che gli Stati e i sistemi universitari assumano più energicamente il governo del processo, sollecitando anche l’autonomia degli atenei nello stesso senso. L’impegno, però, non va riaffermato in direzione centripeta, trovando soluzioni nazionali a problemi percepiti come nazionali. Le sfide da affrontare – europee e globali nella loro sostanza – vanno affrontate chiedendo «più Europa», e non il contrario. Ad esempio è improrogabile garantire il riconoscimento dei titoli di mobilità degli studenti, ottenuti in altri Paesi europei, coinvolgendo anche gli Stati. L’enciclopedismo e l’eccesso di disciplinarismo limitano in questi casi la capacità valutativa delle università. Va inoltre tenuto presente che il mutuo riconoscimento delle lauree è possibile solo se funzionano il riconoscimento dei sistemi di valutazione e una reciproca fiducia: solo una forte volontà governativa può però assicurare un’efficace collaborazione fra le Agenzie di valutazione e di «assicurazione della qualità». Inoltre è opportuno che in questa fase si favorisca il moltiplicarsi di corsi di studio congiunti. Infine, particolare attenzione va riservata al primo ciclo, triennale, trascurato ed ostacolato da taluni governi o gruppi accademici, mentre è in pieno sviluppo e con successo in altri Paesi. Pari durata dei corsi, pari articolazione in tre livelli dei titoli e uniformità di sistema sono punti imprescindibili.
(Fonte: Corsera 22-09-2014)