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La riforma universitaria in Francia. Argomenti per discutere sulle autonomie degli atenei PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 4 - 2009
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La riforma universitaria in Francia. Argomenti per discutere sulle autonomie degli atenei
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La dualità del sistema di istruzione superiore

Il sistema di istruzione superiore francese ha due tipologie: le università, istituzioni pubbliche aperte a tutti gli studenti, e le Grandes Écoles (GE), in maggior parte pubbliche e alcune private, caratterizzate da un’elevata qualità dell’insegnamento, ma anche da una selezione molto severa all’ingresso. Nei licei si trovano le Classes préparatoires aux grandes écoles (CPGE) che preparano, in 2 o 3 anni, gli allievi ai concorsi d’entrata. Le GE dispensano di regola l’insegnamento su un solo settore (scienze e tecniche, economia e gestione, scienze politiche). Le GE comprendono: GE d’Ingénieurs (la più famosa è l’École Polytechnique), GE de Commerce (la più nota è Hautes Études Commerciales - HEC Paris), GE cui si accede senza CPGE, la più famosa è l’Institut d’Études Politiques de Paris), GE d’Administration (la più prestigiosa è l’École Nationale d'Administration - ENA), Accademie militari (la più nota è l’École Spéciale Militaire de Saint-Cyr). Si distinguono inoltre quattro GE dette Écoles Normales Supérieures (ENS), che conferiscono una formazione scientifica e culturale di alto livello per la preparazione ai concorsi di aggregazione per accedere al corpo dei professori universitari, e danno accesso alla ricerca, all’insegnamento secondario e superiore nonché alle carriere nelle più elevate funzioni pubbliche.
Le GE sono diventate gli autentici vivai delle élites del Paese e fanno risaltare le carenze delle università che non offrono più l’ascensore sociale di un tempo. Nonostante la rivalità vi è comunque una tendenza progressiva alla collaborazione tra GE e università, specialmente nei Master e nelle scuole di dottorato con numerosi programmi coabilitati.
La dicotomia GE – università ha un fondamento storico. Quando scoppia la rivoluzione francese le università sono interamente ecclesiastiche. La rivoluzione sopprime l’università ma avendo bisogno di formare dei quadri inventa le GE sulle quali era più facile il controllo politico. E quando le università sono state ricreate le GE avevano già una loro dinamica.
A partire dal 2002, le università francesi applicano il modello 3+2, come indicato dal Processo di Bologna quale via all’armonizzazione dei sistemi universitari europei. Il tradizionale percorso di studi prevedeva un’organizzazione in tre cicli, con un biennio generale, metodologico o tecnico (Deug = Diplôme d’études universitaires générales, Deust = Diplôme d’études universitaires scientifiques et techniques), un triennio di studi specialistici con la Maîtrise (tesi di laurea) finale, un terzo ciclo dedicato all’orientamento professionale e il dottorato. Da questo si è passati a una nuova struttura a tre livelli, il modello LMD (Licence, Master, Doctorat o 3-5-8), che prevede un primo livello di studi, della durata di 3 anni, per acquisire una laurea di I livello (Licence/Bachelor) pari a 180 crediti Ects (Sistema europeo di accumulazione e trasferimento dei crediti). Lo studente che ha completato il I livello di studi può iscriversi a un Master per specializzare i suoi studi nei due anni successivi con altri 120 crediti Ects. Il percorso di studi può quindi proseguire nel dottorato, che prevede un esame finale e ha la durata di tre anni. Tra gli effetti della riforma LMD il più notevole è l’elevazione del Diplôme, ora Licence, da due a tre anni.


In Francia vi sono 82 università che ospitano 1,4 milioni di studenti. Sono teoricamente tutte uguali, nel senso che il titolo di studio si ritiene valido indipendente dall’ateneo in cui è stato conseguito, come in Italia. Ma le università sono giudicate il parente povero del sistema d’istruzione francese. Lo Stato concentra, infatti, i finanziamenti sulle Grandes Écoles, dove si entra per concorso, e trascura le università, in particolare quelle periferiche. Inoltre, nel primo ciclo dell’università, quello della Licence, si rileva un altissimo tasso di abbandoni che arriva al 50% degli iscritti al primo anno che non hanno superato gli esami al termine dei loro due primi semestri. Ogni anno sono circa 90.000 gli studenti che lasciano gli studi senza un diploma d’istruzione superiore. E fra loro la disoccupazione è al 19%. Cinque anni dopo la fine dei loro studi il 70% degli studenti delle Grandes Écoles sono quadri, contro soltanto il 33% di quelli che escono dall’università con una Licence.
Solo il 25% della popolazione attiva (tra i 25 e i 64 anni) ha seguito studi superiori, molto meno degli Stati Uniti dove circa il 40% di questa classe d’età li ha seguiti, meno anche della Svezia (circa il 35%) e del Regno Unito (circa il 30%). Si stima che in Francia quasi 170.000 liceali (22%) rinuncino annualmente a iscriversi all’università.

 

L’insoddisfazione per il sistema

Invitato da Le Monde a definire la crisi dell’università, Michel Kaplan, già presidente della CPU (Conferenza dei presidenti delle università), elenca tre problemi: l’insufficienza dei finanziamenti, del 40-60% inferiori a quelli di Paesi paragonabili, un insufficiente orientamento degli studenti che si lasciano entrare in corsi di studio per i quali non sono stati formati, preparati, e infine la ricerca non ancora dotata dei mezzi necessari. Anche l’eccessiva parcellizzazione degli atenei è ritenuta incongrua per una ricerca d’avanguardia che richiede invece la concentrazione delle risorse, come si cerca di fare con i PRES  (Pôles de recherche et d’enseignement supérieur). Per contro uno dei difetti lamentati è che le GE non impongono ai loro migliori elementi di fare la ricerca. All’università, d’altra parte, i giovani ricercatori sono troppo oberati dalla didattica proprio nel loro periodo più fecondo per la ricerca, cui scarseggia anche il personale tecnico di supporto.
Critiche più severe puntano il dito sulle responsabilità dello Stato in ordine alla massificazione dell’insegnamento, alla povertà di biblioteche e laboratori di ricerca, alla gestione calamitosa delle risorse umane, a una governance degli atenei fondata sulla moltiplicazione di organi tanto pletorici quanto impotenti.
Quella che, dall’interno del sistema, chiamano la “povertà” dell’università francese si specchia in quanto ciascuno studente paga per iscriversi: un po’ meno di 180 euro l’anno, meno di una tariffa forfait per il suo telefonino. Per confronto, in Spagna la tassa d’iscrizione varia da 600 a 1000 euro, e in Italia in una facoltà scientifica, ad esempio all’università di Napoli,  varia da 1008 a 1712 euro l’anno.
Ma lo Stato francese non integra a sufficienza gli scarsi fondi raccolti dalle tasse d’iscrizione. Infatti eroga per studente universitario per anno in media 7.200 euro contro 10.170 per un liceale e fino a 30.000-50.000 per uno studente di ENS. Si cita per confronto Princeton, una delle più grandi università degli Stati Uniti, che dispone di 110.000 euro l’anno per ciascuno studente, contro i 3.300 euro di cui la famosa Paris-VI Sorbonne dispone per studente, meno del costo di un bambino alle scuole materne. In Italia un bambino all’asilo nido costa 7.173 euro a Milano e 11.300 euro a Napoli (Corsera 23-08-08).
Hélène Rey, professore alla London Business School, ha sottolineato il paradosso delle università francesi, che, nonostante la politica delle tasse d’iscrizione assai ridotte, attirano proporzionalmente meno studenti di quelle degli Stati Uniti e del Regno Unito.
Il sistema di formazione delle élites viene accusato, da un punto di vista sociologico, di forte tendenza all’endogamia. George Charpak ha osservato che se un Paese di 60 milioni di abitanti recluta i suoi ingegneri in ambienti che rappresentano solo il 10% della popolazione è come se uno riducesse questa popolazione a 6 milioni di abitanti. Questo è appunto il caso della Francia, che seleziona certe sue élites come se contasse solo 6 milioni di abitanti. D’altra parte molte famiglie pagano volentieri fino a 8000 euro di tassa d’iscrizione pur di far entrare i giovani in istituzioni di alto rango quali Politecnici, HEC e ENA, che garantiscono un sicuro inserimento professionale.
E’ soggetta a critiche anche la scarsa concorrenza tra le università. In effetti, in numerosi casi le università francesi si sono protette dalla concorrenza assicurandosi che ogni disciplina venga insegnata da una sola istituzione in ciascuna regione.
Oltralpe non si ritiene più accettabile che la retribuzione mensile di un professore universitario di 50-55 anni arrivi appena a 4500 euro, a fronte di retribuzioni doppie o triple in altri Stati europei, per non parlare della retribuzione dei maîtres de conférences, l’altra categoria dei docenti  universitari (enseignants-chercheurs).
Da un sondaggio Le Figaro-BVA (Istituto di studi di mercato e di opinione), realizzato nel giugno 2007 su 950 persone, è risultato che per il 37% degli interrogati la qualità delle università francesi si sta deteriorando, il 35% la considera ristagnante e il 56% spera nel governo per migliorarla.

