Home 2012 18 Marzo RIFORMA. LA GOVERNANCE DEGLI ATENEI NELLA RIFORMA GELMINI
RIFORMA. LA GOVERNANCE DEGLI ATENEI NELLA RIFORMA GELMINI PDF Stampa E-mail

Nelle sue parti migliori e più coraggiose, questa riforma mostra chiaramente il proposito di inserirsi nel solco dei mutamenti avvenuti nel resto d'Europa e di colmare i ritardi nella modernizzazione dell'università italiana. L'apertura alla domanda sociale, l'enfasi sull'efficienza delle strutture di governo e sul superamento del dualismo sia a livello centrale sia a quello di base, gli obiettivi di valorizzazione del merito, l'accentuazione del controllo ex post e della valutazione sulle prestazioni delle università sono scelte pienamente congruenti con le tendenze che interessano tutti i sistemi universitari europei. Giustamente la riforma ribadisce la centralità dell'autonomia universitaria, intesa come capacità di progettare e realizzare gli obiettivi prescelti, senza condizionamenti estranei all'interesse generale dell'ateneo, purché esercitata in modo responsabile. Ciò che era chiamato «gestione democratica e collegiale» degli atenei era in realtà una gestione basata su un macroscopico conflitto di interessi: gli organi decisionali che dovevano decidere sull'allocazione delle risorse (fondi, reclutamento ecc.) erano composti dai rappresentanti eletti di quelle strutture (facoltà, dipartimenti ecc.) che le risorse le richiedevano e le utilizzavano. Inoltre, la collegialità degli organi decisionali in cui tutti erano rappresentati impediva di fatto ogni selezione in base al merito, o a qualunque altro criterio comportasse decisioni selettive, per favorire invece meccanismi spartitori tesi a non scontentare nessuno, e quindi a conservare e riprodurre l’esistente. Tuttavia, l’alternanza invocata da varie parti, cioè una gestione manageriale basata sui puri poteri di efficienza e di competizione, presenta anch'essa un grave vizio: il fatto che solo le comunità scientifiche, non manager esterni, sono in grado di valutare problemi e prospettive nella loro area disciplinare. Solo chi ha una conoscenza approfondita e dall'interno delle potenzialità e delle criticità di una struttura o di un'area scientifica può indicare quali insegnamenti attivare, quali ricerche sostenere e quali profili privilegiare nel reclutamento.
In sintesi, quali sono le soluzioni adottate nella maggior parte degli altri Paesi? Un ruolo forte di indirizzo strategico del consiglio di amministrazione, a maggioranza di membri esterni nominati, come vertice unico dell'ateneo. Una grande rilevanza e forti poteri assegnati al rettore o presidente dell'ateneo, anch'esso per lo più designato. Un ruolo del senato accademico (o organo equivalente) diverso rispetto al passato: non più vertice reale dell'ateneo ma organo che ha il compito di fornire pareri su tutte le materie scientifiche e didattiche, senza però essere il decisore finale.
La riforma Gelmini, così prescrittiva su tanti aspetti di dettaglio, ha invece lasciato agli atenei il compito di scegliere nei loro statuti le soluzioni preferite su questi punti decisivi degli assetti di governance. E, com'era prevedibile, la stragrande maggioranza degli atenei ha scelto le soluzioni più conservatrici possibili, in alcuni casi addirittura sfidando lo spirito, se non la lettera, della legge di riforma. Per quanto è dato di sapere fino a oggi, infatti, nessuna università ha scelto un sistema di elezione di secondo grado (cioè di designazione da parte di organi collegiali) del rettore, per sottrarlo almeno in parte a meccanismi di voto di scambio e di ricerca di un consenso elettorale basato solo sulle capacità di mediazione. Per quanto riguarda il consiglio di amministrazione, il numero di membri esterni è stato quasi sempre stabilito nel minimo previsto dalla legge (le soluzioni prevalenti sembrano essere 3 su 11 o 2 su 10), e in non pochi casi si è cercato di rendere elettiva la scelta dei componenti interni (sfruttando un equivoco terminologico consentito dalla «timidezza» della legge).
Insomma, dirigismo sui dettagli e lassismo sui nodi cruciali rischiano di non risolvere quei problemi che una riforma della governance in senso europeo era chiamata ad affrontare.
(Fonte: M. Regini, Il Mulino 01/2012)