Home Ultimi Articoli 02-12-2013 UN APPELLO ALL’UNIVERSITÀ CHE RESISTE
UN APPELLO ALL’UNIVERSITÀ CHE RESISTE PDF Stampa E-mail
02-12-2013

Tre grandi bugie stanno uccidendo la nostra università. Molti professori lo sanno e, pur continuando a testimoniare ogni giorno con il loro comportamento concreto che la verità è un’altra, tacciono perché si sono convinti che non c’è più nulla da fare. È arrivato il momento di dire basta. Non possiamo sfigurare la responsabilità in rassegnazione e legittimare l’idea che non solo così fanno ma così pensano tutti. Almeno i migliori e più produttivi, posto che la loro voce – secondo il mantra di tutti gli ultimi governi – è la sola degna di essere ascoltata.

Sono così costretto a precisare, prima di proseguire, che la VQR ha assegnato alla mia università il secondo posto assoluto nel mio settore e che il mio “punteggio” è superiore a quello medio che ho contribuito a determinare. Dunque, almeno per gli indefessi zelatori del mainstream, delle due l’una: o la VQR non vale un granché come strumento per riconoscere i professori più bravi (come sono orientato a ritenere) o merito anch’io attenzione. La mia opinione è peraltro che questa attenzione è dovuta a tutti quelli che fanno con onestà il loro lavoro. La mia speranza è che tutti questi colleghi, quelli che dovrebbero essere davvero considerati “meritevoli”, trovino la passione, gli strumenti e la voce unita e forte che serve per dire che le bugie non le sopporteranno più e costringere il potere che decide e fa le leggi a cambiarle.

La prima bugia è quella che ha trasformato l’università italiana in un grande laboratorio di darwinismo sociale. Non si può non riconoscere che le norme varate in questi anni e l’applicazione che ne è stata data sono la reazione a un esercizio a dir poco disinvolto dell’autonomia: alle università e ai professori non fa male la brutalità di qualche graduatoria. Si rischia, però, di scambiare il sacrosanto obiettivo di premiare la qualità e prosciugare gli stagni dell’inefficienza e dell’ozio in una guerra feroce di tutti contro tutti. Stiamo assistendo a una mutazione antropologica del professore universitario, costretto a investire una parte sempre più consistente del suo tempo nella ricerca del modo più efficace per guadagnare risorse a spese di altri. L’aspetto più doloroso della polemica sull’assegnazione delle briciole di turn over disponibili per il 2013 non è l’ostinazione con la quale la ministra Carrozza ha rifiutato di correggere un provvedimento sbagliato. È il gelido silenzio dei rettori e della quasi totalità dei professori delle università del Nord. In campo sembra esserci una sola idea di università: la conoscenza avanza attraverso un processo di distruzione creativa che presuppone la lotta e nel quale la distruzione è certa, la creazione solo promessa e collaborare significa fondersi con il vicino perché la sopravvivenza è divenuta impossibile. La capacità di “fare sistema”, al contrario, è il presupposto della stessa qualità della ricerca e il governo di un paese come l’Italia non può limitarsi ad assistere alla desertificazione accademica e intellettuale di intere aree del suo territorio. Chi ha questa idea dell’università e si nasconde, lamentandosi solo intorno ai tavoli delle cene con gli amici, non è più una vittima. È un complice.

