Home Articoli archiviati
L’università pubblica da valutare e da rivalutare PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 2 - 2009
Indice
L’università pubblica da valutare e da rivalutare
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Tutte le pagine

Dall’estate dello scorso anno ha preso avvio un’ipercritica campagna di stampa sull’università pubblica che si è prodotta a giorni alterni sui principali quotidiani in quella che è stata definita non a caso una “bulimia diffamatoria”. I lettori, influenzati da titoli vistosi, sono stati indotti a generalizzare fenomeni di malcostume circoscritti, anche se in taluni casi assai rilevanti. Sono stati riportati anche dati inesatti o superficialmente presentati con semplificazioni giornalistiche, a proposito di studenti, corsi di laurea, professori e ricerca scientifica. Al buon nome del giornalismo non ha giovato la rarissima pubblicazione di smentite e l’omissione anche di quelle più documentate.

Come se non bastasse la campagna mediatica a mezzo stampa quotidiana, si è aggiunta la pubblicazione nel giro di pochi mesi, anche dell’anno in corso, di un buon numero di libri (o libercoli) in maggioranza tesi ad amplificare il concetto di malauniversità. Titoli come “L’università truccata” (1), “Parentopoli” (sottotitolo: Quando l’università è affare di famiglia) (2), “Un Paese di Baroni” (3), “I Faraoni (con incluso capitolo su Razza barona)” (4), di certo non inducono il potenziale lettore a credere che l’università sia anche un luogo dove la formazione e la ricerca hanno possibilità di corretta gestione. Nella retrocopertina uno di questi volumetti viene presentato come “Un atto d'accusa contro l'università di Cosa Nostra”.

 

Ad onore del vero sono stati pubblicati nel contempo alcuni saggi che, pur non risparmiando doverose critiche, affrontano i problemi nella loro genesi (o patogenesi) e propongono argomentate soluzioni. In proposito cito i libri di G. Capano e G. Tognon (5), di P. Potestio (6), di M. Regini e collaboratori (7).

Senza volere difendere situazioni e costumi indifendibili, si può tentare, con il realismo di un’informazione basata su fonti autorevoli, di riequilibrare e ridimensionare ragionevolmente i fenomeni denunciati, di interpretare e revisionare dati oggetto di semplicistiche generalizzazioni ad effetto. Lo si può fare rispondendo dati alla mano ad alcune domande.

Eccesso di spese?
Secondo l’ultimo Rapporto dell’OCSE (8), l’Italia investe per l’istruzione terziaria una quota di fondi pubblici pari allo 0,9% del Pil contro una media dell’1,3% dei Paesi avanzati (Francia 1,25; Germania 1,1; Paesi Bassi 1,5; Spagna 1,1; UK 1,5; USA 2,8). Ciò equivale a 8.026 dollari annui a studente, quando la media dei Paesi OCSE è 11.512 dollari.

Per quasi tutti i Paesi, queste cifre si riferiscono alla spesa per studente equivalente a tempo pieno (full time - equivalent student), criterio che “consente di ricalcolare il numero effettivo di iscritti all’università come il numero di studenti teorici che concludano gli studi nella durata teoricamente prevista per uno studente iscritto a tempo pieno”. Invece il dato italiano si riferisce alla spesa media per studente iscritto, quindi attribuendo il peso intero anche agli studenti fuori corso e agli studenti inattivi, cioè che non danno esami. La differenza è rilevante, perché è ben noto che in Italia una quota rilevante degli iscritti sono fuori corso (40,7% nel 2007, come riferito prima), e il 20% non ha superato esami. Pertanto, rileva Perotti (1) che ha valorizzato questo nuovo calcolo, la spesa italiana annuale per studente equivalente a tempo pieno diventerebbe pari a 16.027 dollari PPP[1] (dollari statunitensi convertiti a pari potere d’acquisto), la più alta del mondo dopo USA, Svizzera e Svezia. Questa interpretazione del calcolo di spesa per studente è stata messa in risalto da alcuni quotidiani (Corsera, La Stampa, Il Riformista) a dimostrazione di un eccesso di spesa.

