Tasse universitarie |
In Italia il sistema delle tasse universitarie ha più di qualche lacuna. In particolare si registra un vero e proprio gap tra le previsioni legislative e la realtà dei fatti. Il tutto a discapito delle famiglie meno abbienti. Vediamo perché. L’attuale normativa nazionale sulla contribuzione studentesca prevede che gli iscritti paghino le tasse secondo importi stabiliti autonomamente dai diversi atenei. Ai quali il Ministero impone la condizione che l’introito annuo complessivo non superi il limite del 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario[1]. Un secondo vincolo che le università devono rispettare è di garantire la progressività di tassazione in base alla condizione economica degli studenti, in base all’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE)[2]. La realtà dei fatti è ben diversa. Il limite del 20% sul FFO è ampiamente superato da molti atenei italiani e tale sforamento è destinato a peggiorare se si considera la riduzione generalizzata prevista sul FFO. Inoltre, ciascun ateneo utilizza un suo metodo per la valutazione della condizione economica degli studenti – in alcuni casi viene considerata la somma dei redditi al lordo dell’Irpef, altre volte al netto – e la progressività del sistema è anch’essa molto arbitraria (talune università utilizzano 5 scaglioni di contribuzione, altre 486 fasce). E’ indubbio che il sistema stia tacitamente reclamando un cambiamento, ma è indispensabile valutare bene quale direzione si vuole prendere. Nel maggio 2011 è stata presentata un’interrogazione parlamentare ai Ministeri dell’Economia e dell’Istruzione, condivisa da diverse parti politiche, in cui si propone di modificare il sistema di contribuzione studentesca in Italia sulla scia di quanto è stato fatto nel Regno Unito. La proposta prevede di autorizzare gli atenei ad aumentare le rette universitarie fino a una certa soglia (che in UK è stata fissata a 9.000£ l’anno) e di consentire agli studenti che rispettano determinati requisiti di coprire tale spesa con un prestito garantito dallo Stato, da restituire quando il laureato guadagnerà un reddito superiore a una certa soglia (stabilita pari a 21.000£ in UK). Secondo i proponenti un sistema siffatto potrebbe «essere di incentivo a iscriversi all’università, creando una sana competizione fra gli atenei che miglioreranno la loro offerta formativa. La misura dà più risorse agli atenei senza complicazioni burocratiche e amministrative, e premia il merito senza penalizzare i più poveri». Che esista una relazione “più tasse quindi più entrate per gli atenei” = “maggiore qualità dell’offerta formativa” non è stato ancora dimostrato. In base a quanto pubblicato dall’OECD[3] uno studente italiano in media spende in tasse universitarie 827 euro l’anno, contro i 590 della Spagna, i 480 della Francia e gli importi fissati in un range di 500-1.000 euro/anno introdotti di recente solo in alcune zone della Germania. In numerosi altri paesi (Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia) l’accesso all’istruzione universitaria è gratuito, non per questo questi paesi presentano sistemi di istruzione meno prestigiosi dei nostri. Ancor più dubbia è la possibilità che l’innalzamento delle tasse e la possibilità di indebitarsi per farvi fronte possano costituire un incentivo a iscriversi all’università. Su questo punto sono gli stessi inglesi a mostrare alcune perplessità. In seguito alla riforma del 2004, in cui si stabilì un top-up fee di 3.000£[4], i dati hanno mostrato sì una stabilità nella domanda di formazione superiore, ma è emerso che gli studenti delle fasce meno abbienti – in cui l’avversione all’indebitamento è maggiormente radicata – hanno preferito tendenzialmente l’università “sotto casa” optando per istituti meno costosi[5]. Altre indagini condotte nel Regno Unito hanno evidenziato dati quantomeno preoccupanti sulle intenzioni mostrate dagli studenti e dalle loro famiglie in merito alla possibilità futura di iscriversi all’università, in seguito all’ultima riforma che vede triplicate le tasse di iscrizione dall’a.a. 2012/13[6]: § 1 studente su 4 dichiara di voler ritardare l’iscrizione per lavorare a tempo pieno e risparmiare i soldi necessari a iscriversi (eventualmente) in seguito; molti genitori appoggiano i figli in questa decisione, poiché nel 51% dei casi si dichiarano non in grado di far fronte a spese di istruzione tanto onerose; § tra i genitori che pensano invece di contribuire alla spesa, il 24% rivela che utilizzerà quasi tutti i risparmi, circa il 10% dichiara che ri-finanzierà il mutuo della casa oppure la venderà per acquistarne una più piccola; § sempre al fine di limitare il debito, molti studenti affermano che, pur non volendo, saranno costretti a vivere in casa con i genitori per contenere le spese legate all’alloggio, e 1 studente su 3 dichiara che opterà per percorsi di studi con sbocchi occupazionali meglio retribuiti piuttosto che scegliere il corso secondo le proprie attitudini; l’8% dei genitori incentiverà i figli a iscriversi a un corso professionalizzante, in modo da intraprendere al più presto un’attività lavorativa. Gli studenti privilegiati s’iscriveranno quindi negli atenei migliori in cui pagheranno rette elevate, conseguiranno lauree di elevato valore e troveranno lavori ben pagati, forse. Non va dimenticata l’attuale condizione del mercato del lavoro in Italia, che vede un laureato a un anno dal conseguimento del titolo percepire in media 1.100 euro il mese, importo che a 5 anni dalla laurea non raggiunge i 1.400 euro[7]. Viene da domandarsi chi potrebbe permettersi di restituire il debito. Al contrario, gli studenti provenienti da famiglie meno abbienti s’iscriveranno nelle università meno costose, conseguiranno un titolo meno spendibile e troveranno lavori mal retribuiti, con cui dovranno restituire un debito probabilmente più elevato di quello contratto dai loro compagni più benestanti. Dai dati sul sistema inglese, gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito sono per il 43% più indebitati rispetto agli altri[8]. -------------------------------------------------------------------------------- [1] Il Fondo di Finanziamento Ordinario è la quota di finanziamento pubblico a favore delle università destinato alla copertura delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali, comprese le spese per il personale docente ricercatore e non docente. [2] L’ISEE, definito dal DM 31 marzo 1998, n.109, è il risultato della somma dei redditi lordi della famiglia e del 20% dei patrimoni mobiliari e immobiliari, il tutto diviso per un coefficiente che tiene conto del numero di componenti. [3] OECD Indicators, Education at a Glance 2010. [4] La precedente riforma del sistema di contribuzione nel Regno Unito aveva autorizzato le università ad aumentare le tasse universitarie fino a un massimo di 3.000£. Fino allora gli studenti pagavano un importo di circa 1.200£ l’anno. [5] Brenda Little, Centre for Higher Education Research and Information, The Open University, presentazione presso EUROSTUDENT IV final Conference, Copenhagen, Giugno 2011. [6] Si veda AIC - Association of Investment Companies, UK, Giugno 2011. [7] XIII Indagine sulla Condizione occupazionale dei laureati, Almalaurea, 2011. [8] C. Callender, Access to Higher Education in Britain, in Cost-sharing and Accessibility in Higher Education: A Fairer Deal?, Springer, 2008. (Fonte: D. Musto, www.west-info.eu 04-08-2011) |