Uniformità, povertà, irresponsabilità, autoreferenzialità

Alain Supiot sul Nouvel Observateur (27-06-2007) ha puntato il dito sui quattro grandi mali dell’università francese: l’uniformità, la povertà, l’irresponsabilità e il ripiegamento su stessa (repliement sur soi, che incorpora anche il significato di autoreferenzialità).
L’uniformità è una finzione per cui gli universitari dedicano tutti la metà del loro tempo alla ricerca e l’altra metà all’insegnamento, mentre in realtà molti non fanno più ricerca, mentre le 82 università sono tutte uguali per i titoli di studio che conferiscono ma in realtà sono diverse per il livello e la difficoltà degli studi, per i legami con la ricerca, per le prospettive di collocamento degli allievi.
La povertà, oltre ai fondi statali per studente assai limitati (in media 7200 euro l’anno contro cifre doppie in altri Stati dell’UE), si riferisce alla scarsità di amministratori capaci di gestire le pratiche della ricerca a livello internazionale, alla difficoltà di orientare gli studenti del primo anno in base alle loro capacità, e alle basse retribuzioni di tutto il personale, che porta molti docenti a cercare remunerazioni supplementari a scapito della ricerca. Secondo M. Kaplan, manca personale altamente qualificato in gestione finanziaria, delle risorse umane e del patrimonio. La povertà è anche quella edilizia (le délabrement des bâtiments universitaires) con troppi edifici fatiscenti e biblioteche dove in media vi è un solo posto per ogni 18 studenti. Ma del patrimonio immobiliare la riforma non si occupa specificamente, anche se prevede uno sforzo finanziario ragguardevole con 1 miliardo di euro l’anno per l’insegnamento superiore e 4 miliardi di euro in 5 anni per la ricerca, con l’obiettivo di portare al 3% del pil il contributo statale.
Il governo francese venderà una quota del 3,7% del colosso energetico Edf per finanziarie un piano di investimenti da 5 miliardi di euro destinato alla modernizzazione delle università. Inoltre vi sarà una sovvenzione una tantum di 250.000 euro per ogni università che ha i requisiti per passare all’autonomia.
L’irresponsabilità si esemplifica nella possibilità per un docente di non avere problemi di retribuzione e di carriera anche trascurando gli studenti per attività più lucrative, e per un presidente mediocre la possibilità di non rendere mai conto di una gestione scadente.
L’autoreferenzialità si riferisce specialmente al localismo nel reclutamento dei docenti, con la preferenza generosamente accordata ai candidati interni a danno degli esterni. In Francia all’università si recluta “entre soi” (Le Monde, 01-05-2008). L’endogamia accademica, spesso denunciata ma mai quantificata, ha trovato per la prima volta due sociologi, O. Godechot e A. Jouvet, che ne hanno calcolato l’ampiezza: in tutte le università i candidati locali hanno 18 volte più chances dei candidati esterni di ottenere il posto e per certe discipline o università questo fattore può arrivare a 50 e anche a 500.
L’autoreferenzialità riguarda anche la governance, caratterizzata da carenza dirigenziale, di trasparenza e di apertura verso l’esterno. In questo quadro i presidenti d’università, eletti ante riforma dai tre consigli dell’università riuniti (CdA, CS = Consiglio scientifico, CEVU = Consiglio degli studi e della vita universitaria), s’adagiavano in una funzione di mediazione piuttosto che di azione.

