Home 2011 12 Agosto Una vittoria della ricerca italiana
Una vittoria della ricerca italiana PDF Stampa E-mail

Il New England Journal of Medicine pubblica un lavoro di italiani. Sarebbe già una notizia perché il New England pubblica il 4% dei manoscritti che riceve, ma c'è di più. È una storia che comincia verso la fine degli Anni 70. C'erano Farmitalia e Carlo Erba allora a Milano e Federico Arcamone aveva sintetizzato la doxorubicina. L'hanno provata nel tumore della mammella. Le donne che prendevano il farmaco guarivano le altre no. Questi studi li faceva Gianni Bonadonna all'Istituto dei tumori. A un certo punto deve aver pensato «perché non proviamo anche con altri tumori?». La cura per il linfoma di Hodgkin comincia così. Da quel momento ragazzi che prima morivano hanno cominciato a guarire. Nel giro di qualche anno la terapia di Bonadonna (doxorubicina associata ad altri farmaci) diventa il modo di curare il morbo di Hodgkin negli Stati Uniti, in Europa, dappertutto. Ma alla fine degli Anni 90 certi medici tedeschi vogliono fare di più: «Usiamo più farmaci e a dosi più alte, i risultati saranno certamente migliori». Trattano migliaia di pazienti, col loro schema di cura quasi 9 pazienti su 10 guariscono dalla malattia, con quello di Bonadonna 7 su 10. Gli ematologi della Germania vorrebbero imporre questo regime a tutti, gli altri però ci vanno piano. Le dosi dei tedeschi sono troppo alte, gli effetti negativi di queste cure alla lunga si faranno sentire. E allora? È di nuovo il momento degli italiani. Si mettono insieme gli ematologi di Milano, Bologna, Bergamo, Pavia, Torino, Terni, Bari, Udine, Cuneo. Un po' è vero, gli ammalati che seguono lo schema dei tedeschi all'inizio hanno una risposta migliore. Quando però la malattia ricade, quelli che hanno fatto il vecchio schema possono ancora essere guariti, gli altri no.

Questo studio ci insegna moltissimo, per esempio: 1) che un Paese moderno non può non avere una sua industria farmaceutica; 2) che non è detto che le cure nuove siano meglio di quelle vecchie; 3) che la medicina va avanti con grandi medici e in grandi istituti di ricerca (quasi sempre pubblici); 4) che con le cure bisogna avere pazienza, i giudizi si danno alla fine, servono anni.
(Fonte: G. Remuzzi, Corsera 24-07-2011)