E’ stato fatto, tuttavia, il calcolo anche con metodi che consentono di confrontare diversamente la spesa italiana con quella degli altri Paesi europei (7, 9, 10). I dati ricavati  portano a ribadire la posizione dell’Italia verso il fondo della classifica. Nel documento dell’OCSE (8) si riferisce che la spesa annua per studente universitario in Italia è di 8.026 dollari, al di sotto della media dei Paesi OCSE che è di 11.521. Tuttavia, come precisa la nota tecnica del documento, ci sono tre Paesi (Austria, Germania e Italia) che non distinguono tra studenti a tempo pieno e studenti a tempo parziale. Per questi Paesi la spesa annua risulta sotto-stimata. Per ovviare a questo inconveniente l’OCSE calcola la spesa cumulativa per la durata effettiva degli studi. In questo calcolo, spiega l’OCSE, la mancata indicazione degli studenti a tempo parziale è ininfluente perché «l'effetto si compensa, dal momento che contare gli studenti a tempo parziale come studenti a tempo pieno conduce ad una sotto-stima delle spese annuali e ad una sovrastima della durata degli studi». L’Italia, con una spesa cumulativa di 41.285 dollari per studente, è ancora sotto la media OCSE che è di 47.159 dollari. I Paesi la cui spesa cumulativa, per tutta la durata degli studi, supera quella dell'Italia sono 12 (tra questi Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito) e solo 9 Paesi hanno invece una spesa inferiore. In definitiva spendiamo poco anche quando si tiene conto dei ritardi negli studi. La spesa per istruzione terziaria per studente nel corso della carriera (in dollari PPP) è per i Paesi sopra riportati più elevata della nostra: Francia 44.202, Germania 66.758, Paesi Bassi 72.746, Spagna 47.015, Regno Unito 58.654. (Tabella 1)

 

Tabella 1 - Spesa per istruzione terziaria per studente nel corso della carriera. Anno 2005 (dollari PPP1)

Italia                                      40.212

Francia                                   44.202

Germania                                66.758

Paesi Bassi                             72.746

Spagna                                  47.015

Regno Unito                          58.654

Media OCSE        47.159

Fonte: OCSE (OECD), Education at a glance 2008.

I finanziamenti esterni all’università, privati o derivanti da contratti, è poco prevedibile che possano integrare apprezzabilmente quelli pubblici. Le ragioni sono strutturali e si connettono alle peculiarità del sistema produttivo italiano: una ridotta dimensione d’impresa e una “presenza certo non preponderante dei settori ad alto valore aggiunto”. D’altronde i finanziamenti privati all’università in percentuale sul Pil, che per l’Italia assommano allo 0,3 (anno 2005), non sono molto diversi da quelli di altri Paesi europei che non hanno, probabilmente eccetto la Spagna, la peculiarità sopra accennata: Francia 0,2; Germania 0,2; Paesi Bassi 0,3; Spagna 0,2; UK 0,4. Gli USA si distinguono con una percentuale sul Pil di 1,9.

Non di rado si annovera tra le riforme dell’università l’aumento delle tasse d’iscrizione. Marrucci (11) stima che le tasse universitarie rappresentino complessivamente il 28% delle entrate delle università americane (il 19% di quelle pubbliche ed il 44% delle private). Dunque il nostro tetto del 20% in base alla legge è allineato praticamente a quello di un Paese all’avanguardia come gli Stati Uniti. Peraltro aumentare le rette studentesche è notoriamente un tabù politico.


 

[1] Lo scopo del PPP è calcolare le differenze nei livelli dei prezzi in modo che ogni unità di consumo possa essere valutata definitivamente e indipendentemente dal luogo in cui viene consumata.