Faccio molta fatica a spiegare i meccanismi elettorali del nostro sistema accademico ai colleghi stranieri, o almeno a quelli che vivono nei paesi con le Università più avanzate sotto il profilo scientifico e didattico. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, per esempio, tutti i docenti devono fare a turno il Direttore di Dipartimento o il Preside di Facoltà, cariche percepite come un peso perché tolgono tempo a ricerca e insegnamento. Ancora più chiara la situazione del Rettore, che nel mondo anglosassone viene di solito chiamato “President”. Esiste una carriera parallela per docenti che scoprono di amare il lavoro burocratico. Chiunque la intraprenda deve studiare materie amministrative e giuridiche, dimostrando poi di avere i titoli giusti per gestire un sistema complesso. Quando un President scade o si dimette vene bandito un concorso riservato a persone che possiedono i titoli dianzi citati. La scelta spetta a un comitato (board) che non è composto da docenti. Ecco perché in quel caso è difficile che un ateneo fallisca: è gestito con criteri manageriali. E, se fallisce, nessuno pensa di salvarlo tappando i buchi con il denaro pubblico. Inutile dire che in Italia un sistema simile viene tacciato di mancanza di democraticità da parte dei politici (accademici). Mi chiedo, tuttavia, se è veramente democratico costringere i docenti universitari a una serie infinita di primarie, campagne elettorali, riunioni burocratiche di ogni sorta. E, se sì, cosa intendiamo per “democrazia”? Non stiamo forse scordando che l’Università è nata per essere una comunità di professori e studenti, in cui i primi hanno il compito essenziale di impartire ai secondi un’educazione di carattere superiore? A mio avviso la risposta è automatica, e spiace costatare che in Italia si procede proprio nella direzione opposta. Dopo la fine dell’università che era definita “dei baroni”, è cresciuta in modo abnorme una schiera di docenti che hanno fatto della “politica accademica” la loro principale – e a volte esclusiva – attività. Costoro spendono la maggior parte del tempo a organizzare elezioni, le quali si susseguono senza tregua. Perché non ci sono solo Dipartimenti e Facoltà, ma anche Corsi di laurea – triennali e biennali – Senati accademici, Consigli di amministrazione, e una miriade di commissioni importanti in cui c’è sempre qualcuno da eleggere. Per dirla in altri termini, l’Università è sempre più simile ai partiti politici. (Fonte: M. Marsonet, www.legnostorto.com 25-02-2012)
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