La seconda bugia è il mito dell’università senza didattica. La qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento è una priorità cruciale dell’agenda del cambiamento, perché da essa dipende la formazione di quei laureati «capaci di pensiero critico, creativi e flessibili che daranno forma al nostro futuro». Non lo dice un pericoloso sovversivo. Lo dice la Commissaria per l’educazione e la cultura dell’Unione Europea, presentando il Rapporto del giugno di quest’anno nel quale un gruppo di esperti ha ribadito la continuità fra questo imperativo e quello di «una ricerca che critica, perfeziona, scarta». Il riconoscimento del ruolo irrinunciabile della didattica, naturalmente, non manca mai nella retorica pubblica e in particolare in quella ministeriale. La realtà è quella di una serie di interventi che hanno orientato l’intero sistema degli incentivi in un’unica direzione, rinviando ad un futuro indeterminato provvedimenti premiali per i buoni “docenti” oltre che per i brillanti “ricercatori”. Siamo arrivati al paradosso che l’unico merito preso in considerazione per l’abilitazione degli aspiranti professori universitari è quello dei secondi, mentre l’attitudine ad insegnare, a formare i giovani capaci di pensiero critico, creativi e flessibili di cui abbiamo bisogno è considerata del tutto irrilevante. Con una pericolosa aggravante in agguato per i medici e soprattutto per i loro pazienti: quanto conta, a questo punto, la qualità dell’assistenza prestata nei policlinici? Coloro che resistono a questo riduzionismo suicida delle responsabilità dell’università pagano e pagheranno un prezzo crescente, appunto perché “perdono” il loro tempo in attività che non producono l’unico merito che l’istituzione riconosce: pubblicazioni, brevetti, contratti. Si possono studiare e sperimentare forme di differenziazione fra gli atenei e nell’impegno dei singoli docenti. Un’università dove non si insegna, tuttavia, non è più un’università e un’università dove si insegna male è una cattiva università, anche se “nasconde” nei suoi laboratori e nelle sue biblioteche aspiranti premi Nobel che i giovani non incontreranno mai.

La terza bugia coincide con l’illusione di curare i mali dell’università e, diciamolo con franchezza, di colpire i comportamenti deplorevoli di alcuni professori con una burocrazia asfissiante, che lascia indisturbati i potenziali malfattori e rende semplicemente impossibile il lavoro di tutti gli altri. Le nuove procedure per il reclutamento hanno imposto ad alcune commissioni di abilitazione di giudicare in pochi mesi centinaia di migliaia di pagine, in comodo formato PDF. Solo gli ingenui potevano immaginare che i tempi sarebbero stati rispettati. Solo gli ipocriti possono sostenere che prima del giudizio ci sia stata la lettura. E vedremo se il risultato finale di questa lunghissima e faticosissima procedura, una volta che le singole università avranno assegnato i (pochi) posti disponibili, sarà davvero un miglioramento dell’immagine pubblica dei professori e dei loro concorsi. Nel frattempo, i martiri di AVA, SUA e di grovigli normativi sempre nuovi e sempre più disperanti hanno cercato invano negli interminabili moduli del loro calvario la soluzione concreta ai problemi quotidiani di chi nell’università vive e insegna, a partire dalla insostenibilità prima di tutto etica di un sistema che si regge sul volontariato diffuso di molte persone e di molti giovani che sono il vero «requisito necessario» di tanti corsi di laurea. I controlli sono una garanzia a tutela degli onesti. Ma sono proprio loro a pagare il conto di questa ipertrofia parossistica della modulistica.

Le bugie più insidiose sono quelle che vengono nascoste dietro l’omaggio delle labbra. E questo è il nostro caso. La vera resistenza, mentre si va in aula a fare lezione e si continua a stare nei laboratori, partecipare a congressi e scrivere libri e papers, si fa oggi su questioni molto concrete. Provo a elencarne, come esempi illustrativi e non marginali, due per ciascuna bugia.

