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La riforma universitaria in Francia. Argomenti per discutere sulle autonomie degli atenei PDF Stampa E-mail
UNIVERSITA’/notizie n. 4 - 2009
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La riforma universitaria in Francia. Argomenti per discutere sulle autonomie degli atenei
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La dualità del sistema di istruzione superiore

Il sistema di istruzione superiore francese ha due tipologie: le università, istituzioni pubbliche aperte a tutti gli studenti, e le Grandes Écoles (GE), in maggior parte pubbliche e alcune private, caratterizzate da un’elevata qualità dell’insegnamento, ma anche da una selezione molto severa all’ingresso. Nei licei si trovano le Classes préparatoires aux grandes écoles (CPGE) che preparano, in 2 o 3 anni, gli allievi ai concorsi d’entrata. Le GE dispensano di regola l’insegnamento su un solo settore (scienze e tecniche, economia e gestione, scienze politiche). Le GE comprendono: GE d’Ingénieurs (la più famosa è l’École Polytechnique), GE de Commerce (la più nota è Hautes Études Commerciales - HEC Paris), GE cui si accede senza CPGE, la più famosa è l’Institut d’Études Politiques de Paris), GE d’Administration (la più prestigiosa è l’École Nationale d'Administration - ENA), Accademie militari (la più nota è l’École Spéciale Militaire de Saint-Cyr). Si distinguono inoltre quattro GE dette Écoles Normales Supérieures (ENS), che conferiscono una formazione scientifica e culturale di alto livello per la preparazione ai concorsi di aggregazione per accedere al corpo dei professori universitari, e danno accesso alla ricerca, all’insegnamento secondario e superiore nonché alle carriere nelle più elevate funzioni pubbliche.
Le GE sono diventate gli autentici vivai delle élites del Paese e fanno risaltare le carenze delle università che non offrono più l’ascensore sociale di un tempo. Nonostante la rivalità vi è comunque una tendenza progressiva alla collaborazione tra GE e università, specialmente nei Master e nelle scuole di dottorato con numerosi programmi coabilitati.
La dicotomia GE – università ha un fondamento storico. Quando scoppia la rivoluzione francese le università sono interamente ecclesiastiche. La rivoluzione sopprime l’università ma avendo bisogno di formare dei quadri inventa le GE sulle quali era più facile il controllo politico. E quando le università sono state ricreate le GE avevano già una loro dinamica.
A partire dal 2002, le università francesi applicano il modello 3+2, come indicato dal Processo di Bologna quale via all’armonizzazione dei sistemi universitari europei. Il tradizionale percorso di studi prevedeva un’organizzazione in tre cicli, con un biennio generale, metodologico o tecnico (Deug = Diplôme d’études universitaires générales, Deust = Diplôme d’études universitaires scientifiques et techniques), un triennio di studi specialistici con la Maîtrise (tesi di laurea) finale, un terzo ciclo dedicato all’orientamento professionale e il dottorato. Da questo si è passati a una nuova struttura a tre livelli, il modello LMD (Licence, Master, Doctorat o 3-5-8), che prevede un primo livello di studi, della durata di 3 anni, per acquisire una laurea di I livello (Licence/Bachelor) pari a 180 crediti Ects (Sistema europeo di accumulazione e trasferimento dei crediti). Lo studente che ha completato il I livello di studi può iscriversi a un Master per specializzare i suoi studi nei due anni successivi con altri 120 crediti Ects. Il percorso di studi può quindi proseguire nel dottorato, che prevede un esame finale e ha la durata di tre anni. Tra gli effetti della riforma LMD il più notevole è l’elevazione del Diplôme, ora Licence, da due a tre anni.


In Francia vi sono 82 università che ospitano 1,4 milioni di studenti. Sono teoricamente tutte uguali, nel senso che il titolo di studio si ritiene valido indipendente dall’ateneo in cui è stato conseguito, come in Italia. Ma le università sono giudicate il parente povero del sistema d’istruzione francese. Lo Stato concentra, infatti, i finanziamenti sulle Grandes Écoles, dove si entra per concorso, e trascura le università, in particolare quelle periferiche. Inoltre, nel primo ciclo dell’università, quello della Licence, si rileva un altissimo tasso di abbandoni che arriva al 50% degli iscritti al primo anno che non hanno superato gli esami al termine dei loro due primi semestri. Ogni anno sono circa 90.000 gli studenti che lasciano gli studi senza un diploma d’istruzione superiore. E fra loro la disoccupazione è al 19%. Cinque anni dopo la fine dei loro studi il 70% degli studenti delle Grandes Écoles sono quadri, contro soltanto il 33% di quelli che escono dall’università con una Licence.
Solo il 25% della popolazione attiva (tra i 25 e i 64 anni) ha seguito studi superiori, molto meno degli Stati Uniti dove circa il 40% di questa classe d’età li ha seguiti, meno anche della Svezia (circa il 35%) e del Regno Unito (circa il 30%). Si stima che in Francia quasi 170.000 liceali (22%) rinuncino annualmente a iscriversi all’università.

 

L’insoddisfazione per il sistema

Invitato da Le Monde a definire la crisi dell’università, Michel Kaplan, già presidente della CPU (Conferenza dei presidenti delle università), elenca tre problemi: l’insufficienza dei finanziamenti, del 40-60% inferiori a quelli di Paesi paragonabili, un insufficiente orientamento degli studenti che si lasciano entrare in corsi di studio per i quali non sono stati formati, preparati, e infine la ricerca non ancora dotata dei mezzi necessari. Anche l’eccessiva parcellizzazione degli atenei è ritenuta incongrua per una ricerca d’avanguardia che richiede invece la concentrazione delle risorse, come si cerca di fare con i PRES  (Pôles de recherche et d’enseignement supérieur). Per contro uno dei difetti lamentati è che le GE non impongono ai loro migliori elementi di fare la ricerca. All’università, d’altra parte, i giovani ricercatori sono troppo oberati dalla didattica proprio nel loro periodo più fecondo per la ricerca, cui scarseggia anche il personale tecnico di supporto.
Critiche più severe puntano il dito sulle responsabilità dello Stato in ordine alla massificazione dell’insegnamento, alla povertà di biblioteche e laboratori di ricerca, alla gestione calamitosa delle risorse umane, a una governance degli atenei fondata sulla moltiplicazione di organi tanto pletorici quanto impotenti.
Quella che, dall’interno del sistema, chiamano la “povertà” dell’università francese si specchia in quanto ciascuno studente paga per iscriversi: un po’ meno di 180 euro l’anno, meno di una tariffa forfait per il suo telefonino. Per confronto, in Spagna la tassa d’iscrizione varia da 600 a 1000 euro, e in Italia in una facoltà scientifica, ad esempio all’università di Napoli,  varia da 1008 a 1712 euro l’anno.
Ma lo Stato francese non integra a sufficienza gli scarsi fondi raccolti dalle tasse d’iscrizione. Infatti eroga per studente universitario per anno in media 7.200 euro contro 10.170 per un liceale e fino a 30.000-50.000 per uno studente di ENS. Si cita per confronto Princeton, una delle più grandi università degli Stati Uniti, che dispone di 110.000 euro l’anno per ciascuno studente, contro i 3.300 euro di cui la famosa Paris-VI Sorbonne dispone per studente, meno del costo di un bambino alle scuole materne. In Italia un bambino all’asilo nido costa 7.173 euro a Milano e 11.300 euro a Napoli (Corsera 23-08-08).
Hélène Rey, professore alla London Business School, ha sottolineato il paradosso delle università francesi, che, nonostante la politica delle tasse d’iscrizione assai ridotte, attirano proporzionalmente meno studenti di quelle degli Stati Uniti e del Regno Unito.
Il sistema di formazione delle élites viene accusato, da un punto di vista sociologico, di forte tendenza all’endogamia. George Charpak ha osservato che se un Paese di 60 milioni di abitanti recluta i suoi ingegneri in ambienti che rappresentano solo il 10% della popolazione è come se uno riducesse questa popolazione a 6 milioni di abitanti. Questo è appunto il caso della Francia, che seleziona certe sue élites come se contasse solo 6 milioni di abitanti. D’altra parte molte famiglie pagano volentieri fino a 8000 euro di tassa d’iscrizione pur di far entrare i giovani in istituzioni di alto rango quali Politecnici, HEC e ENA, che garantiscono un sicuro inserimento professionale.
E’ soggetta a critiche anche la scarsa concorrenza tra le università. In effetti, in numerosi casi le università francesi si sono protette dalla concorrenza assicurandosi che ogni disciplina venga insegnata da una sola istituzione in ciascuna regione.
Oltralpe non si ritiene più accettabile che la retribuzione mensile di un professore universitario di 50-55 anni arrivi appena a 4500 euro, a fronte di retribuzioni doppie o triple in altri Stati europei, per non parlare della retribuzione dei maîtres de conférences, l’altra categoria dei docenti  universitari (enseignants-chercheurs).
Da un sondaggio Le Figaro-BVA (Istituto di studi di mercato e di opinione), realizzato nel giugno 2007 su 950 persone, è risultato che per il 37% degli interrogati la qualità delle università francesi si sta deteriorando, il 35% la considera ristagnante e il 56% spera nel governo per migliorarla.

