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Luci ed ombre nelle università americane ed europee PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 3 - 2007

Nel mondo vi sono più di 80 milioni di studenti universitari e circa 3,5 milioni di persone si occupano di loro, compresi ovviamente i professori. La Banca Mondiale calcola che la spesa complessiva per l’istruzione superiore, o alta formazione, raggiunga i 300 miliardi di dollari l’anno, ovvero rappresenti l’1% della produzione economica globale. L’istruzione superiore sta seguendo la tendenza dell’istruzione secondaria: sta diventando un’aspirazione universale. La trasformazione dell’università d’élite nell’università di massa ha imposto e continua ad imporre agli atenei cambiamenti fondamentali per una serie di moventi.
Il primo è la democratizzazione dell’insegnamento superiore, la cosiddetta massificazione. Nei Paesi dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) la percentuale di adulti con laurea è quasi raddoppiata nel periodo 1975-2000, passando dal 22% al 41%. In Italia la percentuale dei laureati sulla popolazione generale è aumentata del 33% negli ultimi tre anni, pur restando tra le più basse d’Europa. Nei Paesi in fase di forte sviluppo, come la Cina e l’India, la popolazione studentesca è quasi raddoppiata nella seconda metà degli anni ’90.
Il secondo movente è la crescita della “knowlwdge economy”, una sorta di rivoluzione morbida in cui la conoscenza sta sostituendo le risorse fisiche come principale elemento motore dello sviluppo economico. L’OCSE calcola che dal 1985 al 1997 il contributo delle industrie basate sulla conoscenza al valore aggiunto totale sia cresciuto dal 52% al 59% in Germania e dal 45% al 51% in Gran Bretagna. Le università sono tra i motori più importanti della “knowledge economy”, non solo perché producono i “brainworker” che la governano, ma anche perché possono fornire la maggior parte della sua struttura portante, dai laboratori alle biblioteche alle reti di computer.
Il terzo movente è la globalizzazione, cioè la tendenza, in questo caso di fenomeni sia culturali che economici, ad assumere dimensioni mondiali. Per la riduzione delle distanze, i cittadini dei Paesi dell’OCSE che studiano all’estero sono raddoppiati negli ultimi venti anni, arrivando quasi a due milioni. Molti Paesi, in special modo l’Australia e la Nuova Zelanda, cercano di trasformare l’istruzione superiore in un’industria d’esportazione. Gli studenti stranieri hanno un valore triplo: pagano tasse alle università, spendono per mantenersi e possono anche finire per fermarsi stabilmente. L’internazionalizzazione degli atenei ha enormemente ampliato le esperienze di mobilità di studenti e ricercatori. Varie iniziative dell’UE incoraggiano i giovani a studiare in altri Paesi europei: oltre un milione di studenti ha già beneficiato del programma Erasmus. In Italia, per i ricercatori, data la scarsità di mezzi o le non rare carenze nella promozione dei più meritevoli, prevale l’esportazione dei migliori “cervelli” sull’importazione di studiosi di pari capacità. Tuttavia, negli ultimi anni, la situazione è migliorata e sono rientrati o venuti in Italia, a lavorare nelle nostre università, 416 studiosi in prevalenza italiani (70%).
Il quarto movente è la competizione. Le università tradizionali sono costrette a mettersi in gara per acquisire studenti e sovvenzioni per la ricerca. Negli USA i cortili dei campus conoscono da sempre le sponso­rizzazioni di McDonald's, Nike, Burger King, Kellog's, e fanno un uso costante di campagne pubblicitarie per reclutare gli studenti. In Italia, finora, il marketing era rimasto fuori della porta. Ma ora sono frequenti, su Internet, radio e giornali, gli annunci degli atenei e delle facoltà che sgomitano per assicurarsi nuove matricole. Le università cercano sempre più di autofinanziarsi. In Italia, il finanziamento statale è di regola largamente preponderante, ma un segno di cambiamento è che oggi in almeno trenta atenei il contributo dello Stato e degli Enti locali alle università è diventato una percentuale delle entrate inferiore al 65%. Il restante è costituto da contribuzioni private, mentre quelle degli studenti sono per lo più £10%. Non abbiamo ancora imitato alcuni Paesi europei, come la Gran Bretagna e la Germania, che hanno da poco aumentato o tentato di aumentare in modo consistente le tasse studentesche superando anche forti resistenze. Inoltre nel nostro Paese il sistema di incentivi alle imprese per trasferire risorse alla ricerca universitaria è minimale se paragonato a quello che incentiva le università degli USA.
A riflettere su questi problemi aiuta il confronto tra i sistemi universitari dell’America e dell’Europa.

Luci e ombre nel sistema universitario degli Stati Uniti d’America

L’Istituto d’Istruzione Superiore presso l’Università Jiao Tong di Shanghai, che classifica ogni anno le 500 università migliori di tutto il mondo in conformità a vari criteri oggettivi, come il numero di premi Nobel e le pubblicazioni su riviste prestigiose, inquadra diciassette università degli USA tra le venti più qualificate. Le università degli USA impiegano attualmente più dei due terzi dei vincitori di premi Nobel, pubblicano quasi un terzo dei lavori scientifico-tecnici (dato relativo al 2001) e quasi la metà dei lavori citati più frequentemente. Nel contempo, negli USA, frequentano l’istruzione superiore una percentuale di cittadini superiore a quella di qualsiasi altra nazione.