La “guerra” perduta

Gli economisti in larga maggioranza concordano che la competitività dell’Europa passa attraverso l’istruzione e la ricerca. L’economia della conoscenza studia il modo in cui la società e le organizzazioni allocano le risorse - sia quelle tangibili che le immateriali - quando producono, distribuiscono e consumano conoscenza. La conoscenza è sempre di più una delle condizioni perché si possano diffondere benessere e sapere nella società. Ma in questa “guerra mondiale dell’intelligenza” i pessimisti ritengono che la Francia abbia perduto la principale battaglia, dato che investe solo il 3,8% del PIB (Produit intérieur brut) nell’economia della conoscenza contro il 4% della UE, il 5% del Giappone e il 6,5% degli Stati Uniti.
Alle considerazioni negative endogene si somma la ferita dell’orgoglio nazionale per i mediocri piazzamenti delle università francesi nelle classificazioni internazionali come quella di Shanghai e del London Times. Anche nella classificazione di Shanghai del 2008 la Francia non conta che tre istituzioni tra le prime cento, contro quattro nel 2007. L’università Paris VI ottiene il 42° posto, Paris XI il 49° e l'École Normale Supérieure (ENS Paris) il 73°.

L’avvio della riforma

Da tempo la CPU (la nostra CRUI) si pronuncia per una più ampia autonomia delle università, che senza riforma dispongono liberamente solo del 20% del loro budget. Anche il 58% dei francesi, in un sondaggio Le Figaro-BVA, pensa che l’autonomia sia opportuna e permetta un migliore adattamento delle università ai reali bisogni degli studenti e delle imprese.
L’anno scorso Valérie Precresse, ministro dell’insegnamento superiore e della ricerca, è riuscita a far approvare dalle due camere del parlamento francese, l’Assemblea nazionale e il Senato, la Legge sulle libertà e responsabilità delle Università (LRU), intesa a rilanciarle con una  maggiore autonomia (Legge n° 2007-1199 del 10 agosto 2007).
Gli scopi preminenti della riforma (tutti i riferimenti sono sul sito http://www.nouvelleuniversite.gouv.fr/) sono tre: portare il 50% dei giovani a un diploma d’istruzione superiore e conferire loro una formazione qualificante a garanzia di un avvenire professionale; uscire dalla paralisi dell’attuale governance delle università; garantire la visibilità internazionale della ricerca scientifica.




I tre Consigli : CdA, CEVU (Conseil des études et de la vie universitaire) e CS (Conseil scientifique)

Nel quadro di un rafforzamento della governance, il Consiglio di amministrazione diventa l’organo strategico (art. 7 del cap. III). Ristretto a 20-30 membri, rappresentanti equamente l’insieme della comunità universitaria, è più aperto all’esterno con 7-8 personalità tra cui 2-3 rappresentanti delle comunità territoriali, di cui uno del consiglio regionale e almeno un imprenditore o un quadro dirigente d’impresa. I docenti - enseignants-chercheurs (professeurs e maîtres de conférence) - maggioritari in seno al CdA (da 8 a 14 membri), sono eletti su liste che tengono conto di tutti i grandi settori disciplinari, con possibilità di associare le liste attorno a un comune progetto. Il CdA comprende anche 3-5 rappresentanti degli studenti e 2-3 rappresentanti del personale tecnico-amministrativo. Il CdA assume a maggioranza assoluta deliberazioni statutarie, è competente per la creazione delle Unità di formazione e di ricerca (UFR) e propone la creazione di scuole e istituti interni all’università.
Una migliore articolazione dei tre Consigli (CdA, CS e CEVU), che si rinnovano contemporaneamente, è tesa a rafforzare la coesione delle équipes dirigenziali. Viene estesa la competenza del CEVU e del CS diventati organi consultivi che possono formulare voti. Il CEVU è consultato sulla valutazione degli insegnamenti e comprende uno studente come vice-presidente incaricato dei problemi della vita studentesca in rapporto con i Centri regionali delle opere universitarie e scolari (CROUS). Il CS, in cui è rafforzata la rappresentanza degli studenti del terzo ciclo (dottorato), esprime un parere sulla scelta delle personalità scientifiche componenti i comitati di selezione incaricati di reclutare i docenti (enseignants-chercheurs), fornisce un parere sull’attribuzione dei premi d’inquadramento dottorale e di ricerca (PEDR) e assicura il legame tra insegnamento e ricerca a tutti i livelli della formazione. Ad eccezione del presidente dell’università, che presiede tutti e tre i Consigli, nessun membro può far parte di più di un Consiglio.
In ogni ateneo pubblico viene inoltre creato un Comitato tecnico paritario (CTP), luogo di dialogo sociale, che è consultato sulla politica di gestione delle risorse umane dell’ateneo e ogni anno visiona un bilancio della politica sociale presentato dall’ateneo.

Il presidente

Il presidente (il nostro rettore) ha un mandato di 4 anni rinnovabile una sola volta, è eletto a maggioranza assoluta dai membri eletti del CdA tra i docenti (professori e maîtres de conférences), i ricercatori, i docenti anche esterni all’ateneo e stranieri. Presiede i tre Consigli, nomina le personalità esterne del CdA (esclusi i rappresentanti delle comunità territoriali), previo consenso dei membri eletti del CdA.
Il presidente ha diritto di veto per opporsi in maniera motivata alle decisioni degli organi che si pronunciano sulla scelta dei docenti, con l’eccezione della prima assegnazione dei docenti reclutati tramite concorso nazionale di aggregazione per l’insegnamento superiore. La legge lo autorizza a reclutare studenti per attività di tutorato o di servizio in biblioteca. Inoltre è responsabile della sicurezza interna e prepara e applica il contratto pluriennale dell’università.

Il budget. Il contratto pluriennale. La gestione delle risorse. Il reclutamento. Le fondazioni

In previsione delle nuove responsabilità in materia di budget e di gestione delle risorse, a richiesta, e comunque entro cinque anni dalla pubblicazione della legge di riforma, tutte le università avranno a disposizione un budget globale definito in base a un contratto pluriennale di partenariato Stato - università. Il contratto lega le università e lo Stato con la definizione degli orientamenti strategici dell’università. Diventa uno strumento di gestione pluriennale che rafforza la sua autonomia grazie alla globalizzazione delle risorse, alla previsione quadriennale dei fondi disponibili e alla gestione delle risorse umane e della massa salariale. Prevede inoltre metodi di valutazione del personale e fissa programmi di reclutamento di docenti o ricercatori di provenienza esterna. A posteriori dovrà intervenire una valutazione dell’esecuzione del contratto.
Nel quadro delle nuove responsabilità nella gestione delle risorse umane, il CdA potrà modulare gli impegni di servizio dei docenti (insegnamento, ricerca, altre mansioni amministrative), attribuire premi al personale, creare dispositivi per migliorare la retribuzione del personale più meritevole, reclutare a tempo determinato o indeterminato personale tecnico o amministrativo di categoria A o personale per assicurare funzioni di insegnamento e/o di ricerca. Sulla modulazione degli obblighi di servizio dei docenti, la legge non entra in dettagli, ma potrebbe essere materia di un successivo decreto di applicazione.
Inoltre la legge autorizza lo Stato a trasferire alle università che ne fanno domanda la piena proprietà dei beni mobili e immobili messi a loro disposizione dallo Stato.
Nel punto chiave della selezione dei docenti, la nuova legge insedia un Comitato di selezione che dovrebbe attuare un reclutamento dei docenti più rapido, più aperto e più trasparente, senza pregiudicare le garanzie scientifiche idonee all’esercizio della funzione docente. Il Comitato è creato da un CdA ristretto ai docenti (enseignants-chercheurs) e al personale assimilato. E’ composto da docenti e personale assimilato, tutti di rango almeno pari a quello del candidato da reclutare e scelti fra i membri della disciplina pertinente dietro segnalazione del CS. Il Comitato è valido solo se i suoi membri sono almeno per metà esterni all’ateneo.
Per diversificare le risorse, rafforzare le relazioni delle università con il loro retroterra economico e attivare nuove fonti di finanziamento, la legge istituisce due nuovi tipi di fondazioni: le fondazioni universitarie, senza personalità morale, e le fondazioni partenariali, che riuniscono le università e altre istituzioni pubbliche e private interessate alle attività universitarie di formazione e ricerca. La legge incoraggia il mecenatismo a favore delle università con riduzioni fiscali.
In ogni università è obbligatorio istituire un ufficio per l’inserimento professionale degli studenti. Nell’iter d’approvazione punti qualificanti originali della riforma sono stati stralciati per forti pressioni sindacali e studentesche. E’ stata eliminata la selezione a numero chiuso per l’iscrizione al Master (II livello), la liberalizzazione delle tasse d’iscrizione e la possibilità di scegliere il presidente d’università anche tra personalità non accademiche.
Valérie Pécresse ha reso note in primavera le prime 20 università selezionate che beneficeranno, a partire dal gennaio 2009, delle quattro basilari competenze concesse in forza del passaggio all’autonomia: gestione contabile e finanziaria, delle risorse umane, dei servizi d’informazione e gestione immobiliare. A un anno dal varo della riforma tutte le università hanno già rinnovato i CdA secondo le nuove norme.

Riflessioni e dibattiti sulla riforma

Una lista di opinioni autorevoli espresse a caldo dopo il varo della riforma consente riflessioni di un certo rilievo anche in Italia dove si attende in prospettiva la riforma della governance degli atenei.
Diverse opinioni critiche riguardano il nuovo sistema del  reclutamento dei docenti, che non eliminerebbe il localismo, ritenuto piuttosto promosso che contrastato dai CdA, mentre il diritto di veto dei presidenti d’ateneo sulle assunzioni non darebbe sufficienti garanzie. Meglio proibire in maniera generalizzata il reclutamento in sede dei candidati locali e conferire per contro ai presidenti i mezzi per attirare o trattenere i migliori nelle strutture d’eccellenza della loro università. Su Le Figaro, B. Salanié, professore alla Columbia university, ritiene invece che, alla luce della sua esperienza del sistema universitario americano, l’autonomia nel reclutamento dei docenti e degli amministratori debba essere totale al fine di migliorare la qualità degli atenei con la conseguente emulazione positiva.
Un collettivo di studenti e medici lancia un allarme: “Qui veut la peau de la médecine française?”. Il presidente e alcuni membri della conferenza dei presidi delle facoltà di medicina temono che la riforma ne minacci l’autonomia e il riconoscimento della specificità, che oltre alla formazione e alla ricerca comporta una missione sanitaria.
Su Liberation J.-F Spitz, professore alla Sorbonne, parla di “egalitarisme en trompe l'œil” dato che le università, senza aumentare le tasse d’iscrizione e senza praticare la selezione all’ingresso, non potranno garantire la professionalizzazione e la ricerca. Sullo stesso quotidiano J. Fabri parla di una “regressione feudale dell’insegnamento superiore” essendo favorito uno sviluppo ineguale degli atenei (a “plusieurs vitesses”, o almeno a due velocità) e soprattutto la disuguaglianza tra i grandi atenei e gli altri. Ma, si obietta, il sistema a due velocità esiste già in Francia tra le Grandes Écoles, che beneficiano di grande autonomia, selezionano all’ingresso gli studenti e fissano liberamente le tasse d’iscrizione, e le università che sono al traino. Anche le università sono già diverse, ma le ineguaglianze dovrebbero ridursi con la riforma che prevede l’autonomia di tutte le università nel giro di cinque anni.
Si spera che una maggiore autonomia inciti gli atenei ad attirare migliori studenti e ricercatori. Comunque lo Stato, concedendo una maggiore autonomia, dovrebbe dotarsi di mezzi di controllo e valutazione finanziaria più performanti alla scadenza di ogni contratto pluriennale d’ateneo, ma questo il testo della riforma non lo precisa. Solo sul piano pedagogico e scientifico la valutazione è in via di attivazione con l’AERS (Agence de l'évaluation de la recherche et de l'enseignement supérieur). Quando lo Stato non gestisce più le università, deve diventare il garante del loro buon funzionamento con procedure di valutazione che conducano all’attribuzione di fondi supplementari ma anche alla ristrutturazione o alla chiusura. Senza questo meccanismo, la trasposizione al settore pubblico dei metodi di gestione del privato porta a una miscela perversa di autonomia e irresponsabilità. Infatti l’autonomia non significa per le università la privatizzazione, come alcuni sostengono, perché è sempre lo Stato che fissa le regole principali specie del finanziamento. Anche negli Stati Uniti, dove esistono numerose università private, in maggioranza restano pubbliche nonostante una forte autonomia del loro funzionamento.
Un vantaggio delle università anglosassoni è che mettono fin dall’inizio gli studenti a contatto con la ricerca, ma per fare questo occorrono, ad esempio per le scienze umane, delle biblioteche, ma in Francia sono scarse e con posti insufficienti, per non parlare degli orari d’apertura assai limitati, che la riforma intende prolungare.
Su Le Figaro Y. Laszlo e J.-L. Harouel deplorano l’abbandono di una governance orizzontale a favore di una gestione verticale, centralizzata. Sarebbe stato meglio restituire potere alle vecchie facoltà e istituire una selezione all’ingresso al primo anno che avrebbe messo le università ad armi pari con le Grandes Écoles. Ma alcuni non ritengono che questa sia  davvero la vocazione delle università.
Sui rafforzati poteri del presidente vari commentatori, specialmente giuristi, denunciano la “dictature du président”, “les dangers de l’hyperprésidentialisme” e la “hypercentralisation des pouvoirs”, preferendo una governance collegiale degli atenei. Secondo F. Gaudu della Sorbonne, la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente e la riduzione dei membri del CdA potrebbe minacciare la sopravvivenza di certe discipline. Altri tuttavia vedono nella riforma un rafforzamento della legittimità democratica del presidente (eletto da tutti i membri eletti del CdA), un presidente promotore di progetti, animatore di equipe e giudicato dai suoi stessi risultati. Peraltro il diritto di veto del presidente sul reclutamento esisteva già nelle Scuole Politecniche e negli Istituti, segnatamente nello IUT (Institut universitaire de technologie).
Su Le Point, J. Marseilie si è domandato se l’autonomia delle università e il potere rinforzato dei loro presidenti possano far uscire il sistema dal suo stato attuale di miseria. La risposta: « bien sur que non! » E neanche i pochi miliardi promessi « peuvent faire l’affaire ».  Per adeguare l’università francese alle norme standard europee occorrerebbe dedicarle più di 10 miliardi di euro l’anno in aggiunta a quelli attualmente stanziati.

Confronti tra riforme incompiute

In Francia l’università acquista con la riforma fondi supplementari (5 miliardi di euro in cinque anni) e un’autonomia gestionale che tuttavia non è stata estesa a due tabù, la tassa d’iscrizione (resta a discrezione dello Stato e assai bassa) e la selezione all’ingresso (non sarà possibile il numero chiuso).
In Italia, che peraltro non ha la risorsa qualificante delle Grandes Écoles, si consolida nelle università la selezione all’ingresso mentre l’autonomia non guadagna finanziariamente per il blocco delle tasse d’iscrizione (il loro gettito non può superare il 20% del Fondo di finanziamento ordinario, Ffo) e anzi perde in quanto il governo riduce in cinque anni il Ffo del 19,7%, taglio in parte compensato dal sostanziale blocco del turn-over (si potrà assumere solo il 20% delle cessazioni dal servizio), dalla soppressione per un anno di uno scatto di anzianità del personale docente, dal congelamento di una parte del salario accessorio per il personale non docente e dalla riduzione degli assetti organizzativi di almeno il 10% già entro il 2008 (DL 112/08). Anche nell’ipotesi che tali misure abbattano le spese del 10%, resta comunque un taglio rilevante del finanziamento complessivo. Consideriamo un’università con il bilancio in pareggio, che riceveva 100 dal governo e 20 dalle tasse di iscrizione. Riducendo il contributo dello Stato a 80, il gettito delle tasse deve ridursi a 16 (il 20% di 80), con una riduzione complessiva delle entrate pari a 24, e allora se i risparmi nel costo del personale sono pari a 10, il taglio effettivo è di 14 (D. Checchi e T. Jappelli, lavoceinfo 02-09-08).
La possibilità di trasformare gli atenei in Fondazioni, lanciata sia in Francia che in Italia, dovrebbe facilitare la raccolta di contributi e donazioni da parte dei privati, anche in vista delle relative agevolazioni fiscali previste dalla legge. Comunque non verrebbe meno il sistema di finanziamento pubblico, che convoglia attualmente alle università la parte più consistente delle risorse. Tuttavia risulta che le fondazioni siano scarsamente capaci, una volta istituite, di attrarre risorse da imprese e  privati, come attestano dati dagli Stati Uniti. Berkeley, università pubblica, ha ricevuto nel 2003 contributi statali pari al 38%, tasse studenti pari al 13%, e contributi di privati per l’11%. Nello stesso anno Harvard, l’università più ricca, ha ricevuto contributi di privati solo per il 7%.
Le nuove misure legislative italiane e francesi che incidono sull’università restano incompiute, entrambe invischiate da una residuale demagogia. La riformata governance degli atenei francesi potrebbe essere soddisfacente anche in Italia a patto di togliere i vincoli alle tasse d’iscrizione e di incidere pesantemente nella distribuzione del Ffo in base a controlli severi regolari e neutrali e non invece riducendolo indiscriminatamente a tutti gli atenei. Il numero chiuso all’ingresso e l’adeguamento delle tasse d’iscrizione sarebbero altrettanto necessari in Francia per rilanciare la competitività dei suoi atenei sul piano della qualità scientifica e didattica.
Prof. Paolo Stefano Marcato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna