Home 2011 26 Febbraio La carriera del ricercatore a tempo determinato a confronto con il tenure-track dei paesi anglosassoni
La carriera del ricercatore a tempo determinato a confronto con il tenure-track dei paesi anglosassoni PDF Stampa E-mail

La L. 240/10 stabilisce che l’accesso al gradino iniziale della carriera accademica (ricercatore) non sia più a tempo indeterminato, ma preveda un periodo di minimo 6, massimo 8 anni con un contratto a tempo determinato (resta la possibilità d’ingresso direttamente come professore di prima o seconda fascia, previa abilitazione). C’è un primo periodo di prova (e una prima tipologia di contratto), che può durare 3 o 5 anni, dopo il quale c’è un secondo periodo di 3 anni (e una seconda tipologia di contratto, con uno stipendio superiore), alla fine del quale c’è la possibilità dell’assunzione in ruolo, che comunque richiede l’abilitazione (Art. 24). Non è chiaro in quali circostanze il primo tipo di contratto potrà durare 3 anni, in quali potrà essere esteso di altri 2 (la mia congettura è che i due anni di proroga siano offerti a quei ricercatori cui non si prevede di offrire il secondo tipo di contratto, per dare loro il tempo di ricollocarsi).

L’idea che l’accesso alla carriera accademica non avvenga direttamente con una posizione a tempo indeterminato, ma richieda un periodo (lungo) durante il quale la persona dimostra di essere portato per la ricerca e l’insegnamento, è scontata nei sistemi universitari di molti altri paesi. È un periodo: in cui è massimo l’incentivo all’impegno; tipicamente molto produttivo; durante il quale si gettano i semi di buona parte della produzione scientifica degli anni successivi; che funziona molto bene come meccanismo di selezione e allocazione efficiente del talento. Negli altri sistemi universitari, e in particolare nel mondo anglosassone, esso si presenta con due importanti caratteristiche. La prima è la gradualità: un ricercatore nel tenure-track di una delle università più prestigiose, cui quell’università non ritenesse di fare alla fine del periodo 3 l’offerta di un contratto a tempo indeterminato (la tenure), probabilmente troverebbe una collocazione in una delle università leggermente meno blasonate, e lo stesso avverrebbe via via scendendo nella graduatoria della qualità. In definitiva, il sistema garantisce un accoppiamento piuttosto efficiente tra la qualità dei ricercatori e quella delle università, e solo la coda inferiore della distribuzione dei talenti viene in genere espulsa dal mondo accademico. La seconda caratteristica è che l’università accumula durante il periodo una gran mole d’informazioni sulla persona e sulle sue capacità e su questa base può liberamente decidere se fare o no l’offerta di una posizione permanente. Il sistema prefigurato dalla legge non possiede queste due caratteristiche. L’abilitazione nazionale è un criterio più rigido, non graduabile: se è molto esigente, finisce per espellere dal mondo accademico risorse che avrebbero potuto dare un contributo scientifico e didattico positivo, pur se non di frontiera; se è poco esigente, mina alla radice l’idea stessa di premiare la qualità; qualunque sia il livello prescelto, esso vale per tutti, non consente adattamenti e gradualità di utilizzo. Inoltre, l’abilitazione nazionale tende a disperdere una parte considerevole d’informazione sul candidato, tutta l’informazione soft raccolta dalla sua università durante gli anni precedenti e non incorporata nell’elenco delle sue pubblicazioni. Di nuovo, i limiti della legge derivano dalla scelta di fondo che ho già ricordato, quella per un approccio “certificatorio” alla valutazione della qualità, che per sua natura è meno flessibile, graduabile e adattabile di un approccio “di mercato”.
(D. Terlizzese, lavoce.info 14-01-2011)