Quasi la metà (44%) dei giovani americani che s’iscrivono all'educazione post-secondaria scelgono un corso universitario biennale (community college). Le iscrizioni nei college biennali sono aumentate da 3,9 milioni (autunno 1975) a 5,5 milioni nel corso degli anni '90, e sono in aumento nel presente decennio. Il 49% di tutti gli studenti universitari appartenenti a minoranze razziali o etniche frequentano i community college.
Gli studenti scelgono il college biennale per diversi motivi, specialmente per la vicinanza, i costi contenuti e la politica di libero accesso. I community college si trovano nelle comunità dove gli studenti vivono e lavorano ed offrono una formazione post-secondaria di alta qualità con tasse scolastiche annuali che in media si aggirano attorno a 1500 $. I college biennali offrono anche limitate possibilità di ricerca. La ricerca non rientra in genere nei compiti della maggior parte dei college biennali, ma capita che singoli docenti si dedichino anche alla ricerca per migliorare il loro profilo professionale. Pertanto in alcuni college biennali è possibile che lo studente sia coinvolto da docenti nella ricerca guidata. I college biennali sono l’istituzione privilegiata per iniziare una carriera orientata all'insegnamento.
Mentre alcuni studenti scelgono la laurea breve in vista di un'immissione immediata nel mondo del lavoro, altri pensano già ad una specializzazione e prendono nel community college un associate in arts degree o un associate in science degree per passare poi ad un college quadriennale (college of education) o ad un’università per completare gli studi atti a conseguire un bachelor's degree, la laurea di primo grado. Ottengono il bachelor's degree un terzo dei giovani in età di entrare ai college e circa un terzo di questi ultimi continuano poi gli studi per conseguire una laurea di secondo grado. La maggioranza degli undergraduate (studenti che non hanno ancora conseguito la laurea di primo grado) sono femmine, un terzo appartiene alle minoranze razziali, un quinto proviene da famiglie con redditi al limite della o sotto la soglia di povertà e quattro quinti lavorano per mantenersi agli studi.
Questa rosea situazione dell’istruzione superiore ha sicuramente alla base una ragione economica. Infatti, gli USA spendono per studente più del doppio della media dei Paesi dell’OCSE, ossia circa 22.000 $ contro 10.000 (dati del 2001) e altre entrate provengono costantemente da ex-allievi e filantropi (nel 2004 le donazioni private alle università assommavano ad oltre 24 miliardi di dollari). Ma la ragione principale risiede nell’organizzazione, che si fonda su alcune prerogative quasi esclusive.
La prima è il limitato intervento del governo federale. Non vi è una programmazione centrale degli atenei e i docenti non sono pubblici dipendenti. I principali sostenitori (patrons) dell’università sono i governi degli Stati della confederazione, gli enti religiosi, gli studenti che pagano le tasse e i filantropi generosi come lo furono C. Vanderbilt e J.D. Rockefeller. Tuttavia, il governo federale impegna sempre molti miliardi nella ricerca, spende più di 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare gli studenti ed ha emanato di tanto in tanto leggi per potenziare l’istruzione superiore. Ad esempio, una legge federale del 1946 ha messo l’università alla portata di tutti i cittadini.
La seconda è la competizione ad oltranza. Gli atenei competono per accaparrarsi qualunque cosa, dagli studenti ai professori ai campioni di pallacanestro. I professori competono per i fondi di ricerca (grants) e gli studenti per le borse di studio nei college o per la ricerca.
La terza prerogativa è il profitto. La mentalità pratica diffusa nella cultura accademica enfatizza tutto ciò che “paga dividendi”, che procura frutti economici. Più di 170 università hanno qualche tipo di incubatore d’affari, molti dei quali manovrano propri capitali di rischio. Gli USA sono stati pionieri nell’arte di creare legami università-industria e le università guadagnano più di un miliardo di dollari l’anno per diritti di brevetto.
La quarta prerogativa è la flessibilità della gestione economica, che, ad esempio, consente di reclutare professori superstar o di scoprire e sfruttare nicchie di mercato.
E’ indubbio che il successo dell’università americana nel combinare l’eccellenza con gli accessi di massa risiede in gran parte nel sistema di governo (governance). Il potere negli atenei è in mano ad un’amministrazione centrale, che, nella persona di un presidente, controbilancia il potere degli accademici e consente alle università di agire come aziende imprenditrici. Ma un altro motivo del successo è la grande varietà dei tipi di istituzioni dedicate all’istruzione superiore. Ve ne sono 3.200, di cui non più di 100 votate quasi esclusivamente alla ricerca (research universities) e più di 1.100 costituenti i community college, i college biennali (“il meglio dell’America” secondo il penultimo presidente degli USA), che producono poca ricerca ma forniscono una formazione di base molto utile per l’accesso alla formazione post-secondaria di alta qualità.
Le critiche, che emergono anche da dentro il sistema, riguardano prima di tutto i professori. Nelle università d’élite, ad esempio ad Harvard, che appartiene alla Ivy League (gruppo di otto università di grande prestigio del nord-est degli USA), sono pochi i professori che insegnano esaurientemente i contenuti dei corsi principali, mentre molti insistono troppo sui loro temi preferiti senza riguardo a ciò che gli allievi hanno necessità di imparare. Inoltre vi sono molti professori disimpegnati e troppi assistenti sovraccarichi di lavoro. I professori sono più dediti alla ricerca che all’insegnamento perché ciò è più conveniente per migliorare il loro curriculum accademico. Ma la ricerca libera e trasparente trova spesso ostacoli negli scienziati per ragioni commerciali più che ideologiche. Ad esempio, nel campo medico-farmaceutico, può accadere che gli sponsor pretendano che le ricerche finanziate siano pubblicate in ritardo o censurate in alcune parti per non permettere alla concorrenza di conoscerle in tempo utile.
Un altro punto critico riguarda le tasse d’iscrizione universitarie, diventate troppo esose per l’americano medio. In un trentennio le tasse sono più che raddoppiate nei college biennali pubblici e nei college quadriennali privati. Tuttavia, sebbene le università d’élite pratichino sconti considerevoli agli studenti con un reddito familiare medio-basso, esse sono poco incentivate a competere sulle tasse e preferiscono competere con le dotazioni costose, come i professori famosi e le palestre modernissime, che fanno salire ulteriormente il costo dell’istruzione. D’altra parte anche le università pubbliche, che cercano meritevolmente di favorire gli studenti bisognosi, sono costrette ad aumentare le tasse d’iscrizione perché i fondi pubblici continuano a diminuire anche per via della riluttanza degli americani a pagare maggiori imposte. Ad esempio, all’università della Virginia, la quota di partecipazione dello Stato al suo finanziamento è diminuita da circa il 28% del 1985 a circa l’8% del 2004. Il risultato è che le tasse universitarie gravano di più su quelle famiglie della classe media che sono troppo benestanti per poter accedere a sconti.
Sembra in declino anche il criterio meritocratico per l’accesso all’università. Le università d’élite danno la precedenza agli atleti, ai giovani che vi possono entrare presto perché di famiglie molto ricche e ai figli di ex-allievi facoltosi. Queste università private socialmente esclusive e piene di fondi si accaparrano i migliori professori e il brain drain verso di esse impoverisce le università pubbliche. Lo dimostrano le statistiche: in meno di vent’anni le università pubbliche classificate al top sono scese da ventisei a quattro soltanto.
Una seria minaccia alla qualità dell’istruzione superiore americana viene anche dal declino del principio della competizione nella ricerca. A partire dagli anni ’80, il principio della competizione aperta e della revisione tra pari (peer review) nell’assegnazione dei grant, è stato eroso dalle università mediante azioni di lobbismo (lobbying) sui membri locali del Congresso per ottenere assegnazioni dirette di fondi. Tanto che la somma di denaro, derivante dal budget federale per la ricerca, aggiudicata senza una base competitiva è salita da 1 miliardo di dollari nel 2000 a 2 miliardi nel 2003.
Nei 50 anni passati l’America ha dominato il mercato degli studenti stranieri, ma dal 1997 assiste ad una loro riduzione, in gran parte per la concorrenza di università di altri Paesi. Alcuni Paesi europei offrono corsi di laurea american-style e in lingua inglese. Comunque, questa concorrenza ha fatto aumentare la competizione tra università per attirare studenti dall’estero, e verosimilmente aumenteranno quelli provenienti da Paesi in via di sviluppo man mano che le loro classi medie si arricchiscono e non trovano sufficiente accoglienza per i figli nelle università locali.
Luci e ombre nel sistema universitario dell’Europa.
La costruzione dell’area comune europea dell’alta formazione e della ricerca è un’iniziativa intergovernativa, lanciata alla Sorbona nel 1998, continuata a Bologna nel 1999, a Praga nel 2001, a Berlino nel 2003 e a Bergen nel 2005.
Ventinove Paesi europei con la Dichiarazione di Bologna, firmata nel 1999, si sono accordati per creare entro il 2010 l’area comune europea dell’alta formazione introducendo qualificazioni comparabili e crediti trasferibili. Cruciali per la costruzione di quest’area sono le convergenze delle strutture educative nazionali e la ricerca di punti di similitudine tra i vari soggetti educativi. Per avere una maggiore flessibilità nei processi di qualificazione dell’insegnamento, si è ritenuta necessaria l’adozione di comuni pietre miliari di qualificazione, sostenute da un sistema di crediti come l’ECTS (Sistema europeo di trasferimento dei crediti), in grado di garantire sia una funzione di trasferibilità che di accumulo. Un sistema di crediti è semplicemente un sistema che facilita la misura e il confronto tra i risultati dell’apprendimento ottenuti in strutture, corsi di studio e ambienti d’apprendimento diversi. Questi accordi, assieme a meccanismi reciprocamente accettati di controllo di qualità, sono tesi a facilitare l’accesso degli studenti al mercato comune del lavoro europeo e ad aumentare la compatibilità, l’attrazione e la competitività del sistema europeo d’alta formazione. Il già ricordato programma Erasmus ha inoltre favorito grandemente la mobilità degli studenti tra gli Stati dell’UE.
Per migliorare le proprie disponibilità economiche, le università della Germania e della Gran Bretagna hanno fatto passi avanti nel cercare di garantirsi maggiori entrate con aumenti delle tasse studentesche. La Corte costituzionale della Germania si è pronunciata contro il divieto del governo federale di imporre tasse agli studenti, ma la resistenza del governo continua. Nel periodo 2002-2004 gli studenti stranieri in Germania sono aumentati del 23%, verosimilmente attratti dall’assenza di tasse che vale finora anche per chi proviene dall’estero.
Le università della Gran Bretagna hanno ottenuto dal Parlamento di stabilire tasse d’iscrizione d’importo variabile, il cui pagamento da parte degli studenti può essere posticipato. Se un’università, ad esempio, sceglie di far pagare agli studenti la tassa massima di 3.000 sterline l’anno, gli studenti non saranno costretti a pagarla finché non raggiungeranno una certa fascia di reddito. Per il progetto d’allargamento dell’accesso universitario ci saranno dei fondi aggiuntivi messi a disposizione dal governo. Sarà inoltre creata la figura del “Regolatore dell’accesso” (Access Regulator): se le politiche per incentivare l’accesso messe in opera da una certa università non soddisfano i requisiti previsti dal governo, l’Access Regulator può far sospendere l’erogazione di parte dei finanziamenti governativi destinati a quella università. Inoltre nei campus inglesi sta prendendo piede la figura dell’imprenditore accademico dedito a procacciare finanziamenti privati.
La Gran Bretagna, nella classificazione di Shangai già ricordata, è la sola a distinguersi in Europa con due università tra le prime dieci migliori, Cambridge al terzo e Oxford all’ottavo posto, e con quattro università tra le prime trenta migliori.
Nei Paesi dell’OCSE, la GB emerge anche per l’elevato numero di studenti che si laureano e nel periodo 2002-04 gli studenti stranieri sono aumentati del 21%. Tuttavia in GB si tenta ulteriormente di allargare il numero d’iscrizioni universitarie, secondo una politica governativa che mira ad ottenere che almeno il 50% della fascia d’età compresa tra i 18 e i 30 anni s’iscriva all’università. Allo stato attuale tale fascia è intorno al 35-40%.
In GB, è ancora in discussione il progetto, denominato White Paper on Higher Education, promosso nel 2003 da Margaret Hodge, l’ex-ministro dell’università. Il White Paper rappresenta il documento di riferimento per la nuova riforma universitaria in GB e la filosofia sostanziale del progetto vuole che i fondi extra destinati alle università portino ad un riconoscimento a livello internazionale. La Hodge aveva in mente un sistema di università d’élite sul modello della Ivy League statunitense, al quale verrebbe destinata la gran parte dei fondi per la ricerca. Infatti, il White Paper prevede anche lo sviluppo di 70 centri di insegnamento ed apprendimento d’eccellenza che riceveranno ulteriori fondi da parte del governo. Questo dovrebbe portare ad una biforcazione del sistema: da un lato, università di altissimo livello, che potrebbero portare avanti progetti di ricerca altamente qualificati; dall’altro, una pletora di istituzioni accademiche in cui l’insegnamento non sarebbe accompagnato dalla ricerca.
Le università della Gran Bretagna soffrono ancora di due condizioni vessatorie, secondo The Economist. La decisione del governo di migliorare la produttività accademica ha creato una “burocrazia stalinista” di revisori dei conti che non sanno distinguere nelle pubblicazioni tra articoli superflui e ricerche autentiche; parimenti il desiderio del governo di aprire gli accessi all’istruzione superiore sta creando una seconda “burocrazia stalinista” nell’”Ufficio del Giusto Accesso” (Office for Fair Access).
Le nuove università della GB (gli ex-politecnici che sono diventati università a tutti gli effetti nel 1992) al momento della loro creazione ricevettero molti fondi per dare un forte impulso iniziale alla ricerca, ed hanno di conseguenza potuto fare notevoli passi in avanti. Il nuovo progetto di riforma prevede tre livelli di classificazione qualitativa (eccellenza a livello nazionale; eccellenza a livello internazionale; massimo livello d’eccellenza). Ma il progetto non farebbe altro che dequalificare nuovamente queste nuove università, soprattutto per quanto riguarda proprio la ricerca, poiché dirotterebbe la maggior parte dei fondi verso le università d’élite. Il rapporto Roberts, pubblicato nel 2003, sostiene invece che la ricerca d’eccellenza dovrebbe essere riconosciuta ovunque si trovi, quindi anche nelle nuove università.
Altra condizione negativa è l’inesorabile restrizione dei fondi. Negli anni ’90 la spesa per studente in GB è diminuita di più di un terzo, mentre il rapporto studente-docente è raddoppiato, da 9:1 a 18:1. Nel corso dei due ultimi decenni gli stipendi dei professori sono scesi del 2% circa l’anno, mentre cresceva alquanto l’esercito dei lecturers (docenti a contratto) a tempo parziale. La metà degli atenei della GB sta andando in deficit e ciò mina la possibilità del Paese di dotarsi di un’università di elevato livello mondiale. Inoltre alcuni tra i migliori allievi sono stati perduti perché emigrati in Paesi concorrenti.
Per la distribuzione dei fondi alle università, il governo della GB impone limiti significativi all’organismo responsabile, l’Higher Education Funding Council for England (HEFCE). Ogni anno l’HEFCE riceve una lunga lettera d’indirizzo programmatico da parte del governo in cui sono specificate le priorità governative. Tempo addietro le università britanniche erano invece quasi completamente libere da vincoli politici, grazie all’University Grants Committee (UGC). L’UGC era un organismo di esperti, gestito secondo il cosiddetto arm’s length principle, cioè tenendo i politici a “distanza di braccio”, ossia indipendente dal potere politico.
In Italia, dall'osservazione comparata dei tassi di scolarizzazione, emerge che un numero limitato di per­sone è in possesso di un titolo di laurea: infatti, nella classe di età 25‑64 solo 1’11% è in pos­sesso di tale titolo, a fronte di valori più elevati di altri pae­si dell'UE (24% in Francia e Germania; 29% in Gran Bretagna). In Italia la riforma dei cicli di studio ha migliorato la situazione preesistente che vedeva il 70% degli studenti iscritti non conseguire la laurea. Nell’ultimo anno gli immatricolati sono aumentati di oltre il 13%, nonostante il calo demografico dei diciannovenni del 12%, gli abbandoni si sono ridotti al 40% e si sono ridotti anche i tempi di laurea. Tra il 1987 e il 2004 il numero delle lauree conseguite è pas­sato da 78.000 a 269.000. Un altro dato positivo è l'au­mento negli ultimi tre anni del numero dei licenziati dalla scuole superiori che decidono d'iscriversi all'Università: dal 66,5% del 2000 al 72,8% del 2001, per­centuale. poi stabilizzatasi sul 76%.
Sul fronte risorse, tra i1 2001 e il 2003 gli atenei italiani han­no mostrato di saper attrarre maggiori fondi dall’esterno, attraverso convenzioni e vendita di servizi a imprese e istituzioni (+17,6%), e grazie anche a un aumento delle tasse pagate dagli studenti (+ 21,5%). Il Fondo di finanzia­mento ordinario dell’università, è passato da 6 miliardi e 163 milioni di euro del 2001 a 6 miliardi e 933 milioni del 2005, con un incremento del 13%.
Tra il 1990 e il 2004 i docenti universitari sono aumentati del 31,8%. Quest’aumento, di per sé positivo, ha tuttavia portato, insieme alla riforma dei cicli di studio, ad un’eccessiva proliferazione dei corsi di laurea, molti dei quali sono inutili ripetizioni o hanno troppo pochi studenti. La proliferazione dei corsi di laurea si avvia per fortuna ad un opportuno anche se tardivo e limitato ridimensionamento. I corsi di laurea di primo livello, che erano ben 3.150 al 30 ottobre 2003 (contro gli 850 in tutto della Germania), nel 2003‑2004 sono diventati 3.335. I corsi di laurea specialistica, che erano 533 nel 2002-2003 sono arrivati a quota 1.204 nel 2003‑2004. Il fenomeno peraltro non è nuovo: da più di trent’anni vi è l’incontenibile tendenza alla moltiplicazione delle sedi d’insegnamento con nuove università, filiazioni o gemmazioni di università esistenti. Non c’è capoluogo di provincia o centro di qualche decina di migliaia d’abitanti che non aspiri ad avere il proprio miniateneo. Oltre allo spreco di denaro pubblico che l’eccessiva frammentazione ha determinato, ci sono stati due effetti negativi, ha osservato Livi Bacci: “L'università «alla porta di casa» ha abbassato enormemente la mobilità dei giovani, spinti a studiare nella sede vicina a casa, privandoli di utili esperienze di autonomia. Ciò dipende anche dalle carenze del sistema di accoglienza fuori sede, che offre posti letto solo per il 2% degli studenti, contro il 7-10% della Francia e della Germania. La scarsa offerta nelle piccole sedi, inoltre, ha distorto le scelte dei giovani che si sono indirizzate verso i pochi corsi esistenti localmente”, spesso non adeguati alle loro attitudini ed aspirazioni professionali. Inoltre i numeri parlano di una costante diminuzione d’interesse dei giovani per i percorsi universitari a contenuto scientifico e per incentivare le iscrizioni alle facoltà scientifiche è stato presentato nel 2004 il "Progetto Lauree Scientifiche" promosso dal MIUR, dalla Confindustria e dalla Conferenza Nazionale dei Presidi di Scienze.
Secondo la relazione annuale (settembre 2005) del presidente della CRUI, la produzione scientifica italiana, purché la si valuti a parità di numero di ricercatori, è allineata alla media europea sia per pubblicazioni che per brevetti. Sulla base del fattore d’impatto (Impact Factor), cioè del numero di citazioni che essa riceve, la produzione scientifica dei migliori scienziati italiani, confrontata con quella dei migliori del mondo, si attesta come media intorno al 15% superiore alla media mondiale. L’Italia risulterebbe avere un rapporto "pubblicazioni / ricercatore" e "citazioni / ricercatore" tra i più alti in assoluto. Contrastano con queste affermazioni i dati riportati da Perotti et al., secondo i quali un’analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualità della produzione scientifica italiana è modesta. La definizione di ricercatore include infatti una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei Paesi sud-europei inclusa l’Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) e in quasi tutti gli altri Paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici, l’Italia ha rapporti "pubblicazioni / ricercatore" e "citazioni / ricercatore" ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca. Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro Impact Factor. Per numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001 l’Italia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.
Se ci riferiamo ai dottori di ricerca per ogni 1000 individui tra i 25 e i 35 anni, il numero di dottori di ricerca in Italia è pari soltanto al 24% rispetto alla Francia, al 23% rispetto alla Germania e al 22% rispetto alla Gran Bretagna. Tuttavia, nella partecipazione ai programmi europei di Erasmus Mundus, che prevedono la formazione internazionale dei dottori di ricerca, l’Italia è il terzo Paese europeo per successo nella partecipazione, il secondo per progetti coordinati.
Per ricerca e sviluppo, secondo la classifica dell’OCSE, sui 20 Paesi presi in considerazione l'Italia figura 17esima per l'intensità totale di ricerca e sviluppo, 19esima per la ri­cerca e sviluppo delle imprese, 17esi­ma per la ricerca pubblica, 19esima per l'occupazione di scienziati, 18esi­ma per l'occupazione complessiva nel­la ricerca e 18esima per i brevetti.
In Francia il percorso universitario è da tempo costituito da tre cicli e l’iscrizione all’università è libera. Il nuovo schema adottato nel 1999 è noto come LMD, ossia Licence – Master – Doctorat. Lo Stato garantisce la qualità dei diplomi autorizzando le istituzioni francesi a rilasciarli soltanto dopo una valutazione nazionale periodica, ogni 4-6 anni. Mentre il numero degli studenti autoctoni è rimasto sostanzialmente invariato dal 1995 al 2002 (2.160.000), gli studenti stranieri sono aumentati da 136.500 nel 2001 a 180.000 nel 2003 e nel periodo 2002-2004 sono cresciuti del 28%. La collettività nazionale ha speso per l’insegnamento superiore 16,6 miliardi di euro (dati relativi al 2001), di cui il 62,8% erogati dal ministero della pubblica istruzione. Ogni studente universitario costa alla collettività in media 6.590 euro l’anno.
La Francia si è impegnata, con gli altri part­ner europei, a compiere nei prossimi anni uno sforzo notevole per portare gli investi­menti in ricerca e sviluppo dall’attuale 2,2% del Pil al 3% nel 2010, con una tappa intermedia del 2,6% nel 2006. Una progressione che si scon­tra però con un’allocazione di fondi al budget della ricerca rite­nuta ancora largamente insuffi­ciente, ma soprattutto con un’organizzazione della ricerca pubblica che manca di progetti sul lungo periodo e che naviga quindi a vista, spre­cando oltretutto quelle piccole risorse di cui gode ancora oggi. Oltre al fatto che secondo alcuni osservatori, come riferisce Calcaterra, è lar­gamente insufficiente la collabo­razione e il dialogo tra la ricer­ca pubblica e quella privata, va­le a dire tra quella di base e quella applicata, per cui si assi­ste a uno spreco continuo di risorse umane e di mezzi. Tuttavia il bu­dget della ricerca, che nel 2003 era stato ridot­to dell’1,3%, è stato invece aumenta­to del 3,9% nella finanziaria 2004 (per un totale di 35,9 miliardi di euro di cui 15,9 per la ricerca pubblica e di questi 3,7 miliardi per il settore mili­tare) grazie soprattutto alla crea­zione di un fondo speciale di “priorità per la ricerca” dotato di 150 milioni provenienti da una parte degli introiti delle privatiz­zazioni. I ricercatori contestano che in realtà i fondi di dotazione dei vari centri, come il Cnrs e 1’Inserm, sono stati pesantemente ridotti (fino al 40%), così co­me sono stati tagliati centinaia di posti di lavoro. Una recente proposta vuole creare un’Agenzia nazionale, sul modello della National Science Founda­tion americana, che avrà il com­pito di definire le missioni e l’orientamento della ricerca del Paese. Così come si sta studian­do la possibilità di "spingere" su poli scientifici d’eccellenza e campus universitari a carattere sperimentale. Una legge sull’innovazione e la ricerca ha invitato tutte le istituzioni dell’alta formazione e della ricerca a impegnarsi per realizzare servizi di attività industriale e commerciale (mission des SAIC).
L’impegno dell’Europa a pianificare entro il decennio una più competitiva knowledge‑based economy è stato ribadito al summit dell’UE tenutosi a Lisbona nel marzo del 2000. Ma i segnali di questa tendenza tardano a mostrarsi se si considerano le qualifiche degli atenei europei, salvo alcuni della Gran Bretagna già ricordati. La famosa Humboldt-Universität di Berlino si posiziona al 95simo posto nella classifica di Shanghai. Tra l’altro, quest’università, che aveva ospitato ben 29 premi Nobel fino al 1956, da quell’anno non ne ha visto più nessuno. La migliore posizione della Germania nella classifica di Shanghai spetta alla Technische Universität di Monaco di Baviera, che tuttavia è solo 45sima. Fra le prime cento figurano alcune università di Svizzera, Dani­marca e Svezia, mentre di italiane ce n’è solo una, La Sapienza di Roma, al 97simo posto. Per tro­varne un’altra si arriva al 143simo posto (università di Milano), poi segue l’università di Firenze al 172simo e quella di Padova al 186simo. I1 Politecnico di Milano si piazza dopo le prime duecen­to, e ancora più indietro ci sono le uni­versità di Napoli e quella di Pi­sa. Fra le prime 500 ci sono 23 università italiane (168 sono americane) e l’Italia conquista l’undicesimo posto nella classifica generale per nazioni.
Il gap di produttivi­tà tra l'economia americana e quella europea è diventato perma­nente. Per au­mentare il contenuto tecnologico nell’economia è necessario dispor­re in anticipo di capacità d’inno­vazione, e questa deriva di solito dalla ricerca universita­ria di frontiera o da quella applica­ta. Questa è perlomeno la migliore esperienza delle università della costa occidentale degli Stati Uniti. In Europa la capacità d’innovazio­ne è calata e nonostante un certo impegno finanziario, è aumentata anche la distanza dalle istituzioni accademiche americane. I migliori giovani laureati europei finisco­no spesso nelle univer­sità dell’Ivy League oltreoceano e spesso non tornano più indietro.
I Paesi europei spendono solamente l’1,1% in media del loro Pil (Prodotto interno lordo) per finanziare l’istruzione superiore (l’Italia solo lo 0,9%) e pertanto non reggono il confronto con gli USA, che arrivano al 2,7%. Di conseguenza le università americane, disponendo di somme da spendere per studente due-cinque volte superiori, possono permettersi aule e laboratori con pochi studenti, migliori professori e una ricerca di qualità più elevata. La Commissione Europea stima che lavorino negli USA 400.000 ricercatori europei, la maggior parte dei quali non avrebbe intenzione di rimpatriare. Per milione di cittadini l’Europa produce solo un quarto dei brevetti rispetto agli USA.
Secondo un’inchiesta di The Economist, l’Europa sta cercando di migliorare il sistema universitario, ma lo fa troppo poco e troppo tardi. Ha fatto progressi scarsi o nulli nell’introdurre tasse studentesche realistiche, nel liberare le università dalla stretta del controllo governativo e nel concentrare la ricerca in università d’élite. Infatti, il problema basilare del sistema universitario è ritenuto il medesimo in tutta l’Europa: “Un eccessivo controllo dello Stato e troppo poca libertà di gestire i propri affari economici. I governi hanno costretto le università ad istruire enormi masse di studenti tirando al risparmio e le hanno private delle due libertà indispensabili per competere nel mercato internazionale: selezionare i propri studenti e pagare i professori secondo parametri di mercato equivalenti al lavoro svolto”.
Ma un’inversione di tendenza si sta profilando anche in Europa. Secondo The Economist, in sette degli otto Paesi dell’OCSE per i quali vi sono dati disponibili, il finanziamento privato è cresciuto più in fretta di quello pubblico. Le università pubbliche stanno acquistando maggiore imprenditorialità e tendono ad imporre o aumentare le tasse d’iscrizione, eventualmente facendo nel contempo prestiti d’onore agli studenti. Le università stanno trasformandosi in operatori commerciali competitivi per attrarre studenti stranieri paganti o per vincere contratti lucrosi. Inoltre stanno sorgendo nuove università private nonprofit. Un caso a parte è il Portogallo, dove le università e i college privati sono arrivati in vent’anni a costituire i due terzi di tutte le istituzioni di alta formazione e ad accogliere il 40% di tutti gli studenti.
L'auspicio della creazione di un nuovo sistema comunitario di sostegno alla ricerca è assai diffuso in Europa. Per finanziare i progetti, ad oggi 1'EU si basa prevalentemente sull'assegnazione di contracts di ricerca a gruppi di ricercatori appartenenti almeno a tre paesi europei, ma esige la predefinizione degli obiettivi (deliverables) e la partecipazione di un alto numero di ricercatori di vari paesi, spesso fino a 25. Ciò è fortemente limitante per lo sviluppo di ricerca altamente innovativa, «a rischio», e aumenta la complessità delle procedure burocratiche. L’istituzione dell'Erc (European Research Council) potrebbe permettere invece, se accompagnata da un'opportuna revisione della normativa vigente, di passare dal regime dei contracts a quello dei grants, sul modello americano, permettendo il finanziamento di programmi di ricerca presentati da un solo gruppo di ricerca, senza obiettivi predefiniti e con una semplificazione burocratica e libertà nei temi proposti.

L’insegnamento online e offline

Negli USA vi sono circa 1,66 milioni di studenti iscritti a corsi con apprendimento a distanza (online education, online o e-learning) e il 43% di questi si trova in college biennali. Questa via alla modernizzazione, che alcuni definiscono “tecnico-utopica”, ha una sua validità, giacché Internet può trasmettere molti dati, fatti, immagini, che aiutano ad apprendere, ma non può insegnare ad argomentare e a ragionare come si può fare in una comunità di discenti dove l’insegnamento si combina con il confronto con i compagni e il colloquio con i docenti, con la ricerca guidata, con l’esercizio di procedure di laboratorio, con la pratica clinica e con l’uso di macchine.
Adottando a tutto campo l’insegnamento via internet, l’università di Phoenix (Arizona, USA) è tuttavia diventata la più frequentata d'America (280.000 studenti in 239 campus), superando di buona misura, almeno sotto questo profilo quantitativo, quelle sui cui muri cresce l’edera (Ivy) della tradizione, le prestigiose università dell’Ivy League. L’università di Phoenix è stata la prima, all’inizio degli anni ’90, ad introdurre l’e-learning, ed il suo successo è dovuto al fatto che si rivolge soprattutto a persone che hanno già un lavoro e vogliono una migliore qualificazione, specie nel settore tecnico o economico. Inoltre l’unica ricerca che vi si pratica è quella che serve a perfezionare le tecniche d’insegnamento. Chi dirige questa università la definisce una ”organizzazione per l’apprendimento” o una “industria dell’istruzione”.
E’ scontato che negli USA sia preferibile laurearsi a Harvard, Princeton e Yale piuttosto che in Arizona. Ma è altrettanto scontato che sia meglio prendere il fatidico pezzo di carta online, magari dopo aver lavorato in ufficio per otto-dieci ore, che non averlo affatto. Il famoso MIT (Massachusetts Institute of Technology) sta mettendo tutto online, gratis. Praticamente ogni corso (sono circa 2000 in totale) sarà online entro il 2010, a disposizione di studenti e docenti che da tutto il mondo vorranno attingervi liberamente. “Non avete paura che i vostri studenti paganti (26.000 $ l’anno) si arrabbino un po’?” - ha chiesto un cronista al presidente del MIT - "Neanche per sogno - ha risposto - il nostro valore principale sta nelle persone e nell’esperienza umana ottenuta dall’interazione tra studenti e docenti nelle aule e nei laboratori. Non credo per niente che stiamo svendendo i contenuti che offriamo ai nostri iscritti: stiamo solo aiutando gli istituti universitari nel resto del mondo”. L’università di Monterrey, in Messico, impiega una combinazione di teleconferenze e di internet per raggiungere più di 70.000 studenti in tutta l’America latina.
Ma il 53% dei 400 partecipanti ad un sondaggio organizzato dalla National Education Association, il più importante sindacato di categoria, che rappresenta 100.000 docenti d'America, ha risposto che è dura, che ci vuole sicuramente più tempo per preparare e impartire corsi online di quanto non lo fosse prima, davanti ad una classe e ad una lavagna. Inoltre lavorare online stanca di più che lavorare offline, in aula, sostengono i professori che hanno provato la differenza tra l'insegnamento tradizionale e quello a distanza: bisogna preparare i corsi attentamente, bisogna rispondere alle mail degli studenti, bisogna scrivere, scrivere, scrivere. A quest’impegno extra dovrebbe corrispondere un adeguato riconoscimento economico.
Negli USA l’e‑learning bubble si sta sgonfiando. La Fathom, una joint venture della Columbia con altre tredici università, Caliber un e-partner della Wharton School, la Virtual Temple e anche la New York University Online, hanno abbandonato questo sistema d’insegnamento.

Un difficile risultato

Nell’università statale di massa s’impone allo Stato una scelta: o erogare i fondi necessari a coprire le maggiori spese o consentire alle università di tassare gli studenti in modo adeguato. Anche migliorare il sistema di governo degli atenei è un passo avanti, ma non può sostituirsi alla mancanza di adeguate risorse. In università con centinaia di migliaia di studenti (ad esempio nell’Anadolu Üniversitesi di Eskisehir, in Turchia, vi sono 530.000 studenti) l’assistenza individuale agli studenti non potrebbe andare oltre la garanzia di un posto a sedere. Tuttavia, a volte si esagera nell’accentuare le mancanze dell’università di massa o nell’enfatizzare la riluttanza degli accademici a adeguarvisi. Su The Economist si è letto di recente che “le università italiane insistono ancora nel pretendere che tutti gli studenti siano esaminati a viva voce da un professore di ruolo, esame che dura in media circa cinque minuti”. E questa è una generalizzazione non molto seria e documentata, oltre che esagerata. Ma si esagera anche nel proporre rimedi tecnologici, come l’introduzione estensiva dell’apprendimento a distanza per abbattere le spese, eliminare i campus e le facoltà a tempo pieno, in pratica per sfollare gli atenei mediante internet.
Per le università che sfuggono, nel mercato del brain business, ad una selezione meritocratica, come accade per le università statali in regime di valore legale dei titoli di studio, un’esigenza molto sentita è la valutazione. La valutazione, per essere veritiera, deve essere condotta da un organismo indipendente esterno non statale che certifichi qualità e trasparenza dell’offerta universitaria, dalla didattica, alla ricerca, ai servizi e all’amministrazione. Ma non è facile rendere efficace una valutazione senza sanzione e, soprattutto, senza abolire il valore legale delle lauree o, in alternativa, senza obbligare le università ad adeguarsi agli standard previsti da organismi imparziali di valutazione e accreditamento.
Il difficile risultato è realizzare un sistema d’istruzione superiore che mantiene un equilibrio tra le due richieste gemellari dell’eccellenza (nella ricerca e nell’insegnamento) e dell’accesso in massa. Un sistema che si fonda su università d’alto livello, ma che contemporaneamente vanno incontro alle richieste di un gran numero di studenti mediamente dotati, università che sfruttano tutte le opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche, ma che riconoscono nello stesso tempo che i contatti umani, le relazioni e le dimensioni umane sono sempre una necessità inderogabile nel processo di formazione.

Fonti bibliografiche

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5) Perotti R., Ichino A., Peri G., Gagliarducci S., Le retribuzioni perverse dell’università italiana. La voceinfo, 27.06.2005.
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10) The Future of Higher Education (o White Paper, documento di riferimento per la nuova riforma universitaria in Gran Bretagna). Gennaio 2003. www.dfes.gov.uk/highereducation/hestrategy.
11) Tosi P., Relazione sullo stato delle università italiane. CRUI, Roma, 20.09.2005.
12) Tripodi A., Sesta indagine del CNVSU (Comitato di valutazione del sistema universitario). Il Sole 24 Ore, 08.09.2004.

Prof. Paolo Stefano Marcato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna