Home 2012 29 Maggio UNIVERSITÀ E SOCIETÀ
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L’Unione europea sta rendendo la sua università non diversa da tutto quello che tocca: un rigido insieme di lacci e meccanismi automatici, che pur generati da buone intenzioni sembrano essere l’unica conclusione finale dei tentativi dell’UE di regolare qualcosa a livello sovranazionale; il risultato finale rischia di essere un modello di valutazione delle attività individuali e collettive che si dimostra più efficace e condiviso nei settori a paradigma scientifico meglio individuabile, ovvero laddove le valutazioni erano già più ampiamente condivise anche prima, mentre nelle aree più problematiche non risolve granché. Dall’altra parte, almeno da noi, le critiche più sensate all’espansione internazionale di questo modello si avvitano su se stesse fino a restituire legittimità a un sistema di gestione che si è mostrato disfunzionale e cui dobbiamo le nostre difficoltà degli ultimi trent’anni, e l’unica critica che manca è probabilmente quella maggiore per il nostro caso, ovvero quella ai riformatori di non essere stati sufficientemente incisivi là dove serviva concentrandosi sul resto. In tutto questo sembra completamente assente dal dibattito lo sforzo, difficile e ingrato, per arrivare alla consapevolezza che il merito degli operatori e l’eccellenza delle attività di insegnamento e di ricerca non sono valori assoluti indipendenti da obiettivi, fini e modalità operative, e che quindi non possono né essere individuati in modo oggettivo dalle valutazioni univoche, né compresi senza fallo dagli specialisti del settore che chiedono al resto del mondo, in varie salse e con diverse argomentazioni, di “fidarsi”. È invece necessario mettere al centro, per tutti gli attori, la scelta e la responsabilità, interpretandole come i criteri dinamici e sempre ricontrattabili che sono. Per i docenti, che sappiano di dover progettare la loro carriera non esclusivamente secondo le proprie esigenze di vita e intellettuali; per le sedi, che possano usare gli strumenti migliori per informarsi ma sappiano che da ogni scelta dipende il loro stato di salute; per i governi, che possano gestire sovranamente i fondi sapendo che poi saranno verificati con severità in un sistema istituzionale in cui i fallimenti, anche fatti in buona fede, si pagano. Probabilmente nessuna di queste scelte sarà mai la migliore in assoluto, ma siccome nessuna opzione lo sarà allora è importante che questi passaggi non siano, di diritto o di fatto, imposti. Come tutto ciò possa avvenire nell’assoluta necessità di mantenere la base pubblica dell’istruzione non solo superiore, perché questo è il modello che si è mostrato nel corso del tempo nel contempo più efficace e più equo, è una sfida che, in questa sede, da solo, non sono in grado di affrontare. Quello che è certo, come ho detto sopra, è che la soluzione (in Italia ma non solo) deve essere strutturale: l’università e le scuole hanno problemi perché le istituzioni e la società non funzionano, anzi, con tutte le sue magagne il nostro mondo accademico è sul piano internazionale considerato generalmente “meno peggio” della nostra classe politica, del nostro sistema imprenditoriale, della nostra pubblica amministrazione, delle nostre istituzioni di rappresentanza di interessi. Per cambiarlo seriamente, non c’è bisogno solo di una riforma puramente interna, che se ben dosata potrebbe essere un palliativo momentaneo ma alla lunga vedrebbe riassorbire verso il basso i suoi effetti.
(Fonte: A. Mariuzzo, linkiesta 20-05-2012)