  1. Gli incentivi premiali devono essere sempre assegnati con risorse realmente aggiuntive e comunque non essere mai tali da mettere di fatto “fuori gara” chi si trova agli ultimi posti. Il Decreto Ministeriale sull’assegnazione dei punti organico per il 20 per cento del turn over per il 2013 è l’esempio di ciò che non dovrebbe mai essere fatto.
  2. La “razionalizzazione” del sistema è un esercizio di responsabilità politica e non il risultato di una guerra. Un governo può e qualche volta deve tentare con ogni mezzo di “imporre” la qualità alle università che finora non sono riuscite a garantirla, perché può e deve salvaguardare sul territorio alcuni fondamentali presidi di sviluppo della conoscenza e trasmissione del sapere. Questo impegno non va confuso con la difesa del diritto di ogni campanile ad avere la sua università e con l’equivoco per il quale tutte le università sono uguali.
  3. Devono essere definiti finalmente, in modo chiaro e inequivocabile, gli obblighi didattici di tutti i professori universitari, unitamente a credibili meccanismi di controllo. Non appare irragionevole pretendere il rispetto di una soglia minima di ore di didattica frontale, a prescindere dai risultati nell’attività di ricerca. Gli incentivi premiali distribuiti alle e dalle università devono obbligatoriamente prevedere entrambe le voci, assegnando alla didattica non meno del 40 per cento. È vero che valutare la didattica non è facile. L’esperienza della VQR ha dimostrato però quanto incerti siano i risultati anche della valutazione della ricerca. Se si accetta questa incertezza per la seconda, non c’è motivo di rifiutarla per la prima.
  4. Le risorse del turn over, nel quadro di una programmazione attenta alla specificità e alle esigenze dei singoli corsi di laurea, devono essere assegnate in misura non inferiore al 70 per cento alla copertura degli insegnamenti che sono garantiti da forme di volontariato sostanzialmente o letteralmente gratuito o dai ricercatori, il cui impegno didattico non deve eccedere il limite del 60 per cento di quello fissato per i docenti di prima e seconda fascia, a meno che non sia riconosciuto un incremento non simbolico della retribuzione. Fermo restando che questi insegnamenti devono essere attivati o mantenuti solo quando sono indispensabili per garantire i requisiti necessari dell’offerta formativa.
  5. Deve essere fissata e garantita una soglia di abbattimento degli oneri burocratici connessi all’attività didattica e di ricerca in misura non inferiore al 50 per cento. Si può partire, per raggiungere questo risultato, dal numero delle voci e da quello delle parole previsti nei diversi moduli di valutazione, richiesta di fondi, autorizzazione e controllo di spesa, nonché dal numero dei pareri richiesti per arrivare all’assunzione di una decisione da parte dell’organismo competente.
  6. Le liste degli abilitati a livello nazionale non possono creare situazioni di marcata asimmetria fra le diverse classi concorsuali e/o settori scientifico-disciplinari dal punto di vista del rapporto percentuale con i docenti in servizio e con i candidati “sopra soglia”, con le conseguenti ricadute sulle concrete possibilità di “chiamata”. Se questo dovesse essere il risultato della prima tornata, diventerebbe inevitabile l’introduzione di parametri o di un tetto uguali per tutti. In ogni caso, i problemi dei concorsi universitari non si superano complicando inutilmente le regole, ma costringendo le persone a “metterci la faccia”. Le procedure di chiamata devono limitarsi all’obbligo di una lezione e di una discussione pubbliche, alla presenza dei docenti e degli studenti del Dipartimento che effettua la chiamata.

La lista dovrebbe essere naturalmente molto più lunga, articolata e dettagliata nei passaggi operativi. Ma è sufficiente per capire come ci si colloca e accettare la vera sfida che l’università che resiste ha oggi il dovere di proporre prima di tutto alla politica. A coloro che in parlamento saranno disponibili a sostenerla, soprattutto nel momento in cui sarà discusso il disegno di legge delega che il governo si appresta a presentare e che diventerà inevitabilmente il banco di prova delle “buone intenzioni” di tutti. La bugia più grande, che genera tutte le altre, è quella di chi, mentre sostiene che non si può volere il merito senza volere la guerra e che i più bravi non devono perdere tempo ad insegnare, ha trasformato le università in altrettanti uffici di polizia occupati a contare i moduli e le parole che contengono anziché a stanare le rendite di posizione dei fannulloni irrecuperabili (ne conosco pochi) e soprattutto a ricreare le condizioni nelle quali tutti si sentano stimolati e responsabilizzati a fare bene. Perché è così che si moltiplicano anche le occasioni per distribuire premi.
Resistere nella convinzione che un diverso e più inclusivo impegno per il merito è possibile non significa difendere nepotismi, inefficienze e avanzamenti di carriera per anzianità. Significa – questo sì – scegliere la strada più difficile. Ma è proprio per questo che ne vale la pena.

Prof. Stefano Semplici
Università di Roma “Tor Vergata”

(Articolo comparso su www.roars.it il 17-11-2013. Si ringrazia la Redazione di Roars per il consenso alla pubblicazione su INFO UNIVERSITARIE)