Uniformità, povertà, irresponsabilità, autoreferenzialità

Alain Supiot sul Nouvel Observateur (27-06-2007) ha puntato il dito sui quattro grandi mali dell’università francese: l’uniformità, la povertà, l’irresponsabilità e il ripiegamento su stessa (repliement sur soi, che incorpora anche il significato di autoreferenzialità).
L’uniformità è una finzione per cui gli universitari dedicano tutti la metà del loro tempo alla ricerca e l’altra metà all’insegnamento, mentre in realtà molti non fanno più ricerca, mentre le 82 università sono tutte uguali per i titoli di studio che conferiscono ma in realtà sono diverse per il livello e la difficoltà degli studi, per i legami con la ricerca, per le prospettive di collocamento degli allievi.
La povertà, oltre ai fondi statali per studente assai limitati (in media 7200 euro l’anno contro cifre doppie in altri Stati dell’UE), si riferisce alla scarsità di amministratori capaci di gestire le pratiche della ricerca a livello internazionale, alla difficoltà di orientare gli studenti del primo anno in base alle loro capacità, e alle basse retribuzioni di tutto il personale, che porta molti docenti a cercare remunerazioni supplementari a scapito della ricerca. Secondo M. Kaplan, manca personale altamente qualificato in gestione finanziaria, delle risorse umane e del patrimonio. La povertà è anche quella edilizia (le délabrement des bâtiments universitaires) con troppi edifici fatiscenti e biblioteche dove in media vi è un solo posto per ogni 18 studenti. Ma del patrimonio immobiliare la riforma non si occupa specificamente, anche se prevede uno sforzo finanziario ragguardevole con 1 miliardo di euro l’anno per l’insegnamento superiore e 4 miliardi di euro in 5 anni per la ricerca, con l’obiettivo di portare al 3% del pil il contributo statale.
Il governo francese venderà una quota del 3,7% del colosso energetico Edf per finanziarie un piano di investimenti da 5 miliardi di euro destinato alla modernizzazione delle università. Inoltre vi sarà una sovvenzione una tantum di 250.000 euro per ogni università che ha i requisiti per passare all’autonomia.
L’irresponsabilità si esemplifica nella possibilità per un docente di non avere problemi di retribuzione e di carriera anche trascurando gli studenti per attività più lucrative, e per un presidente mediocre la possibilità di non rendere mai conto di una gestione scadente.
L’autoreferenzialità si riferisce specialmente al localismo nel reclutamento dei docenti, con la preferenza generosamente accordata ai candidati interni a danno degli esterni. In Francia all’università si recluta “entre soi” (Le Monde, 01-05-2008). L’endogamia accademica, spesso denunciata ma mai quantificata, ha trovato per la prima volta due sociologi, O. Godechot e A. Jouvet, che ne hanno calcolato l’ampiezza: in tutte le università i candidati locali hanno 18 volte più chances dei candidati esterni di ottenere il posto e per certe discipline o università questo fattore può arrivare a 50 e anche a 500.
L’autoreferenzialità riguarda anche la governance, caratterizzata da carenza dirigenziale, di trasparenza e di apertura verso l’esterno. In questo quadro i presidenti d’università, eletti ante riforma dai tre consigli dell’università riuniti (CdA, CS = Consiglio scientifico, CEVU = Consiglio degli studi e della vita universitaria), s’adagiavano in una funzione di mediazione piuttosto che di azione.

La “guerra” perduta

Gli economisti in larga maggioranza concordano che la competitività dell’Europa passa attraverso l’istruzione e la ricerca. L’economia della conoscenza studia il modo in cui la società e le organizzazioni allocano le risorse - sia quelle tangibili che le immateriali - quando producono, distribuiscono e consumano conoscenza. La conoscenza è sempre di più una delle condizioni perché si possano diffondere benessere e sapere nella società. Ma in questa “guerra mondiale dell’intelligenza” i pessimisti ritengono che la Francia abbia perduto la principale battaglia, dato che investe solo il 3,8% del PIB (Produit intérieur brut) nell’economia della conoscenza contro il 4% della UE, il 5% del Giappone e il 6,5% degli Stati Uniti.
Alle considerazioni negative endogene si somma la ferita dell’orgoglio nazionale per i mediocri piazzamenti delle università francesi nelle classificazioni internazionali come quella di Shanghai e del London Times. Anche nella classificazione di Shanghai del 2008 la Francia non conta che tre istituzioni tra le prime cento, contro quattro nel 2007. L’università Paris VI ottiene il 42° posto, Paris XI il 49° e l'École Normale Supérieure (ENS Paris) il 73°.

L’avvio della riforma

Da tempo la CPU (la nostra CRUI) si pronuncia per una più ampia autonomia delle università, che senza riforma dispongono liberamente solo del 20% del loro budget. Anche il 58% dei francesi, in un sondaggio Le Figaro-BVA, pensa che l’autonomia sia opportuna e permetta un migliore adattamento delle università ai reali bisogni degli studenti e delle imprese.
L’anno scorso Valérie Precresse, ministro dell’insegnamento superiore e della ricerca, è riuscita a far approvare dalle due camere del parlamento francese, l’Assemblea nazionale e il Senato, la Legge sulle libertà e responsabilità delle Università (LRU), intesa a rilanciarle con una  maggiore autonomia (Legge n° 2007-1199 del 10 agosto 2007).
Gli scopi preminenti della riforma (tutti i riferimenti sono sul sito http://www.nouvelleuniversite.gouv.fr/) sono tre: portare il 50% dei giovani a un diploma d’istruzione superiore e conferire loro una formazione qualificante a garanzia di un avvenire professionale; uscire dalla paralisi dell’attuale governance delle università; garantire la visibilità internazionale della ricerca scientifica.