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Il Paese delle lauree PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 3 - 2007

Confrontiamoci con un altro Paese latino. La Spagna offre nelle università pubbliche 2.269 corsi di laurea (dati del 2004-2005 riportati in gennaio da Atlas de la España Universitaria). In Italia l’offerta formativa universitaria è arrivata a 5.434 (A. Monti, Il Mulino, 5-2006; A.M. Sersale, Il Messaggero, 10-11-2006) tra corsi triennali e magistrali. Nel 2000-2001 erano 2444 e perciò sono più che raddoppiati. Tuttavia S. Casillo (Il Sole24oreNova24, 21-12-2006) per l’anno accademico 2005-2006 ridimensiona il dato a 3.063, che sono sempre quasi 800 in più rispetto alla Spagna. In Spagna le 2.269 lauree derivano da 140 ambiti o tipologie disciplinari (carreras), in Italia da 153 (erano 81 nel 2001). In Spagna vi sono 213 sedi universitarie (tra principali e decentrate), una crescita “disordinata e scoordinata” che ha generato una mappa universitaria “più disegnata da spinte politiche e territoriali che dal gioco domanda-offerta”, come si è espresso il presidente dei rettori, Juan Vázquez. In Italia, le 105 province hanno in complesso 336 atenei o loro sedi distaccate, comprendenti 487 facoltà (610 secondo S. Rizzo e G.A. Stella, Corsera 27-12-2006) e 1.864 dipartimenti. In Spagna (a.a. 2004-2005), i corsi di laurea senza matricole erano 13, con meno di 10 studenti 104, circa 700 con meno di 70, 1733 con meno di 125 (J.A. Aunion, El Pais, 11-01-2007). Secondo esperti spagnoli meno di 125 matricole sono insufficienti per assicurare la vitalità di un corso. In Italia, secondo S. Rizzo e G.A. Stella, vi sarebbero 37 corsi di laurea con un solo studente. Ma il rettore dell’università di Bologna, replicando sul Corsera, ha negato che nell’Alma Mater 6 corsi abbiano una matricola sola, come affermato dagli articolisti basandosi sul sito del ministero: http://anagrafe.miur.it. In realtà, in questo sito sono riuscito a trovare solo due corsi a Bologna con un’unica matricola: Statistiche per la ricerca (a.a. 2005-2006) e Musicologia e beni culturali (a.a. 2006-2007). A Roma, “La Sapienza” avrebbe sparso (“coriandolizzato”) nell’Italia centrale 341 corsi diversi, ma anche questi dati sono stati contestati dal rettore, che ha tuttavia sostenuto l’opportunità di aver istituito numerosi (“non certo duecento”) corsi triennali di scienze infermieristiche in tutto il Lazio.
In Spagna, i responsabili universitari addebitano per lo più a decisioni politiche l’inflazione dei corsi di laurea, dato che alla fine sono sempre le comunità locali e il governo a concedere il nulla osta alle nuove proposte delle università. La deriva demagogica ha così moltiplicato gli stessi corsi in sedi vicine, talché il 75% della popolazione vive a meno di 25 km da un ateneo e alcune regioni offrono il medesimo corso di laurea in pressoché tutte le loro università. In Italia, analogamente, irresponsabili nulla osta dal centro, ma soprattutto incontrollate decisioni politico-amministrative locali, hanno attivato direttamente e indirettamente i perversi fattori della moltiplicazione dei corsi: 1) la possibilità di impiegare di più nella didattica il personale in servizio, specialmente quei ricercatori che non potevano (o non volevano) rifiutarsi di trascurare l’ambito più inerente allo loro qualifica, appunto la ricerca; 2) le aspirazioni di carriera accademica in vista di nuovi posti; 3) la discrezionalità eccessiva concessa alle università di denominare liberamente i corsi di laurea appartenenti alla stessa ‘Classe’; 4) gli scarsi controlli sulla loro validità, dato che spesso non si procede ad “una effettiva verifica della coerenza dei contenuti didattici” rispetto alle proposte; 5) l’uso disinvolto da parte degli atenei di una disposizione ministeriale intesa ad alleggerire il carico didattico a chi “dimostra di possedere conoscenze e abilità professionali certificate” (D.M. 509/1999, rafforzato poi dalla Legge Finanziaria 2002, art. 22, comma 13). La scorciatoia dei crediti facili (senza sostenere esami: paghi due e prendi tre, come al supermercato) ha scatenato una corsa non solo agli abbuoni di crediti, per gonfiare le iscrizioni di studenti “facilitabili” per legge, ma anche “all’istituzione di nuovi onerosi corsi di laurea paralleli a quelli ufficiali ma con programmi ridotti e minori esami riservati ad enti convenzionati”. Allo sfruttamento del menu delle facilitazioni (A. Monti, Il Mulino, 5-2006: “Lauree alla carta”) hanno ricorso, soprattutto nell’area delle Scienze sociali, i dipendenti di ministeri (specialmente Interni, Difesa, Economia, Funzione pubblica) e di svariati enti e associazioni professionali. Ad esempio, ai promotori finanziari sono stati finora riconosciuti fino a 124 su 180 crediti per ottenere la laurea in Economia aziendale. Ciò spiega il proliferare di convenzioni, gestite spesso in modo privatistico, fra le università e gli enti professionali e le associazioni di categoria più improbabili (S. Casillo, Il Sole24OreNova24 21-12-2006).
Le conseguenze di questo “regalo di laurea”, come l’ha chiamato una trasmissione di RAI Tre (Report) sono lampanti. La disuniformità degli oneri didattici tra studenti dello stesso corso ingenera negli studenti regolari, che con sacrifici propri e della famiglia seguono il percorso di studi intero, la mortificante e demotivante constatazione che lo Stato sponsorizza un uso dell’istruzione superiore per creare loro dei concorrenti demagogicamente avvantaggiati nelle professioni cui aspirano. Nei laureati regolari dipendenti pubblici cresce lo sconforto di vedere colleghi che, mercé convenzioni con i loro stessi ministeri, hanno ottenuto la laurea con meno esami, scelti anche tra i più facili. In questo modo, suggerisce M. Pirani (La Repubblica, 26-10-2006), si è fatto largo ai dipendenti di fascia B (nerbo dei sindacati del pubblico impiego) per passare alla fascia C, propedeutica alla dirigenza. Tra l’altro, questo traguardo è a carico dello Stato, che, oltre a consentire ai dipendenti privilegiati di studiare durante il lavoro, paga le spese di formazione extra. La ricaduta economica (i “danni collaterali” all’erario, come li chiama Pirani) non finisce qui: lo Stato dovrà rimpiazzare gli organici svuotati ed erogare stipendi più alti ai fortunati neodottori.
L’incosciente demagogia di Stato non è poi nemmeno capace di moderare gli eccessi che ha prodotto. Infatti le buone intenzioni del ministro Mussi di limitare per decreto a 40 e 60 i crediti extrauniversitari facilitati, rispettivamente per la laurea magistrale e per la laurea, non sarebbero vincolanti per gli atenei senza l’intervento del legislatore (A. Monti, Il Sole 24 Ore, 08-07-2006).
Più grave, dal punto di vista accademico, è il danno all’immagine dell’università pubblica. Non bastava avervi alleggerito il percorso formativo per una laurea con l’istituzione del sistema 3+2. Con questo ulteriore scossone alla serietà degli studi, la credibilità e l’imparzialità dell’università scendono a livelli bassissimi. Le corsie preferenziali hanno infatti reso violabile “il principio della parità di impegno didattico per il conseguimento di titoli di studio con identico valore legale”. Sul piano formale ne beneficiano le statistiche, che registrano una durata media degli studi ridotta di ben 4 anni e mezzo, passando dai 7,9 ai 3,4 anni (M. Varone, Brescia Oggi, 05-12-2006), soprattutto per merito dei nuovi titoli di studio leggeri. Più difficile è riconoscere oggi il danno ai futuri fruitori del sistema produttivo, delle professioni e delle amministrazioni pubbliche, derivante da questo complessivo decadimento della qualità e severità degli studi.
La madre di tutte le attuali crisi della razionalità della politica universitaria va ricercata nella violazione della “riserva assoluta di legge” in materia di ordinamenti universitari stabilita dall’art. 33, ultimo comma, della Costituzione. Ciò è avvenuto quando il Parlamento si è spogliato delle proprie (costituzionali) prerogative normative in materia di ordinamenti didattici universitari “rinunciando a disporre di uno strumento chiave per la definizione della strategia e delle politiche di formazione della classe dirigente del Paese e, dunque, dei processi di sviluppo economico e sociale” (A. Monti, Il Mulino, 3-2006). La L. 127/1997 ha di fatto consentito al ministro di cancellare per via amministrativa l’intero ordinamento didattico universitario “costruito sulla base di faticose esperienze didattiche e di ricerca scientifica e sistematicamente aggiornato”. Avere affidato alla autonomia degli atenei la definizione dei corsi di studio nell’ambito delle ‘Classi’ stabilite dal ministero (salvo i corsi di studio salvaguardati nei contenuti e nella durata da norme comunitarie) ha determinato la riduzione delle capacità professionalizzanti dei corsi di laurea e la loro eccessiva segmentazione aggravata da ulteriori macchinosità organizzative (da 3+2 a 1+2+2) come quelle introdotte dal DM 270/2004, ora ritirato dal ministro Mussi e di cui esiste una nuova stesura in via di approvazione.
La strada per il recupero di efficienza e di ragionevolezza in un sistema di istruzione universitaria che continua a subire, indipendentemente dalla successione delle maggioranze di governo, processi di ricostruzione distruttiva, è sempre più in salita.

Prof. Paolo Stefano Marcato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna