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Lineamenti dell’evoluzione dei sistemi universitari in Europa PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 4 - 2009
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Lineamenti dell’evoluzione dei sistemi universitari in Europa
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Le università quali sedi principali di elaborazione, organizzazione e trasmissione della cultura hanno assunto una posizione eminente in Europa intrecciando il lungo corso della loro storia con quello delle altre istituzioni. La ricerca universitaria, come la didattica, sono punti cardine per la produzione e la diffusione della conoscenza in grado di influenzare il progresso di ogni forma di attività umana (1). La scoperta, la conservazione, la ridefinizione e la trasmissione della conoscenza sono, infatti, direttamente connesse alla crescita del capitale umano (2).
Nel quadro dell’evoluzione dei sistemi universitari in Europa le questioni essenziali che si pongono sono tre. La relazione tra cultura e sviluppo è la prima. Il confine tra il potere dello Stato e il potere delle Università, come presupposto per declinare i campi di applicazione dell’autonomia universitaria, è la seconda. Il rapporto tra la valutazione e l’autonomia è la terza questione (3).
Si condivide in generale che la Germania, la Francia e l’Inghilterra, siano gli Stati dove si afferma un modello di università europea contemporanea. Sono gli stessi, non a caso, dove al tempo stesso avvengono le rivoluzioni che si definiscono, nell’ordine, filosofica, politica, industriale (4).

Dalle origini al secolo XIX
Le prime università appaiono in Europa intorno al XII secolo e hanno un’origine e un’organizzazione autonoma, distinta dal potere politico al quale tuttavia l’élite intellettuale del tempo partecipa autorevolmente. Non nascono per concessione del sovrano, come in quell’epoca avveniva per le istituzioni di natura pubblica. Prescindono perciò dal riconoscimen­to del potere politico pubblico. Sono, infatti, istituzioni private, corporazioni di studiosi caratterizzate dal connubio tra maestri e studenti. Hanno come base fondante un patto associativo tra “mastri e scolari”. Così le università originano in epoca medievale, istituite su un atto di libertà e di autonomia della comunità degli scien­ziati e degli studiosi (3).
“Gli scolari, in particolare, non avevano un collegamento territoriale basato sulla residenza nel luogo ove sorgeva l’università. Essi sceglievano i maestri per il loro merito e per la fama che li circondava. Essi, quindi, richiamati da nuovi maestri, si trasferivano presso gli atenei ove quelli tenevano i propri corsi. La mobilità degli scolari, pertanto, concorreva fortemente a rendere precario il rapporto delle università con i poteri pubblici locali”. Inoltre, non essendo istituzioni pubbliche, le università non appartenevano neanche ai singoli poteri nazionali. Per questo sembrerebbe più corretto inquadrarle nell’ambito di quelle istituzioni cosiddette internazionali (5).Nell’età feudale manca dunque alle origini delle università un rapporto privilegiato nei confronti dei poteri pubblici. Soltanto in seguito il potenziamento delle autorità locali e la sempre maggiore espansione delle città assumono un carattere vitale necessario allo sviluppo delle università che vi sono insediate. Si avvera così una profonda interazione nei rapporti tra le università e il mondo esterno. I poteri locali, man mano che assumono forme organizzative più complesse e radicate sul territorio, riescono a influenzare in maniera sempre più penetrante le università (6).
Le università diventano istituzioni pubbliche con il Rinascimento, quando nascono come strumenti al servizio del potere pubblico, istituzioni “utili” ai sovrani (3). Un esempio è offerto dal più antico college dell’Università di Oxford, Christ Church, che nel XVI secolo fu ricostituito da Enrico VIII quando egli, diventato capo della chiesa anglicana, per questa via tentò di condizionare l’elaborazione della cultura nel processo di distacco dell’Inghilterra dal potere temporale dei Papi.
Con l’affermarsi tra il XV e il XVII secolo di quello che è chiamato lo Stato moderno, avviene un progressivo accentramento del potere e della territorialità dell’obbligazione politica. Alle università sono richiesti nuovi compiti per formare personale preparato per l’amministrazione della giustizia e per la direzione e la gestione degli affari pubblici.
Nel periodo conosciuto come il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), l'Europa è testimone di notevoli cambiamenti socio-culturali. Le università, in maggioranza gestite da religiosi, sono ormai completamente asservite allo Stato. La loro autonomia è quasi azzerata e diventano sempre più finalizzate a fornire personale qualificato da destinare a interi apparati dello Stato moderno. Per l’accesso agli alti gradi dell’amministrazione è sempre richiesta un’istruzione universitaria. L’università è dunque una "scuola di comando", volta a formare le élite, e macchina indispensabile per produrre le tecniche e gli strumenti di governo da fornire allo Stato.
