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L'università tra restauri e riforme PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 4 - 2009
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L'università tra restauri e riforme
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Prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009 della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Sono trascorsi 150 anni dall’emanazione del regio decreto che prese il nome dal Ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati. La legge Casati sancì il ruolo normativo generale dello Stato e la gestione diretta delle scuole statali, così come la libertà dei privati di aprirne e gestirne di proprie, pur riservando alla scuola pubblica la possibilità di rilasciare diplomi e licenze. E’ stata la prima legge che ha riformato in modo organico l'intero ordinamento universitario. Da allora gli ordinamenti universitari hanno avuto di continuo vari cambiamenti, ritocchi, restauri, poche vere riforme.

La legge Casati e gli sviluppi legislativi successivi

Nella seconda metà del secolo XIX si erano imposti nell'Europa continentale due modelli di ordinamento dell'università: quello napoleonico, caratterizzato dall’uniformità delle strutture e degli ordinamenti didat­tici e dalla subordinazione dei singoli atenei verso il potere ministeriale centrale, e quello humboldtia­no, i cui tratti salienti, in contrapposizione ai precedenti, sono la libertà accademica e l'autonomia organizzativa di ciascun ateneo. A questi due modelli se ne affiancava un terzo, quello anglosassone, nel quale gli atenei non sono inseriti in un siste­ma organizzativo universitario, ma danno luogo a una costel­lazione policentrica il cui tratto distintivo è l’assoluta diffor­mità organizzativa, la diversità qualitativa e la varietà di offerta didattica e scientifica tra le diverse sedi.
Con il R.D. n. 3725 del 1859  (c.d. legge Casati) il legislatore manifestò la propria preferenza per il primo modello, quello napoleonico, che fu appli­cato alla maggioranza delle università del Regno: il rettore, nominato dal re, al pari dei presidi di facoltà, era subordinato alle auto­rità centrali e dunque in posizione di diretta dipen­denza gerarchica dal ministro della pubblica istruzio­ne. Analogamente erano determinati i tipi e il numero di facoltà e le materie d'insegnamento da impartire, nonché la disciplina dello stato giuridico dei professori. Al riguardo, al riconoscimento formale della libertà d’insegnamento si contrapponeva la sua sostanziale negazione. La legge infatti consentiva la sospensione o la rimozione del docente in tutti quei casi in cui «coll'insegna­mento o cogli scritti [avesse] impugnate le verità sulle quali riposa l'ordine religioso e morale, e tentato di scalzare i principi e le guarentigie che sono posti a fondamento della costituzione civile dello Stato».


Alla proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) vi erano venti università tra cui quattro erano università libere. Il numero degli studenti iscritti nel 1861 era di circa 6.500.
Un tentativo di specializzazione funzionale degli atenei del ministro Matteucci (1862-1863) aveva operato la distinzione delle università in  primarie (Torino, Pavia, Bologna, Pisa, Napoli, Palermo, alle quali si aggiunsero poi Padova e Roma) e secondarie. Le prime si differenziarono solo per la più ampia offerta didattica e per le retribuzioni più alte assicurate ai docenti. La politica dei pareggiamenti condusse alla scomparsa delle università secondarie all'inizio del nuovo secolo.
Gli sviluppi legislativi successivi alla legge Casati furono caratterizza­ti dal dibattito sull'opportunità di rivederla. Tra i di­versi progetti di riforma presentati, in particolare si devono ricordare quelli del ministro della pubblica istruzione Baccelli, i D.d.L. 17-11-1881 n. 241,  25-11-1882  n. 26 («Modificazioni alle leggi vigenti per l’istruzione superiore del Regno») e 13-6-1895 n. 67 («Sull'autonomia delle Università, Istituti e Scuole superiori del Regno»). In questi progetti era previsto che alle università fosse attribuita la personalità giu­ridica, la possibilità di autogoverno e la libertà di studio, con l'introduzione dell’elettività dei rettori e dell'esame di Stato per l'accesso alle professioni. Tuttavia, a parte l’emanazione di una serie di regolamenti governativi contenenti, tra l'altro, la disciplina degli or­dinamenti degli studi universitari, per vedere abrogate le norme della legge Casati si dovette arrivare fino al 1923, con il R.D. 30-9-1923, n. 2102 (c.d. riforma Gentile).
In un articolo di V. Calissoni (1, 6), comparso nel 1883 su un periodico bimestrale con il titolo “La relazione Berio sull’istruzione superiore”, si scorgono interessanti anticipazioni dei problemi posti dalla necessità di abbandonare il modello napoleonico centralistico degli ordinamenti universitari regolamentati dalla legge Casati del 1859. I ministri che vollero riformarla, come il Mancini, il Berti, il Bonghi, non eb­bero “l'ardire delle idee liberali dei tempi”. Tentavano di riformarla radicalmente con disposizioni innovative più consone a queste idee le proposte del D.d.L. del ministro Baccelli (ministro della pubblica istruzione tra il 1874 e il 1903).
L’on. Berio, nella sua chiara relazione sulla proposta Baccelli, così si esprimeva: “L'autonomia amministrativa è condizione necessaria all’autonomia didattica, e consiste non solo sul diritto di amministrare la rendite tutte dell'ente morale, ma, ciò che più importa, in quello di regolare l'impiego nel modo che si ravvisa più utile ai progressi della scienza. Lo Stato, amministratore attuale di tutte le Università, provveditore delle Somme onde abbisognano, non può adempiere  al proprio ufficio senza sciuppare l'insegnamento e soffocare la concorrenza fra le Università, che è condizione necessaria al progredire degli studi. Lo Stato regola in Italia l'insegnamento, dirige la scienza, e quantunque le continue rimostranze degli uomini più competenti l'abbiano ammonito dell'errore in cui si trova, ancora perdura nella falsa sua via... Un così grande concentramento di poteri che, come norma di governo, sarebbe già riprovevole in massima, applicato alla pubblica istruzione e sorgente di incalcolabile danno, produce in ogni, parte d'Italia un numero infinito di mediocrità, per non dir peggio, tarpa le ali agli ingegni, costretti a dillattarsi nella uniformità delle materie di studio nelle pastoie delle norme infinite che regolano l'insegnamento, o gli atrofizza colla lettera delle leggi e dei regolamenti che sola regna sovrana”.
Come si legge alla fine dell’articolo, “tali e tante sono le innovazioni, e tali e tanti sono gli interessi cui tocca (il progetto Baccelli) che non si può prevedere a priori quale sorte avrà questo progetto”. I tempi, infatti, non erano ancora maturi per un così incisivo progetto, ma la relazione Berio sulla riforma universitaria Baccelli è la testimonianza anticipatrice di un dibattito che ancora oggi non ha imboccato la strada maestra di una soluzione equilibrata.   
Nel 1887 si svolse il primo congresso nazionale dei docenti universitari, e in questo periodo apparvero anche alcuni periodici specializzati, di settore, come la rivista «L'Università», pubblicata a Bologna da una «società di professori».
Nel 1905 fu costituita una «Associazione nazionale fra i professori universitari» che riuscì a ottenere l'adesione, nel suo momento di maggiore successo, di circa i due terzi dei professori di ruolo (791 nel 1908).
All'inizio del secolo XX la legge Casati era ancora operante soltanto negli antichi Stati sardi, in Lombardia, nel Veneto, nelle Marche, a Roma e, con notevoli modificazioni, in Sicilia. La stessa legge Casati non venne mai applicata all'università di Bologna (disciplinata dalla bolla pontificia «Quod divina sapientia» del 28-8-1824). Tuttavia l'uniformazione del sistema dell'istruzione universitaria italiana, cui si adeguò anche l’università di Bologna, fu il frutto, prima ancora che dell'estensione della legge Casati, della stratificazione della normativa ministeriale intervenuta negli anni successivi alla sua emanazione.
Da ricordare il R.D. n. 409 del 1905, con il quale il potere di scelta del Ministro della pubblica istruzione per la no­mina del rettore fu circoscritto all'interno di una terna scel­ta dall'assemblea dei professori ordinari, straordinari e da una rappresentanza dei liberi docenti, previsione superata dalla ri­forma Gentile, che riattribuì piena discrezionalità al Ministro nella scelta del rettore. Comunque, a poco più di mezzo secolo di distanza dall'unificazione, la legislazione universitaria era ancora per più di un aspetto caratterizzata da norme non ordinate e non omogenee.

La Commissione Ceci e la legge Gentile

All'inizio degli anni Dieci fu costituita, restando insediata fino al 1914, la «commissione Ceci», una commissione reale alle cui con­clusioni s’ispirò la stessa riforma Gentile. Nella relazione del 1914, la commissione si oppose al criterio del sostanziale equilibrio fra rappresentanza accademica ed extra - accademica che era stato accolto nel progetto ministeriale: «La Commissione è concorde nel chiedere che l'elemento accademico debba essere prevalentemente rappresentato nel Consiglio amministrativo, e che di esso debbano far parte i rappresentanti di tutte le Facoltà, nessuna esclusa [...]. L'Università non è un'azienda industriale; e l'autonomia amministrativa dev'essere a servizio dell'autonomia didattica, per il raggiungimento di fini che solo gli uomini della scienza possono intendere e comprendere».
Proprio con il R.D. 30-9-1923 n. 2102 (c.d. riforma Gentile), prese  l'avvio il «rimodellamento strutturale» dell'istruzione superiore, con la distinzione tra le università (comprendenti Giuri­sprudenza, Lettere, Medicina e Scienze fisiche, matematiche e naturali) e gli altri istituti di istruzione superiore (le scuole per farmacisti, architetti e ingegneri, veterinari e agronomi, e di scienze economiche e commerciali). Il decreto affermava che finalità essenziale e precipua dell'istruzio­ne superiore è la promozione del «progresso della scienza» e, in su­bordine, il compito «di fornire la cultura scientifica necessaria per l'esercizio degli uffici e delle profes­sioni». Si attribuivano all’università «personalità giuridica e autonomia ammini­strativa, didattica e disciplinare nei limiti stabiliti» dal medesimo decreto, le quali, peraltro, continuaro­no ad essere poste «sotto la vigilanza dello Stato esercitata dal Ministro».
Le novità della riforma Gentile, in particolare quelle riguardanti l’autonomia universitaria e la libertà dell'insegnamento, non trovaro­no, tuttavia, adeguato sviluppo nella legislazione successiva. Fu soprattutto la legislazione degli anni Trenta a restringere gli spazi dell'autonomia universitaria. La produzione normativa seguita alla rifor­ma Gentile fu coordinata nel testo unico delle leggi sull'istruzione superiore (R.D. 31-8-1933 n. 1592), una sorta di controriforma dell'organizzazione dell'istruzione superiore. Tale normativa fu poi completata da provvedimenti legislativi (R.D.L. 20-6-1935 n. 1071 e 25-2-1937 n. 439) che azzeravano pressoché completamente l'autonomia univer­sitaria introducendo le “più gravi limi­tazioni che si fossero mai avute” tanto alla li­bertà d'insegnamento quanto alla libertà di studio. Si consolidò l'au­torità del Ministro per l'educazione nazionale sull’intero sistema universitario con l'attribuzione del compito di «rappresentare l'unità del comando al centro e la sintesi degli interessi dell’educazione nazionale». A questo compito si collegavano funzional­mente specifici poteri in materia di governo delle università, accompagnati da un generale potere di sostituzione delle autorità accademiche.

Il quadro legislativo dal dopoguerra fino al D.P.R. 382/1980

Con l'approvazione della Costituzione repubblicana del 1948 il quadro legisla­tivo riconobbe di nuovo la libertà di scienza e di insegnamento (art. 33, 1° e 6° co., Cost.). A parte misure signifi­cative tese a elimi­nare i tratti autoritari della legislazione fascista suc­cessiva alla «riforma Gentile», con la restituzione di spazi di autonomia alle università, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta non intervennero modificazioni so­stanziali nella disciplina delle università.
L'incapacità di realizzare una vera e propria riforma complessiva si tradusse, con la fine degli anni Sessanta, nell'adozione di una serie di atti normativi (cosiddetti «provvedimenti urgenti per l'università»), che se, per un verso, intendevano risol­vere specifici problemi, per l'altro, ne aprivano di nuovi, in assenza di un disegno organico.
Si devono menzionare, tra i provvedimenti più incisivi di questo perio­do, la Legge 11-12-1969, n. 910, che riforma l'accesso all'università (c.d. «liberalizzazione dell'accesso») d'ora in poi consentito a tutti i possessori di un qualsiasi diploma di maturità. Inoltre permette agli stu­denti di predisporre un piano di stu­dio diverso da quelli previsti dagli ordinamenti di­dattici in vigore (c.d. «liberalizzazione dei piani di stu­dio»), purché nell'ambito delle discipline effettivamente insegnate e nel numero di insegna­menti stabilito. Con la L. n. 924 del 1970, furono aboliti gli esami di abilitazione alla libera docenza.
Il D.L. 1-10-1973 n. 580 chiuse la stagione della legislazione d'urgenza con una sorta di vera e propria «miniriforma». In particolare furono dettate nuove modalità di svolgimento per i concorsi a posti di professore universitario di ruolo, furono istituiti gli as­segni biennali di formazione scientifica e didattica di giovani laureati, e fu allargata la composizione dei consigli di fa­coltà e di quelli di amministrazione.
Soltanto nel 1980, dopo un lungo periodo in cui la legislazione si era occupata più di riforme riguardanti il personale docente che di un rimodellamento strutturale dell’istituzione, venne alla luce il D.P.R. 11-7-1980 n. 382, emanato  in attuazione della Legge - delega 21-2-1980  n. 28. E’ stato il punto di svolta che ha avviato la tendenza alle trasforma­zioni strutturali. Il decreto dettava una riforma dello stato giuridico del personale docente (comprendente due fasce di professori di ruolo, ordinari e associati, e i ricercatori) e dettava norme sulla sperimentazione or­ganizzativa e didattica con la crea­zione dei dipartimenti quali strutture dotate di auto­nomia amministrativo-contabile con compiti di pro­mozione e coordinamento dell'attività di ricerca.