Questa situazione si protrae fino agli inizi del XX secolo quando ancora il 10-20% dei dirigenti amministrativi di Paesi come la Francia, la Prussia, l’Italia, la Russia e la Gran Bretagna, proviene dall’Università (6a). Tutto ciò fa crescere l’importanza dell’università per lo Stato, ma quest’ultimo può direttamente imporre su di essa un controllo politico, funzionale ed economico. Ne deriva pertanto una forte perdita di autonomia perché, in sostanza, lo Stato si assicura il controllo dell’università mentre presiede alla sua organizzazione (1). La parte di grande rilievo che le Università hanno all’interno dello Stato e della società era stata convalidata già all’inizio del XVII secolo quando Giacomo I d’Inghilterra concesse loro una rappresentanza in Parlamento. In seguito, per due secoli e mezzo, nella più antica assemblea rappresentativa hanno trovato posto parlamentari prima designati e, poi, eletti dalle Università di Oxford, di Cambridge e da quelle scozzesi, e più tardi anche da quella di Londra.
All’inizio del XIX secolo si può dire che le università sono assorbite all’interno dello Stato. Tuttavia cominciano anche a disegnarsi delle trasformazioni che consentono alle università di riguadagnare un certo grado di potere e perciò di autonomia. E’ ben vero che nel corso del XIX secolo si ha un grande sviluppo delle scienze giuridiche e amministrative, in particolare in Francia, in Italia e in Germania. In Gran Bretagna invece non si va di pari passo poiché vi è chi si oppone al diritto amministrativo ritenendolo il prodotto dei regimi assoluti (7). Infatti, come nel Primo  Impero francese, instaurato nel 1804, il diritto amministrativo significa principalmente il rafforzamento del potere pubblico nei confronti dei cittadini, dei terzi contraenti e degli stessi dipendenti pubblici, nonché la centralizzazione dell'attività amministrativa in senso tendenzialmente monopolistico con eccesso di potere regolamentare dell’esecutivo.
E’ intorno agli inizi del XIX secolo che generalmente si riconosce l’affermazione dell’istruzione universitaria come istituzione socialmente necessaria, e pertanto potenzialmente estesa a strati della popolazione sempre più larghi. Si riconosce parimenti che sono la Germania, la Francia e la Gran Bretagna (e gli Stati Uniti, assimilabili in questa situazione alla Gran Bretagna) i Paesi che vedono delinearsi i prototipi dell’università contemporanea e, a seguire, il suo peculiare processo evolutivo. Non casualmente in questi stessi Paesi avvengono contemporaneamente le rivoluzioni che si definiscono filosofica in Germania, politica in Francia, industriale in Gran Bretagna (4).
In Germania e in Francia l’università è ristrutturata ab imis. In Germania su presupposti filosofici: la visione di un’università come comunità di liberi ricercatori, insegnanti e allievi che lavorano, in solitudine e in libertà, all’elaborazione di una scienza funzionale per sé (8). In Francia a partire da motivazioni politiche: le università sono abolite nel 1793 dalla rivoluzione francese e poi l’istruzione superiore è ricostituita su nuove basi fino all’istituzione napoleonica dell’università imperiale nel 1806. Entrambi i cambiamenti trovano comunque attuazione per decisioni dell’esecutivo. In Gran Bretagna, invece, il mutamento avviene più autonomamente con gradualità e non per intervento politico o per forti influenze culturali, ma, specie nella seconda metà del secolo XIX, per effetto dello sviluppo dell’industrializzazione, dunque per effetto delle stimolazioni socio-economiche della c.d. rivoluzione industriale.
L’originalità e la validità delle idee ispiratrici delle trasformazioni dell’università in Germania sono confermate dal fatto che esse costituiscono, ancor oggi, parte integrante della politica per l’istruzione superiore anche in altri Paesi, sebbene i principi originali non siano sempre stati rispecchiati nella loro realizzazione pratica (9). In Germania gli anni decisivi per l’evoluzione del sistema universitario sono quelli del primo decennio del XIX secolo, durante i quali è W. Von Humboldt a reggere il dipartimento dell’istruzione e del culto del ministero prussiano dell’interno. Le idee guida, essenziali per il processo di realizzazione di un’università moderna ed efficiente, sono state innanzitutto quelle dedotte dalla nozione di università vista sotto il profilo di un’istituzione per l’educazione e la formazione accademica che interagisce con uno spazio culturale che travalica gli angusti confini del singolo Stato nazionale. E’ stata proprio l’idea di un “ente senza confini” a suscitare un forte interesse a livello internazionale. Molti Stati europei hanno impresso in questa direzione una forte spinta innovativa dalla quale mutuarono gli elementi strutturali più importanti. In effetti, il contributo maggiore per il superamento di un modello “nazionale” è derivato dalle idee di Humboldt, la cui essenza si può schematicamente condensare nell’unità dell’insegnamento e della ricerca, nella libertà delle arti e delle scienze e, soprattutto, nell’autonomia delle università di disciplinare i propri affari interni e accademici (10). Il tratto saliente del modello tedesco consisteva nell’unificare in una sola istituzione l’insegnamento e la ricerca scientifica in funzione di una preparazione, non puramente professionale e burocratica né completamente slegata dalle esigenze e dai bisogni del tempo, ma che fosse destinata alla crescita culturale della nuova borghesia tedesca in formazione. Gli altri punti distintivi, che hanno fatto del modello tedesco un esempio cui ispirarsi, sono la spiccata autonomia, la dichiarata libertà di ricerca, lo stretto collegamento fra scienza e insegnamento, e infine, ma non ultimo per importanza, la concomitanza delle proprie finalità con le esigenze concrete del potere politico. E’ lo Stato stesso, infatti, che fa convergere con le proprie le finalità dell’istruzione superiore.
In Italia l’iniziativa al cambiamento è stata più politica che culturale: il prototipo è stato quello franco-tedesco, e tale in gran parte resterà per tutto il secolo (4). La legge Casati del 1959 imponeva infatti un principio centralistico e unificatore volto a rimediare alla grande disomogeneità del sistema universitario nazionale. Un’altra opinione è che l'impianto della legge Casati, pur inteso a garantire “un sistema medio di libertà”, fosse sostanzialmente ispirato dai principi di accentramento statalistico del modello francese napoleonico (11). Modello che si giustificava per porre rimedio a un sistema con un numero di università eccessivo per quei tempi. Nel 1861 vi erano ben 20 università nel nuovo Regno d’Italia, il Paese europeo con il maggior numero di università in rapporto alla popolazione (12) e, insieme, con grandi differenziazioni qualitative al suo interno (13). Differenziazioni dovute ancora nella prima metà dell’Ottocento all’assenza di uno Stato unitario come invece esisteva in Francia, Inghilterra e Germania.
La legge Casati appariva funzionale più che alla garanzia delle libertà intellettuali o allo sviluppo dell’istruzione superiore, alla regolamentazione di alcuni tratti essenziali, organizzativi e funzionali, di un’attività da poco divenuta uno dei nuovi compiti dello Stato (3). Il tentativo di rendere omogeneo, centralizzandolo, il sistema nazionale universitario non ebbe tuttavia molto successo: agli inizi del XX secolo in più della metà degli atenei italiani vigevano ancora, di fatto, le normative e gli statuti risalenti a prima dell’unità. Altrettanto si può dire per i tentativi di introdurre ordinamenti autonomi, com’era nei propositi degli innovativi disegni di legge Baccelli, in particolare quello del 1885, n. 67 “Sull’autonomia delle Università, Istituti e scuole Superiori del Regno”. Peraltro Silvio Spaventa nei suoi interventi parlamentari dell’epoca giudicava un “pregiudizio” il concetto di autonomia delle università che solo quasi cinquanta anni dopo fu introdotto in un testo normativo con la Riforma Gentile.

L’evoluzione nel XX secolo e l’affermarsi dell’autonomia
E’ nel secolo XX che avviene la riforma di maggior spessore per effetto di un grande progressivo aumento delle iscrizioni, tale infine da potersi definire di massa. La tradizionale funzione sociale di formazione delle élite (“scuola di comando” per chi è destinato a gestire nello Stato tecniche e strumenti di governo) muta dunque in un insegnamento superiore di massa. E ciò avviene a causa dell’allargamento della domanda che s’impone abbastanza imprevedibilmente ma inesorabilmente come diritto all’istruzione universitaria (14) che ormai coinvolge quasi un terzo dei giovani al livello post secondario. In questo mutamento sono coinvolte, quali protagoniste del nuovo assetto politico-sociale, le grandi corporazioni produttive e finanziarie che connettono sempre più strettamente l’università alla civiltà industriale. L'università deve formare professionisti e stimolare le capacità produttive e perciò istituzionalmente diventa anche, e spesso prevalentemente, "scuola di mestiere" (15).
In questo nuovo assetto, che rafforza il rapporto e la cooperazione tra mondo produttivo e accademia, la quale non è più solamente un braccio dello Stato, emerge una maggiore esigenza di autonomia e di emancipazione dai vincoli dei poteri pubblici. L’affermarsi dell’autonomia necessita tuttavia di una valutazione interna e di una esterna per garantire la qualità del funzionamento generale, dell’offerta formativa e della ricerca dell’istituzione, e per consentire di stabilizzare e incrementare i suoi finanziamenti.
Il dibattito sull’autonomia delle università non riguarda la libertà accademica o scientifica, che in Italia è anche un principio sancito dalla Costituzione, ma la capacità gestionale delle università stesse. Le università hanno adesso raggiunto un’autonomia sia di carattere amministrativo, didattico e scientifico, sia finanziario. Ogni università ha una personalità giuridica e un bilancio proprio.